Il Vaticano II e la teologia di papa Francesco: risposta amichevole a M. Borghesi
Dopo la mia recensione al suo libro sulla “biografia intellettuale di J.M. Bergoglio”, il prof. M. Borghesi ha risposto (qui) con una serie di precisazioni.
Non voglio replicare alle singole affermazioni. Io ho mosso critiche e Borghesi giustamente replica alle contestazioni. Desidero solo notare un fatto, per me piuttosto rilevante e credo importante anche per un dibattito sereno. Nella sua replica, Borghesi mi attribuisce una posizione di “assoluta discontinuità” nella valutazione del rapporto tra papa Francesco e i suoi predecessori, in particolare rispetto a papa Benedetto. Questa è una ricostruzione che non risponde a verità e che mi sembra frutto di paura, non di ciò che io ho scritto da 5 anni. Anche qui – come è accaduto nel giudizio formulato su Bergoglio, si licet parva… – , mi sembra che Borghesi proietti sull’oggetto un fantasma metodologico, una lettura troppo drastica e manichea, che distorce la realtà. Ma è chiaro quale sia l’intento di Borghesi: avvalorare la propria posizione “centrista” rispetto alla destra che oppone Benedetto a Francesco e alla sinistra che oppone Francesco a Benedetto. Ma il giochino, degno di un parlamentino politico, non di una discussione teologica, qui non funziona. Io ritengo che Francesco, a differenza di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, riprenda poderosamente la continuità con il Concilio Vaticano II, che per i predecessori era diventato progressivamente un tabù imbarazzante. Dunque l’elemento di discontinuità non è affatto “assoluto”, ma deve essere compreso in rapporto al Concilio Vaticano II: Francesco, riprendendo lo spirito e la lettera del Concilio, entra in tensione con il “dispositivo-Ratzinger”, che da 30 anni dominava nella chiesa cattolica, e che aveva messo a tacere la “riserva di autorità” che il Concilio aveva reintrodotto nel rapporto tra Chiesa e mondo moderno. Borghesi risente, in altri termini, di una lettura troppo semplice e non problematica della ermeneutica conciliare negli ultimi 50 anni: la considerazione dei migliori studi di Alberigo, Melloni, Komonchak, Routhier e O’Malley avrebbe permesso alla sua biografia di non parlare del Concilio con riferimenti troppo ridotti e unilaterali, come quelli a A. Del Noce o a L. Giussani.
Alla fine Borghesi, rammaricandosi delle mie critiche, le attribuisce al “vuoto della teologia contemporanea”, che definisce post-concettuale e post-dottrinale. Vorrei brevemente soffermarmi su questa duplice definizione. Anche qui, a me pare, Borghesi sembra non tener conto del dibattito, vecchio di almeno 50 anni, che ha considerato problematicamente la eredità ontologica, dottrinalistica e intellettualistica della tradizione cattolica. Su questo sentiero non direi proprio che abbiamo il “vuoto”: ci sono Rahner e Lonergan, ci sono Théobald e Pannenberg, ci sono Lindbeck e Dulles. Soprattutto nelle opere degli ultimi due, senza trascurare la rilevanza degli altri, la questione in gioco è proprio come elaborare una “traduzione della tradizione dottrinale”, che sappia offrire il rapporto con la tradizione ecclesiale mediante linguaggi e stili nuovi. La “natura della dottrina” e i “modelli di rivelazione” sono oggetti di indagine, che non possono essere affrontati con gli strumenti di una apologetica, che sa già in partenza che la dialettica hegeliana o la dialettica dell’illuminismo dovrebbero essere esclusi a priori. Le scelte di Guardini negli anni 30 non possono essere le stesse scelte di quasi un secolo dopo. E Guardini, dal canto suo, non è un maestro che impedisca ai suoi allievi di pensare diversamente, anche se sotto la sua ispirazione. La buona teologia contemporanea, se vuole essere fedele alla “svolta pastorale” del Concilio Vaticano II, prende dunque sul serio sia la svolta linguistica, sia la svolta fenomenologica. E’ sufficiente leggere qualche pagina di J-L. Marion o di G. Bonaccorso per comprendere la profondità delle sfide in gioco, sotto la guida di un pensiero che assume con tutta la serietà la fenomenologia e la linguistica e che colloca decisamente la discussione “oltre la metafisica”. Per questo non si può liquidare questo travaglio della teologia contemporanea con definizioni semplicistiche – post-concettuale e post-dottrinale – senza sapere che proprio una tradizione solo concettuale e solo dottrinale è stata contestata dal Concilio Vaticano II stesso! Per questo, io non voglio affatto una “discontinuità assoluta”, voglio solo salvaguardare quella continuità con il Concilio Vaticano II, che esige riforme e discontinuità assai audaci, al servizio della continuità. La “indole pastorale” del Concilio Vaticano II è la differenza tra “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei e formulazione del suo rivestimento”. Questo è il compito: riconoscere la rilevanza della “esperienza umana” per la comprensione del Vangelo, la rilevanza dei diversi linguaggi per il pensiero cristiano. Per farlo, la Chiesa deve battere le strade di una teologia post-liberale e di una teologia simbolica, sulle cui movenze riconosco anche la sensibilità, la cultura e la parola di papa Francesco.
Dunque, se leggo bene la sua replica, Borghesi non se la prende con me, ma precisamente con il progetto del Vaticano II, che dimostra di fraintendere, o almeno di sottostimare. Anche l’utilizzo di Guardini, che ha intuito in anteprima questi sviluppi, appare inserito in modo piuttosto riduttivo nell’economia del saggio di Borghesi. Il centro non è la dottrina, non è la disciplina, ma il mistero del Dio che si rivela in Cristo. Per questo io vorrei tenermi stretto questo “vuoto” post concettuale e post dottrinale, che come ho chiarito è in realtà post-liberale e simbolico – che la svolta copernicana del Concilio ha assunto come progetto comune a tutta la Chiesa. Lascio volentieri a Borghesi il suo “pieno” di un sistema tolemaico, dottrinale e disciplinare, preoccupato anzitutto di non cedere alla modernità, piuttosto che di imparare qualcosa da essa. Credo che una comprensione migliore dello sviluppo della teologia, dagli anni 60 in poi, senza avere sul naso occhiali apologetici così scuri, permetterebbe di leggere la biografia di Bergoglio con maggiore libertà, riconoscendone non solo la “meravigliosa complessità”, ma anche le grandi implicazioni ecclesiali e istituzionali, che non sono riducibili alla gestione di una “societas perfecta”. Un papa che chiede “inquietudine”, “incompletezza” e “immaginazione” alla teologia non può che debordare rispetto ad un modello di Chiesa pensato in modo ancora troppo apologetico. Una integrazione del poderoso lavoro storico sulle “fonti” di Bergoglio operato da Borghesi con questa esigenza della teologia sistematica post-conciliare potrebbe giovare ad un giudizio più completo e fecondo sulla teologia di papa Francesco.