Immaginare e fare sinodo


Ascolto sinodale, immaginazione teologica, deliberazione magisteriale

“Come deve essere esercitata l’autorità? …qui il Concilio diventa più esplicito, introducendo una terminologia e una forma letteraria nuova…Questo cambiamento portò a ridefinire che cosa fosse un concilio e che cosa avrebbe dovuto realizzare. Il Vaticano II modificò in modo così radicale il modello legislativo-giudiziario prevalso fin dal primo concilio, quello del 325 a Nicea, che in pratica lo abbandonò, sostituendolo con uno basato sulla persuasione e l’invito. Fu un cambiamento di enorme importanza”

 J. W. O’Malley1

“Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota”

S. Tommaso d’Aquino

Il discorso ecclesiale può facilmente cadere in ricostruzioni caricaturali della tradizione. Anche il sinodo non si sottrae a questo pericolo. Ne è un esempio il modo marginale e sospettoso con cui una parte dei soggetti ecclesiali pensa la dinamica sinodale in relazione al rapporto tra magistero e teologia. Vorrei soffermarmi su questo punto impostando una riflessione sulla rilevanza della “immaginazione teologica” come strumento di buon funzionamento di una dinamica sinodale autentica. Perciò imposterò anzitutto una descrizione non ingenua della dinamica sinodale, per poi porre in miglior evidenza la inadeguatezza di ricostruzioni “formali” e giuridiche della subordinazione della teologia al magistero, concependo piuttosto la loro relazione come interazione preziosa tra “due forme di magistero”.

a) Ascolto, immaginazione e deliberazione

Nella dinamica di confronto sinodale risulta fondamentale l’attitudine all’ascolto. Che cosa significa? In sostanza, perché sia dato spazio ai disegni dello Spirito, è decisiva una disponibilità ad ascoltarlo nella forma di un ascolto della Parola e della tradizione mediati dall’ascolto del prossimo. Ascoltare l’altro diventa condizione per ascoltare lo Spirito. Per arrivare a questo risultato, tuttavia, le cose non sono mai immediate. Intendo dire che, se questo è vero, occorre uscire da una ricostruzione di comodo – e purtroppo istituzionalmente troppo forte – secondo la quale il “magistero autentico”, di per sé, non ha bisogno di ascoltare nessuno. Qui si nota, istituzionalmente, una brutta falla nella nave della chiesa. La comprensione del “magistero autentico” rischia di censurare a priori ogni cammino sinodale, perché propone una tale “autosufficienza” del magistero, da non aver bisogno di alcun ascolto, di alcuna immaginazione e di alcuna deliberazione. E’ interessante il fatto che una certa comprensione della relazione tra magistero e teologia escluda, allo stesso tempo, la sporgenza di un ascolto strutturale alla fede (riducendo l’ascolto all’esercizio delle “buone maniere”), la creatività della teologia (ridotta a “svolgimento interno al magistero autentico”) e la stessa deliberazione magisteriale (ridotta a “protezione difensiva del depositum fidei”). E’ evidente che in questo modo è la stessa dinamica sinodale a risultare meramente accessoria. Viceversa, per una adeguata valorizzazione dell’ascolto, occorre pensare ad una funzione strutturale della “immaginazione teologica”, capace di preparare luoghi di ascolto dai quali scaturiscano “deliberazioni autorevoli”, preoccupata non semplicemente di difendere quanto acquisito, ma di scoprire nuove formulazione della sostanza del depositum. Vi è, in ogni sinodo, un ruolo che la immaginazione teologica svolge per rendere significativo l’ascolto e per preparare deliberazioni autorevoli. Senza immaginazione teologica non si cammina sinodalmente. Questo mette in profonda crisi una ricostruzione di comodo del rapporto tra magistero e teologia, che merita ora di essere approfondita.

b) Il Magistero tra Vaticano I e Vaticano II

Il nodo decisivo dello sviluppo del rapporto che dobbiamo qui brevemente studiare consiste in un interessante paradosso: proprio nel momento in cui il Magistero diventa sensibile a nuove istanze della riflessione teologica, esso muta rapporto con la dottrina e con la teologia, passando da Magistero prevalentemente negativo (come è stato per circa 1800 anni) a Magistero quasi esclusivamente positivo. Questo passaggio, che il Concilio Vaticano II ha sancito in forma autorevolissima, soprattuto realizzandolo praticamente, pur con tutte le sue giustificazioni, oggi comporta molti problemi in meno, ma anche qualche difficoltà in più.

Ciò è dovuto precisamente al fatto che il magistero si intende storicamente come negativo (ossia si limita a “condannare proposizioni erronee” o a “dare dignità dogmatica ad affermazioni centrali per la fede”) lasciando tutto il resto del campo al libero dibattito teologico. Il magistero che condanna, condanna proposizioni. Viceversa il magistero che decide di diventare esclusivamente positivo, proprio a causa del fatto che interviene positivamente in ogni aspetto della vita di fede (vita religiosa, vita familiare, bioetica, problemi del mondo del lavoro, turismo, sport, orari di chiusura dei negozi…) tende così a coprire tutto il campo che prima era riservato alla libera discussione teologica e pastorale.

Questo è diventato evidente, ovviamente, solo nel post-concilio.

Ciò ha comportato un progressivo spostamento della “questione” della relazione tra magistero e teologia. La autolimitazione del magistero, che la tradizione garantiva in modo sobrio ma effice, di fatto è venuta meno a partire da una più grande consapevolezza della “mediazione” di cui la Parola ha bisogno.

Vi è qui, a mio parere, proprio lo spazio per uno sviluppo “equivoco”: da un lato la sottilineatura del “principio scritturistico” ha limitato le pretese di un Magistero onnicomprensivo e onnipotente. Ma d’altra parte, proprio la estensione della sollecitudine ecclesiale ha reso possibile una sorta di “santa alleanza” tra antico e nuovo che genera una figura di magistero molto più esteso e incondizionato di prima2. Se uniamo la lettura del papato/magistero del Vaticano I alla estensione delle competenze del Vaticano II otteniamo una figura sbilanciata di magistero, di fronte al quale nessuna teologia può sperare di avere più alcuna reale consistenza. Il CJC del 1983 costituisce il punto più avanzato e rischioso di una tale riduzione della teologia a mero commento acritico del magistero autentico3.

c) Ministero e magistero, minus et maius

Un principio fondamentale è iscritto nella forma originaria della vita cristiana. In essa, infatti, vi è una singolare coincidenza di due termini che la tradizione precristiana (e anche post-cristiana) oppone decisamente. Ascoltiamo a questo proposito una interessante citazione che J.-L. Marion ha ripreso da M. Mauss:

“Donare equivale a dimostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto, magister; accettare senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, diventare cliente o servo, farsi piccolo, cadere più in basso, minister4

L’idea di Marcel Mauss mostra bene la radice della tensione originaria che si manifesta tra “magistero” e “ministero”: i due concetti, nell’uso culturale e antropologico, tendono ad opporsi radicalmente, allo stesso modo con cui il donatore e il donatario, il soggetto attivo e il soggetto passivo si contrappongono intorno ad un “dono”. Nella Chiesa, tuttavia, l’esperienza del “magistero” è strutturalmente “ministeriale”, mentre il “servizio” ha un suo insuperabile “magistero”. Il dono è anzitutto ricevuto e accettato, ma ha bisogno di poter essere continuamente ri-donato nella testimonianza, nell’annuncio, nella carità.

Questa citazione ha permesso di recuperare quella che il Concilio Vaticano II ha sviluppato e riletto in modo molto acuto e sorprendente: la natura ministeriale del magistero ecclesiale. Il che significa una verità fondamentale e decisiva per la Chiesa: il Magistero ha la funzione di servire, non di essere servito. Ed è quanto afferma chiaramente DV 10, quando dice che il “magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve”.

Questa asserzione, come verità che attraversa l’intero spettro della storia della Chiesa, ha assunto a partire dal Concilio Vaticano II una particolarissima forma di “paradossalità”, che vorrei qui brevemente portare alla luce.

d) Un documento della Commissione Teologica Internazionale

Se infatti il concetto di magistero è profondamente mutato proprio a causa di una nuova rilettura della Chiesa rispetto al proprio fondamento (nella Parola, nel mistero celebrato, nella testimonianza istituzionale e nel rapporto col mondo) questo ha profondamente mutato il rapporto tra teologia e magistero. Quale servizio il Magistero può esercitare nel momento in cui da “”negativo” diventa “positivo”? E quale ruolo gioca la teologia se il Magistero si muove con una nuova disinvoltura (prima quasi impensabile) nel campo delle “opinioni teologiche”? Potremmo rispondere, con il documento della Commissione Teologica Internazionale, Teologia oggi: prospettive, principi e criteri, “Il Regno”, 57(2012), 269-289. (I numeri tra parentesi si riferiscono ai paragrafi di questo documento).

“Esiste effettivamente nella Chiesa un certo ‘magistero’ dei teologi” (39). Non vi è dubbio che il servizio teologico è riconosciuto da sempre come una funzione indispensabile per l’esercizio del magistero della Chiesa. Proprio l’ultimo Concilio ha rappresentato un evento che ha messo in singolare evidenza la stretta collaborazione tra vescovi e teologi. Proprio per questo la teologia può anche montarsi la testa e pretendere che il magistero episcopale sia semplicemente “applicativo” dei risultati delle proprie ricerche. D’altra parte, a sua volta, il magistero episcopale può anche arrivare a illudersi di poter fare a meno di ogni contributo teologico scientifico, di avere già, di per sé, tutti gli elementi per la azione pastorale. La arroganza dei teologi corrisponde, talvolta, alla presunzione dei pastori. Si tratta di due errori speculari e altrettanto deleteri.

Questo aspetto del rapporto delicato tra teologi e pastori viene presentato con accuratezza dal documento della Commissione Teologica Internazionale al paragrafo 4 (nn.37-44). Un prima affermazione che merita di essere considerata è la seguente:

“Vescovi e teologi hanno una chiamata diversa, e devono rispettare le rispettive competenze, per evitare che il magistero riduca la teologia a mera scienza ripetitiva, o che i teologi presumano di sostituirsi all’ufficio di insegnamento dei pastori della Chiesa” (37)

Questo primo passo consente di identificare uno specifico servizio teologico che non permette di intepretare la funzione del teologo come quella dell’addetto stampa. Il teologo elabora la propria scienza con criteri di criticità che non sempre coincidono con la ufficialità ecclesiale: la ricerca teologica, se diventa meramente ripetitiva del magistero, non è più ricerca e non è più teologia.

Ma veniamo a un altro passo interessante, che riguarda la interpretazione “autentica” della fede, che solo il magistero e non la teologia può dare:

“L’accettazione di questa funzione del magistero relativamente all’autenticità della fede richiede che vengano riconosciuti i diversi livelli delle affermazioni magisteriali. A questi diversi livelli corrisponde una risposta differenziata da parte dei credenti e dei teologi. L’insegnamento del magistero non ha tutto lo stesso peso” (40)

Proprio a causa della diversa funzione che la teologia e il magistero esercitano all’interno della Chiesa, la teologia in alcuni pochi casi è strettamente vincolata dal pronunciamento del magistero, mentre in altri è indirizzata, consigliata, orientata, senza impedirle di esplorare e percorrere, rispettosamente e in comunione, altre strade.

D’altra parte il documento ricorda come non sia sbagliato attribuire alla stessa teologia un ruolo magisteriale: “Esiste effettivamente nella Chiesa un certo ‘magistero’ dei teologi” (39), che non ha senso pensare come alternativo o concorrenziale rispetto a quello dei pastori, ma che necessariamente conosce dei momenti di “tensione” rispetto a quello. Ed è prezioso il fatto che in nota (alla nota 87, per la precisione) il testo ricorda che Tommaso d’Aquino distingueva tra magisterium cathedrae pastoralis e magisterium cathedrae magistralis, riferendo il primo ai vescovi e il secondo ai teologi.

Vorrei citare, infine, un’ultima affermazione. Si tratta della necessaria adesione al magistero, che caratterizza la tradizione della fede cattolica, e alla quale il teologo non fa eccezione, qualificando tuttavia la propria adesione come “responsabile”. Il testo qui precisa molto opportunamente:

“La libertà della teologia e dei teologi è un tema di particolare interesse. Tale libertà deriva da una vera responsabilità scientifica”. (43)

In questa espressione troviamo affermato un principio spesso dimenticato nel dibattito all’interno, ma anche all’esterno alla Chiesa, dopo Dei Verbum. Il teologo, in quanto tale, deve essere libero proprio per la funzione di servizio che svolge all’interno della Chiesa. Potremmo dire “libero di servire” in una forma molto determinata: la Chiesa ha bisogno di uomini e donne “liberi per il rispetto critico e per la critica rispettosa”. In questo modo essa si arricchisce e di rafforza, garantendo al proprio interno, all’interno della comunione ecclesiale, la presenza di voci che per mestiere/ministero debbono soppesare parole, espressioni, decisioni, strutture, evoluzioni della Tradizione, antica e recente. Non per assumere decisioni ultime (cui sono preposti non i teologi, ma i pastori), ma per prepararle, commentarle, analizzarle, correggerle.

A 50 anni dal Concilio Vaticano II possiamo riconoscere il cammino compiuto dalla teologia, anche in Italia, e le buone prove di collaborazione con il Magistero. Il quale, talvolta comprensibilmente, sembra temere soprattutto una teologia che abusa della libertà, che si emancipa dai vincoli, che gioca al tiro al piattello, che prende posizioni di aperto e irrimediabile dissenso. Ma questo, io credo, resta oggi un problema minore. Il problema maggiore è invece quello di una teologia che rinuncia alla libertà, che esercita la funzione dell’addetto stampa o dell’incaricato delle pubbliche relazioni, che si trasforma – sua sponte – da servizio a servitù e che finisce per essere teologia di corte. Ma una “teologia di corte” fornisce invariabilmente al magistero una “teologia di corte vedute”.

e) La dottrina e una memoria del “caso Sobrino”

Il mutamento che il Concilio Vaticano II ha introdotto induce a riconoscere che l’adeguamento della Chiesa a tale nuovo modello di “dottrina” stenta a decollare e determina – sia dal punto di vista delle procedure che dei contenuti – una forte tensione tra diversi paradigmi di esercizio della autorità. Del tutto evidente mi pare la forma con cui si sono svolte alcune “indagini” a proposito del pensiero di singoli teologi. Qui, bisogna riconoscerlo ancora una volta, il mutamento tra magistero negativo e magistero positivo, non è affatto un passaggio lineare e progressivo, ma comporta incomprensioni, pericolose estensioni di competenze o limitative comprensioni del pensiero altrui.

Il caso Sobrino, ma già prima altri casi, come ad esempio il caso De Mello, e oggi di nuovo ciò che mi pare stia accadendo con Torres Queiruga, risentono precisamente di questo mutamento di approccio tra magistero negativo e magistero positivo. Non si condannano più “proposizioni”, ma “posizioni”, “idee”, “istanze” che potrebbero indurre in proposizioni errate! Proprio il fatto che il Magistero si autointerpreti in modo “positivo”, rende molto più precario il “garantismo” – in tutti i sensi – verso le posizioni teoriche messe sotto inchiesta.

Vorrei ricordare come, proprio in occasione del “caso Sobrino”, P. Huenermann ebbe a scrivere un commento molto amaro sulla “occasione mancata” che il caso aveva rappresentato. Il noto teologo tedesco, dopo aver illustrato con puntualità tutte le debolezze della notificazione che la Congregazione per la Dottrina delle Fede ha inviato a Sobrino, conclude in modo molto più generale le proprie considerazioni, entrando nel merito della relazione delicata tra teologia e magistero. Vorrei citare integralmente questa parte finale del suo scritto, nella quale sono riassunti con grande chiarezza una serie di questioni insolute:

“ La relazione fra papa e vescovi, da un lato, e fra papa-vescovi e teologi, dall’altro, riveste un’importanza ineludibile per il cammino della Chiesa verso l’avvenire. Oggi, la Congregazione per la dottrina della fede assolve la funzione più importante nel garantire la qualità della teologia. Essa deve preoccuparsi che la teologia esprima veramente la ratio fidei. Il fatto che al riguardo, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, si siano ripetutamente registrati conflitti gravi e dannosi per l’immagine della Chiesa e del suo cammino di fede, non dipende solo dalle persone che vi lavorano, dalla loro formazione più o meno completa e aggiornata.

Queste deficienze aggravano i potenziali conflitti. Ma la vera ragione dei conflitti è essenzialmente un’altra: in fondo la Congregazione per la dottrina della fede – succeduta al Sant’Uffizio – ha conservato quella struttura di ufficio censorio che aveva agli inizi dell’era moderna e che, del resto, allora esisteva in tutti gli stati europei. Oggi l’assicurazione della qualità in campo scientifico è strutturata in modo diverso: collabora essenzialmente con le scienze e include – possibilmente – le autorità scientifiche nei processi decisionali relativi alla politica della ricerca scientifica e alla gestione delle scoperte scientifiche. Oggi, bisogna elaborare la ratio fidei in una società culturale molto complessa, con i suoi gravi problemi e rifiuti sociali, scientifici, umani. Essa presenta quindi un grado di complessità, che un ufficio censorio di vecchio stampo non è assolutamente in grado di affrontare, sia sul piano organizzativo che tecnico. Occorre un’intelligente ristrutturazione della Congregazione per la dottrina della fede.

Riguardo a questo caso – la condanna degli scritti di Jon Sobrino – sarebbe opportuno, anzi necessario, fare seguire alla presente Notificazione – come nel caso delle comunicazioni ufficiali sulla teologia della liberazione – una seconda Notificazione, con una diversa impostazione e argomentazione.”5

Vorrei soltanto aggiungere un fattore di ulteriore complessità, ma anche di ricchezza. Quanto diceva Huenermann 15 anni fa procede dal cambiamento di paradigma conciliare: ma esso comporta anche il riconoscimento di un diverso modo di esercitare l’autorità nella Chiesa. Il pericolo che oggi corriamo è di avere un magistero capace di essere “positivo” – e questa è una grande novità – ma che reagisce in modo solo “negativo” alle sollecitazione della teologia.

f) Sinodo e teologia

Il percorso argomentativo seguito fin qui permette di identificare nella “immaginazione teologica” – tipica del magistero accademico – una delle condizioni perché il magistero sia in grado di ascoltare e perché l’ascolto conduca il magistero a deliberare. Senza questa mediazione preziosa, l’ascolto non produce deliberazioni e le deliberazioni prescindono da ogni ascolto. Il paradosso è questo: lo statuto formale della teologia secondo la versione istituzionale (del CJC del 1983) non lascia spazio ad alcuna immaginazione teologica: anzi, la proscrive! Ma senza immaginazione teologica ogni sinodo resta un buco nell’acqua: l’ascolto non produce deliberazioni e le deliberazioni restano per principio indipendenti dall’ascolto.

1 J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010, 13.

2 Cfr. A. Melloni, Chiesa madre, chiesa matrignaUn discorso storico sul cristianesimo che cambia, (=Vele, 12), Torino, Einaudi, 2004, 40ss.

3 Una analisi di questa grave tensione si può leggere nel mio post recente a questo link: https://www.cittadellaeditrice.com/munera/lombra-del-codice-sul-caso-lintner-la-teologia-come-zerbino/

4 L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, Torino, SEI, 2001, 94, che cita M. Mauss, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 1986, 281.

5Mi riferisco qui al testo di P. Hünermann, Qualità della teologia, “Il Regno” 52(2007)239-244, qui 244.

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