Il silenzio imposto dal Codice e la teologia: una questione non aggirabile


Le discussioni intorno al “silenzio dei teologi” – suscitate dal bel testo di Severino Dianich e dalle repliche che ne sono derivate – non si radicano semplicemente su abitudini o prassi tradizionali, né si spiegano solo con la cattiva o la buona volon. L’attitudine a censurare da parte degli uffici e ad autocensurarsi da parte dei teologi è il frutto di una lunga storia, che ha trovato negli ultimi 120 anni una accelerazione sorprendente, e pone oggi un compito di ripensamento del rapporto tra Magistero e teologia (o tra magistero pastorale e magistero accademico) con una pesante sporgenza sul versante giuridico.

Prima di affrontare la questione vorrei solo ricordare che la lotta con lo stato liberale e con il pensiero liberale ha segnato profondamente la storia della teologia cattolica, facendola inclinare pesantemente, tra Vaticano I e Vaticano II verso una “teologia d’autorità”. Questa opzione è stata pesantemente favorita dal passaggio antimodernistico, che a partire dal primo decennio del XX secolo, ha convinto molta parte della teologia cattolica della irrilevanza di un confronto serio con il pensiero moderno, riducendolo spesso ad una serie di “errori”, da cui tenersi alla larga. Potrà invece sorprendere il fatto di scoprire che dopo il Concilio Vaticano II, che ha sicuramente introdotto profondi motivi di ripensamento dell’antimodernismo cattolico dei primi 60 anni del 900, si sia potuti arrivare, istituzionalmente, ad una formulazione del rapporto tra teologia e magistero che nel nuovo codice del 1983 trova un assetto sicuramente molto più chiuso e rigido di quanto non fosse previsto nel codice del 1917. Forse possiamo comprendere meglio, esaminando questa normativa preoccupante, una delle radici del nostro attuale dibattito: per una interpretazione burocratica, e strettamente “codiciale”, le proposizioni di un teologo, se non offrono un “religioso ossequio dell’intelletto e della volontà” al magistero autentico della chiesa, cadono al di fuori di ciò che è consentito ad un teologo “obbediente”. Per capire la gravità di questo assetto normativo, riprendo ciò che aveva scritto alcuni anni fa un grande canonista, W. A. Boeckenfoerde, quando metteva in luce con molto acume una delle radici dell’attuale crisi del rapporto tra magistero e teologia.

  1. La regressione tra 1917 e 1983

E. W. Boekenfoerde ha messo in discussione non solo un certo modo di intendere la “dottrina ecclesiale” in rapporto alla “libertà della teologia”, ma ha anche sollevato dubbi sulla legittimità di una normativa come quella che definisce i doveri del teologo rispetto al magistero ecclesiale. Mi riferisco qui allo studio: E.-W. Boeckenfoerde, Roma ha parlato, la discussione è aperta. Struttura comunionale della Chiesa e parresia del cristiano, “Il Regno-attualità”, 50(2005), 739-744. . Nel mutamento di stile prevalente tra “negare l’errore” (magistero negativo) e “affermare la verità” (magistero positivo) possiamo rilevare un mutamento della normativa che sovraintende ai “doveri professionali” del teologo. Questo mi pare un aspetto molto significativo della evoluzione che il Concilio Vaticano II ha determinato nei rapporti tra magistero e teologia e che oggi mostra tutta la sua contraddittorietà.

E’ sufficiente considerare la “mens” dei due diversissimi articoli con cui il CJC del 1917 e quello del 1983 regolamentano i “doveri” del teologo:

a) il codice del 1917 (can 1324)

Satis non est haereticam pravitatem devitare, sed oportet illos quoque errores diligenter fugere, qui ad illam plus minusve accedunt; quare omnes debent etiam contitutiones et decreta servare quibus pravae huiusmodi opinones a Sancta Sede proscriptae et prohibitae sunt”.

Non basta evitare l’eresia, ma bisogna fuggire gli errori che vi accedono; perciò tutti devono osservare anche le costituzioni e i decreti con cui la S. Sede proscrive e proibisce le cattive opinioni.”

E’ chiaro come il compito del teologo è riletto all’interno di un rapporto con un magistero assunto nella sua versione prevalentemente negativa, che si esprime in termini di proposizioni erronee, dottrine eretiche, opinioni rigettate…

b) Il codice del 1983 (can 752)

Non quidem fidei assensus, religiosum tamen intellectus et voluntatis obsequium praestandum est doctrinae, quam sive Summus Pontifex sive Collegium Episcoporum de fide vel de moribus enuntiant, cum magisterium authenticum exercent, etsi definitivo actu eandem proclamare non intendant; christifideles ergo devitare curent quae cum eadem non congruant”

Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda.”

In questa seconda prospettiva è evidente che cosa è accaduto: si è passati da una lettura negativa a una lettura positiva del magistero. Così la obbedienza a tutte le “proibizioni e ai divieti” è diventata “religiosa obbedienza della volontà e dell’intelletto” a tutto intero il “magistero autentico”.

2. Una necessaria riforma del CJC

E’ stato W. Boekenfoerde ad aprire una discussione estremamente schietta e piena di parresia sulla compatibilità di questo canone con la funzione di “libertà critica” che il teologo esercita all’interno del magistero ecclesiale. Se infatti si estende la obbedienza dovuta a tutto intero il magistero (irreformabile e reformabile), allora ci si chiede come sarebbe stato possibile, con queste regole del 1983, uscire dalle posizioni del magistero “autentico”, ma “riformabile” dei papi ottocenteschi rispetto al tema della “libertà di coscienza”.

Da ciò consegue, necessariamente, una presa di distanza critica necessaria all’esercizio di una teologia pudica e critica. Seguiamo per un poco nel suo ragionamento W. Beokenfoerde:

Questo tipo di legislazione documenta una chiara tendenza volta a rafforzare il più possibile l’autorità e l’obbligatorietà degli interventi del magistero pontificio ordinario: pur venendo formalmente distinti da quelli del magistero infallibile, essi vi sono di fatto fortemente equiparati. La normativa in vigore persegue presumibilmente l’obiettivo di difendere il magistero pontificio ordinario da ogni obiezione e critica pubblicamente esposta. Ne consegue un manifesto rafforzamento disciplinare dell’autorità pontificia; ciò avviene però in contraddizione con l’intrinseco principio vitale della Chiesa, certamente non favorito dall’imporsi di tale tendenza.

Oppure ci si attende davvero che il credente e il teologo debbano accettare il fatto compiuto e aspettare, senza potersi impegnare in un qualche modo, che il magistero pervenga eventualmente a una posizione migliore? Aspettarsi tutto dallo Spirito Santo e affidargli la soluzione d’ogni problema senza impegnarsi e agire autonomamente è un atteggiamento definibile perlomeno come presuntuoso. Come si sarebbe potuto pervenire al riconoscimento della libertà religiosa se non vi fossero stati teologi e laici impegnati e disposti a porre in questione in termini critici e pubblicamente gli insegnamenti allora in vigore? Si pensi solo agli esponenti del personalismo attivi all’inizio del XX secolo.” (Roma ha parlato, 743)

Ecco un bell’esempio di audacia e di modestia del lavoro teologico, del quale la Chiesa continua ad avere bisogno, nonostante tutte le forme di amore del “quieto vivere” che la attraversano. Da questo equivoco canonico scaturiscono anche le tentazioni di censura e le propensioni alla autocensura, che si giustificano addirittura “per legge”. Così, seguendo la legge, rinuncio a fare il teologo: mi rimane solo una via: la teologia di corte.

3. Le ricadute sul giudizio intorno al “tradimento”

Questo problema istituzionale indica una serie di compiti, che attendono un grande sviluppo futuro, perché la tentazione del “silenzio” venga almeno ridimensionata. Ecco i tre punti principali da affrontare:

a) Il silenzio si impone in base alla applicazione “rigorosa” del canone 752, che non lascia al teologo alcuno spazio di differenziazione rispetto all’intero quadro del “magistero autentico”. Nella intenzione del canone, il teologo è ridotto a funzionario del magistero: se egli non ripete il magistero, gli resta solo la alternativa del silenzio.

b) Per uscire da questa prospettiva occorre una prima condizione essenziale: la riforma del canone 752, per custodire ecclesialmente una sfera legittima di ricerca del teologo, che gli permetta “istituzionalmente” di dire anche altro rispetto al magistero autentico. Perché il religioso ossequio sia rivolto non solo al Magistero, ma anche alla Parola di Dio e alla esperienza umana.

c) Ovviamente anche il modo di impostare la “promozione della teologia” da parte del Dicastero per la Dottrina della fede può incidere profondamente sul rapporto tra magistero e teologia. Ma non possiamo illuderci: una riforma del Dicastero, che non tocchi la formulazione giuridica del can 752, sarebbe molto prossima ad una messa in scena, in cui il copione di fondo non cambia.

Dal recente dibattito impariamo non solo alcune dolorose “immoralità” nella storia dei Dicasteri romani, ma anche una immoralità attuale della normativa canonica vigente. Il tentativo di produrre una teologia in forma di “zerbino” ha conosciuto tante eccezioni, grazie a Dio. Da quando il codice del 1983 è vigente, non è mancato il coraggio di molti teologi e teologhe, ma ciò ha potuto accadere sempre almeno “praeter legem”, se non “contra legem”! La norma attesta nel modo più chiaro il tentativo di imporre a tutta la Chiesa un “dispositivo di blocco” sul suo cammino di riflessione e di maturazione. Non può esserci né inquietudine, né incompletezza né immaginazione nel lavoro del teologo burocraticamente affidabile. Potremmo riferire anche a questa formulazione del can. 752 ciò che si legge in Amoris Laetitia (al n.303) a proposito del tentativo di blindare in una legge positiva tutte le potenzialità sante di vita familiare e matrimoniale. Allo stesso modo “pusilli animi est” pensare che la teologia possa lavorare soltanto nel recinto protetto della espressione magisteriale autentica. Questo ideale “meschino”, di una teologia messa sotto tutela, ci riguarda ufficialmente da 41 anni (1983-2024), è un prodotto avvelenato del post-concilio ed è giunta l’ora di portarlo alla fine, riformulando diversamente la relazione tra magistero e teologia anche sul piano giuridico. Una “vocazione ecclesiale del teologo” ha bisogno sempre anche di pazienza, guai a negarlo, ma altrettanto esige audacia e rispettosa parresia. Il can 752 vorrebbe teologi solo pazienti e senza audacia. La Chiesa cattolica deve comprendere che questo sbilanciamento sul silenzio sull’immediato può rassicurarla, ma a lungo andare le fa molto male, alterando la stessa idea di “tradizione”. Per concludere con una felice espressione di Marcello Neri, nel suo volume Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico (EDB 2021), possiamo affermare:

L’idea neo-integralista di tradizione…non ha nulla a che fare con la fedeltà all’insegnamento (ritenuto immutabile) della Chiesa, ma è il passaggio obbligato per creare ex nihilo il futuro ipermoderno del cattolicesimo quale setta globale; che altro non significa se non l’uscita della Chiesa cattolica dal senso della cattolicità della Chiesa” (p.73)

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