Incarnazione e pandemia (di Marcello La Matina e Andrea Ponso)
La pandemia ha sollevato anche un dibattito filosofico non trascurabile. Ospito volentieri il dialogo tra due filosofi (Marcello La Matina e Andrea Ponso) che riflettono sulla relazione tra “incarnazione” e “pandemia”. Può essere utile per restare vigili sulla “temporaneità” di quelle forme del “distanziamento” che rischiano di accreditarsi come stabile acquisizione, culturale ed ecclesiale. Senza demonizzarle, ma senza assolutizzarle. Per prendere la giusta distanza dal distanziamento come garanzia. E continuare una pacata discussione sulla questione.
Caro Andrea,
voglio fermare un sentimento, uno dei pochi che mi visitano ora con una
certa premura. E’ il sentimento di una svolta o rivolta. Voglio fermarlo in
poche parole perché ci riflettiamo insieme, tu e io e forse altri amici. Non
molti, in verità. Ho come la sensazione che problemi come quello che sto
per esporre non affettino tante persone…
Ecco la questione.
Ripenso in queste settimane, in questi mesi, al tema della carne, al suo
destino e alla promessa che ad essa è stata fatta, come conseguenza di un
inaudito gesto divino: l’Incarnazione. Mi cerco nella prospettiva di questa
carne oggi, nella incerta vicenda di morbi e pesti e distanze sociali e tutto
il corredo di dispositivi immunitari (vaccini in testa). Ripenso di
conseguenza a quel pervertimento del Cristianesimo che Ivan Illich
descrisse per almeno un ventennio nei suoi libri e nelle sue interviste e
conferenze.
Una società che si legge attraverso i suoi sistemi — una società che ha
rimpiazzato gli “strumenti” (gli ὄργανα) con i sistemi — è una società che
non ha un fuori, che è costretta in quella che una filosofa ha recentemente
chiamato una «immanenza satura». Ebbene, questa società dei sistemi,
della rete, del ragionamento induttivo eletto a nuovo reale (vedi Agamben
su Ettore Majorana), questa società è oggi apparentemente costretta ad
accettare come ripiego quel distanziamento che solo un anno fa perseguiva
come modello di sviluppo: lo smart working, la comunicazione digitale nel
lavoro, nel commercio, persino nella malattia e nella gestione delle
relazioni, sono tutte cose che entrano in questo regime di calcolo, di
“forecasting”.
Una società che trova nella morbilità terribile di un virus pandemico la
forza per essere quel che desiderava essere – salvo lamentarsene in
pubblico – è, a guardar bene, paradossale. Dal 1984, anno dell’invenzione
del Pc, il mondo si ripete che il futuro è digitale, il futuro è nella distalità
(distality è il termine di Illich); poi, un quarantennio dopo, salta fuori un
virus che convince anche i contrari che la distalità è necessaria; anzi, che è
utile e risparmiosa; anzi, che è virtuosa.
E noi lì ad obliterare la nostra natura di “viventi capaci di città”,
rinunciando alla nostra piazza, alla vita comune (“comune” è ciò che si
lorda nel contatto, ciò che trattiene qualcosa del qualcuno che abbiamo
incontrato); eccoci anche a rimodulare perfino i nostri culti, i riti, le
millenarie forme di vita sulle quali abbiamo costruito le speranze e le
libertà.
Che ne sarà della conspiratio, dello scambio dello spirito fra credenti? che
cosa avverrà della nostra ansia di incontro? Ma, soprattutto, cosa accadrà
al cuore del messaggio di Cristo: il Buon Samaritano, oggi, è ancora un
modello di Rachamim, di eusplanchnìa, di misericordia?
Si dirà: “ma questo distanziamento è solo temporaneo”. E certo, tutti ci
auguriamo che il morbo ci lasci, che si possa tornare a vivere senza che il
pensiero immunitario sia il più lesto a insinuarsi nelle nostre menti non
appena l’altro si affacci..
Ma qualcosa mi dice che questo temporaneo distanziamento sia, come
dicevo, l’apparente contingenza che cela la sostanziale necessità. Noi, mi
ripeto, marciavamo spediti verso questa disincarnazione; poi, un virus ci
costringe ad abbracciarla a lungo e come mai si era veduto prima… in tutto
il mondo.
Adesso, le speranze di molti sono riposte in un sistema di individuazione e
controllo dei focolai, in un sistema di controllo quasi poliziesco, in un
sistema di dispositivi capaci di schedare, misurare, controllare, monitorare.
Un Samaritano, oggi? E, se non nel possibile Samaritano, dove mai
ravvisare quel Gesù che sulla indefinibilità del prossimo (del πλησἰον) ha
investito la Sua divina credibilità e la Sua vita? (M. La Matina)
Caro Marcello,
i punti che tocchi sono letteralmente scottanti: bruciano, e speriamo
continuino a bruciare e non vengano spenti, appunto, dalle strategie anestetiche
e immunitarie. Altrimenti, veramente, l’incidenza del e nel corpo
di tali problematiche prenderà la via di un silenzio sottocutaneo che, con il
tempo – ma lo vediamo già ora – non potrà che scatenare sintomi negativi
e davvero psicosomatici. E questo, in fondo, ci dice che il corpo è sempre
lì, che non smette di manifestarsi e di bussare e di sconvolgere la pacifica
sua dimenticanza.
Sono anch’io convinto della non temporaneità di questa piega, e sono
anche convinto che la grande fatica del cristiano, da sempre, sia proprio
quella di accettare l’incarnazione di un Dio che non è più, appunto,
immunitariamente chiuso in se stesso come un soggetto presupposto
sapere, direbbe Lacan, ma che si dona come “castrazione”, come rinuncia
kenotica in favore dell’altro. Ma se l’altro non intraprende, pur tra le grandi
difficoltà che tutto questo comporta, la stessa via, non può esserci davvero
incontro, non può esserci quindi nemmeno grazia.
La grazia, io credo, apre e ferisce i corpi, li ferisce e li fiorisce – ma questi
corpi devono aprirsi, devono lasciarsi ferire principalmente in quanto
corpi, al di là del sapere che è sempre difensivo: la follia della Croce di cui
ci parla Paolo non è solamente un controsenso logico, è un evento
somatico che viene prima di ogni riflessione e pensiero, per questo è follia;
se la vediamo solo dal punto di vista del sapere, è una semplice
contraddizione logica o morale, e non basta, perché non ci anticipa e non
ci sorprende nella carne. In questo senso mi pare di intendere il termine
lacaniano di castrazione.
Allora, la figura del Samaritano che chiami in causa è davvero centrale,
insieme a quella dell’indefinibilità del prossimo che il Signore ci ha
mostrato e ha vissuto. E sono queste due cose che oggi assumono
caratteristiche inquietanti.
Il samaritano evangelico non si interessa dei “dati” di chi soccorre, non lo
inserisce nelle statistiche e non gli impone nulla – non sappiamo
nemmeno il suo nome! Ma si interessa e tocca, e salva e cura la carne
malata e potenzialmente “contagiosa”, quella nuda vita viene accolta
perché tocca la nuda vita del samaritano, e solo in questo modo può essere
reinserita in qualcosa che non sia più nuda vita: se la nuda vita è l’oggetto
della presa e della gestione del potere è perché quest’ultimo non si presenta
mai esso stesso come nuda vita ma come “sistema” e sovranità; mentre il
samaritano evangelico si espone come nuda vita, salta ogni strategia
immunitaria, ogni forma di controllo e di screening: è il corpo in primo
piano, ed è però quella singolarità appunto inassumibile e indefinibile che
può essere toccata e condivisa; non sappiamo nemmeno il nome del
samaritano, se ci pensi: come si incontrassero due singolarità incarnate che
nemmeno hanno bisogno delle coordinate identitarie, intendo da carta
d’identità; l’unica cosa che ci serve sapere è che entrambi sono in qualche
modo messi fuori dalla comunità, sono intoccabili nel senso peggiore del
termine: sono, appunto, in uno stato di eccezione e di nuda vita, uno in
quanto moribondo, l’altro in quanto samaritano. Forse, quindi, c’è un
possibile nell’incontro e nella relazione di due vite ridotte a pura biologia,
un possibile che non ritroviamo oggi nemmeno nella medicina, ma che non
smette di essere proposto dal vangelo.
Oggi, invece, i samaritani sono legione! E sanno o vogliono sapere tutto di
noi: un sapere e un potere gestionale, appunto, come dicevo prima, che ci
mette a distanza proprio nel momento in cui le viscere di misericordia
dovrebbero aprirsi e accogliere. La misericordia come smart working è
qualcosa di tremendo, diabolico, nell’etimo.
Io non ho risposte, ma questo bruciare delle domande mi fa sentire che non
sono ancora del tutto an-estetizzato, che questo buio mi interroga
ansiosamente come interroga te – che la nuda vita che in noi si dibatte non
è solamente prodotta dalla presa della violenza del potere. È già una
grazia, e io la sento nel corpo, somaticamente … non è bello, non è facile,
produce ansia e dolore, rabbia, molta rabbia.
Ma la rabbia può essere buona, ci dicono i padri, se è orientata contro il
dia-bolico che viviamo e se non ci travolge impedendoci una speranza che
non vediamo ma che, forse, già ci sta tenendo svegli come le vergini della
parabola: il fuoco delle lampade è nei nostri corpi sofferenti, nell’angoscia
e nella paura per questa situazione, è psicosomatico e dioratico – è nel
miracolo terribile e grandioso dell’incarnazione come processo in divenire
e non come dogma accettato intellettualmente. Abbiamo ancora un corpo
in fiamme e attendiamo che la fiamma si faccia pentecoste. (A. Ponso)