Il Sinodo e la preoccupazione per le polarizzazioni: tre rimedi


“…come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita,

e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente

quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.”

Giovanni XXIII

In un bel testo, appena pubblicato su “Re-blog” (https://re-blog.it/2023/09/11/le-diverse-preoccupazioni/) M. E. Gandolfi sintetizza alcune delle principali preoccupazioni in vista della Assemblea del Sinodo dei Vescovi che si aprirà ad ottobre. Ci sono “diverse preoccupazioni” che possono essere sintetizzate in due atteggiamenti polari: da un lato la preoccupazione che la tradizione dal Sinodo venga modificata e tradita, dall’altro la preoccupazione che la tradizione dal Sinodo non venga modificata e resti spenta. Si può essere profeti di sventura in due modi: o perché si crede che tutto sarà distrutto dopo il Sinodo, o perché si crede che nulla cambierà dopo il Sinodo. La questione è: come si potranno evitare queste polarizzazioni? Si possono indicare tre piccoli rimedi contro la sfiducia strisciante dei profeti di sventura.

La tradizione vivente

La tradizione della Chiesa vive di un delicato equilibrio: nel suo nucleo è “ricevuta”, non “posta” dalla Chiesa. Per questo tutti coloro che “insegnano” – ossia che esercitano un magistero – lo devono intendere come un “ministero”, come un servizio ad un sapere che non dominano. Perciò la tradizione, che è la presenza nella storia di questa Parola di Dio, per restare davvero se stessa, ossia una parola libera e non controllabile, esige di rimanere equidistante da due poli: da un lato il polo della autosufficienza delle testimonianze del passato (ossia dalla Scrittura e di monumenti scritti o non scritti in cui la tradizione si è espressa); dall’altro della autosufficienza delle evidenze del presente. Siccome la Tradizione è vita in Cristo, comunione con Dio, relazione fraterna nello Spirito, chiede di essere alimentata dalla proposizione significativa e dalla interpretazione avveduta della Scrittura e dei documenti della storia. Questo è l’equilibrio che non permette né di rifugiarsi nelle interpretazioni del passato né di fuggire nelle evidenze del presente. Sono “profeti di sventura” tutti coloro che pensano mediante questa polarizzazione sul passato o sul presente. Entrambi chiudono la tradizione al suo futuro, che le appartiene di diritto e che non può essere appiattito né sul passato autorevole né sul presente evidente.

La relazione con i segni dei tempi

Perché la tradizione resti viva, si deve alimentare di una nuova lettura dei detti e dei fatti attestati nella storia, alla luce delle nuove evidenze che la cultura contemporanea offre alla meditazione della Chiesa. Con “segni dei tempi” si vuole indicare propriamente questa “regione spirituale”, che non arriva alla esperienza ecclesiale dalle attestazioni scritte o vissute del passato, ma dalle forme di vita, di relazione e di pensiero del presente, non privi di legami col passato, ma legami tutt’altro che evidenti e spesso contraddittori. La Chiesa, che è maestra in modo ministeriale, può imparare qualcosa di nuovo su di sé proprio dalla considerazione attenta di questi “segni”, che la provocano ad una postura nuova. Può “restare se stessa” soltanto cambiando alla luce di questa nuova lettura che i segni suggeriscono a tutta la tradizione. Perdere la tradizione, in questo caso, non deriva dal cambiamento, ma dalla stasi. Prudente è cambiare, non stare fermi. E non sarà certo opportuno trasformare in “deposito della fede” una sua interpretazione contingente per tentare di salvare la Chiesa e il Sinodo da nuove e pericolose polarizzazioni. Perché il “depositum” è autosufficiente, ma la Chiesa resta “esposta” ai segni dei tempi e alle nuove interpretazioni del depositum che questi segni hanno potuto e ancora possono indurre.

La funzione della teologia

La tradizione vivente e i segni dei tempi chiedono un lavoro teologico specifico, che consiste da un lato nello studio della Scrittura e dei Monumenta mediante nuove categorie, che sono, allo stesso tempo, interne ed esterne al testo e al documento. Da un lato scopriamo nuovi significati potenti all’interno dei testi classici, che sentiamo risuonare di nuovi timbri e brillare di nuovi colori; dall’altro apriamo i testi ad una nuova intelligenza della tradizione mediante il riferimento dovuto ai “segni dei tempi”, prima non considerati o inauditi addirittura. Questo “meraviglioso scambio” tra dottrina cristiana e cultura comune ha permesso alla Chiesa di camminare lungo la storia e di “creare cultura”, lavorando con la interpretazione dei dati rivelati in relazione con i principi del sapere universale. In questo ambito appare del tutto decisivo riconoscere e avviare un coraggioso percorso teologico, di cui ha bisogno un reale “ascolto sinodale” e una efficace “deliberazione sinodale”. Alla tradizione vivente appartiene anche una necessaria elaborazione teologica, capace di uscire da evidenze ritenute “rivelate”, ma che appartengono piuttosto all’ordine contingente delle convinzioni storiche, rispettabili ma superabili. Una certa differenziazione delle interpretazioni del depositum fidei, caratterizzata dalla diversità storica e geografica, non è l’inizio di uno scisma, ma la risposta al segno dei tempi di una Chiesa cattolica su 5 continenti. Nei quali la rivelazione di Dio è passata e passa ancora attraverso una interpretazione parzialmente differenziata della Scrittura e dei monumenti della tradizione. Custodire la universalità non nella uniformità ma nella differenziazione: ecco il compito. Le diverse lingue in cui oggi decliniamo la fede cattolica non sono soltanto rivestimenti esteriori, ma forme di vita originarie dell’atto di fede. Proprio il percorso sinodale, nello scoprire questo grande tesoro che si è aperto alla Chiesa da solo 60 anni, assume il compito di offrire, teologicamente, una sintesi più profonda e più libera della relazione tra tradizione rivelata e interpretazione della Scrittura e dei Monumenti, che mediano, in modo mai definitivo, la ricchezza di grazia che la Chiesa ha il compito di custodire, senza chiuderla in cassaforte, ma facendola camminare per il mondo, con fedele libertà.La comunione e la differenziazione non sono in contraddizione: un Sinodo non resta vittima delle polarizzazioni solo quando e solo in quanto è capace di pensare in modo più profondo e più polifonico la tradizione come vita in Cristo del popolo di Dio.

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