Il Sinodo e il diaconato femminile: la autorità del Signore e la padronanza di sé del ministro.


Nell’Instrumentum Laboris del prossimo Sinodo sulla “sinodalità”, al punto B 2.3, che reca il titolo “Come può la Chiesa del nostro tempo compiere meglio la propria missione attraverso un maggiore riconoscimento e promozione della dignità battesimale delle donne?” si legge la questione n. 4 così formulata:

“La maggior parte delle Assemblee continentali e le sintesi di numerose Conferenze Episcopali chiedono di considerare nuovamente la questione dell’accesso delle donne al Diaconato. È possibile prevederlo e in che modo?”

Nel grande cantiere del prossimo duplice Sinodo, questa domanda solleva un preciso compito anche per la teologia: quello di corrispondere ad una richiesta, che viene “dalla maggior parte delle Assemblee continentali” e che chiede “l’accesso delle donne al Diaconato”. Come prevedere e rendere praticabile questo “accesso” richiede alla teologia e ai teologi il coraggio di uno specifico lavoro. Che è già iniziato da tempo e che è accelerato a partire dal 2016, al momento della costituzione della prima Commissione vaticana sul diaconato femminile. Come è noto la questione della “ordinazione della donna” è diventata problematica da non molto tempo. E la esclusione della donna dal ministero ecclesiale ha goduto di una evidenza che era garantita dalla parallela esclusione da ogni ministero anche extraecclesiale. La cultura comune era la grande apologeta della esclusione femminile.

Il testo che qui brevemente presento vuole contribuire a promuovere il dibattito sull’accesso della donna al ministero ordinato, di cui il diaconato è il grado minore.

Le argomentazioni fondamentali intorno a questo tema, a favore o contro, sono di tre tipi:

a) ci sono argomenti di autorità, che possono limitarsi ad escludere, senza bisogno di spiegare perché.

b) ci sono argomenti fattuali o positivi, che possono invocare un testo, un atto o un fatto per scovare in esso un principio.

c) ci sono argomenti di convenienza e principi sistematici, che elaborano una spiegazione della esclusione o della inclusione in modo più complessivo.

Molto recente è la preoccupazione di riconoscere il problema della “ordinazione della donna” come un problema di carattere non disciplinare, ma dottrinale, ossia che implica, al suo interno, un atto decisivo per la fede. Se però esaminiamo la tradizione, possiamo costatare che fino al XX secolo la argomentazione ecclesiale, sul tema della ordinazione della donna, restava all’interno di una comprensione “minorata” della dignità femminile sul piano pubblico. La grande teologia medievale affronta il tema dentro una logica in cui è centrale questo argomento: per essere “ministri di Cristo” bisogna essere simili al Signore, nel senso che bisogna essere “padroni di sé”. Non c’è somiglianza con il Signore, e quindi non si può rappresentarlo, se si è “disabili”, se si è “assassini”, se si è “figli naturali”, se si è “schiavi”, se si è “incapaci” o “minori”, ma soprattutto se si è “donne”. Questo è l’elenco che si trova in S. Tommaso d’Aquino, che lo presenta capovolto. Che cosa accomuna tutti questi impedimenti? La mancanza di quell’elemento di “somiglianza naturale col Signore” che non è la anatomia, ma la autorità, intesa come padronanza di sé. Tutte queste categorie di persone sono incapaci di ministero perché “dipendono dagli altri”. Non possono testimoniare la autorità perché ne sono privi. Soprattutto questo vale per la donna, che direi ontologicamente viene pensata come dipendente o dal padre o dal marito. Mentre gli altri “incapaci” sono dipendenti “per contingenza”, la donna viene vista come incapace “per natura”. La impossibilità strutturale di una “emancipazione femminile” nella società chiusa implica la esclusione che ad essa possa essere affidata una rappresentanza ecclesiale: non è difficile pensare che questo impedimento sia “per sempre”: perché la donna non ha “somiglianza naturale” con il Signore in quanto manca di autorità. Il cambiamento del profilo culturale della donna, della sua autocoscienza e della sua presenza pubblica, della sua “padronanza di sè”, non è un fatto esterno alla tradizione della Chiesa, tanto meno è un peccato del mondo moderno.

Nel momento in cui, tra il 1963 e il 1965, con Pacem in terris e con Dignitatis Humanae, la donna viene riconosciuta “senza complessi di inferiorità” e “con dignità” all’interno della vita pubblica e il soggetto, maschile e femminile, viene letto come originariamente custode della libertà di coscienza, la antica argomentazione sulla “minorità femminile”, che resiste fino ad oggi nelle forme più camuffate, diventa del tutto inservibile, addirittura controproducente, almeno sul piano discorsivo.

Le argomentazioni con cui si prova a sostituire la posizione sistematica classica o esasperano le logiche di autorità (senza teologia) o esasperano i precedenti di fatto (ma che valgono solo in un mondo diverso dal nostro). L’accesso della donna al grado del diaconato del ministero ordinato è reso possibile dal venir meno dell’impedimento del sesso femminile. La vera questione, che chiede un pensiero sistematico nuovo, e che non ha bisogno di commutare la minorità pubblica in “principio mariano”, può concepire l’accesso della donna al diaconato senza contraddizione con la dottrina sana, superando invece quelle forme di pretesa dottrinale che non sono altro che pregiudizi riverniciati con citazioni bibliche forzate o con tradizioni ecclesiali non più adeguate.

Una volta, in Brasile, all’inizio di un Convegno liturgico, mi è capitato di assistere ad una scena esemplare: una grande assemblea si disponeva a celebrare il Vespro, con la presenza di alcuni vescovi, ma con la presidenza di una donna, docente di liturgia in un Istituto teologico. La donna, da qualche decennio, può “presiedere”. Questo è un punto di non ritorno, culturale ed anche ecclesiale. O la Chiesa lo assimila e lo valorizza, o lavora non per la tradizione, ma contro se stessa.

Il volume, la cui copertina ho riportato nella foto e che uscirà tra circa una settimana, cerca di essere un contributo ad un ripensamento aggiornato e pacato della logica dell'”impedimento” e delle ragioni del suo superamento. Se l’impedimento è teologicamente superato, l’accesso al ministero ordinato è possibile. La esclusiva del sesso maschile non è “sostanza del sacramento dell’ordine” ma pregiudizio secolare fondato su una cultura particolare, confusa e identificata col vangelo. La somiglianza a Cristo non dipende dalla anatomia, ma dalla autorità. Aver scoperto, ufficialmente dopo Pacem in terris, che le donne sono dotate di autorità anche in pubblico ha modificato, in pochi anni, il rito del matrimonio, il diritto matrimoniale canonico oltre che il diritto civile. In qualche decennio, questo stesso “segno dei tempi” modificherà i riti di ordinazione, come ha già fatto per i ministeri istituiti. Un passaggio delicato sarà quello sinodale. Per impedire questo sviluppo non vale riferirsi né ai discorsi vietati sul sacerdozio, che non toccano il diaconato. Nè ai discorsi sui reati, che mutano con il mutare del diritto positivo. Ovviamente in tutto questo una competenza giuridica “de iure condendo” sarà decisiva e anche profetica, se lo si vorrà. Perché alle donne sia riconosciuta non solo una dignità battesimale, ma anche una dignità ministeriale, non trovo impedimento alcuno.

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