La disputa sulle unioni civili. Dialogo su Mueller, Francesco e la buona teologia (di Riccardo Saccenti e Andrea Grillo)
Abbiamo dialogato. Sì, abbiamo dialogato su temi allo stesso tempo teologici, ecclesiali e civili. Una teologia che possa essere riconosciuta come “bene comune” sembra infatti così difficile da pensare, addirittura inconcepibile da praticare! Ma è una delle esigenze più profonde del nostro tempo. Abbiamo provato a discutere a fondo sulle questioni apparse alla ribalta negli ultimi due giorni, dopo la ormai fin troppo famosa “intervista” di papa Francesco sulle “unioni civili”. Ecco il nostro dialogo, che nasce come reazione alle parole pubblicate in due interviste rilasciate dal Card. L. Mueller ai giornali “Repubblica” e “Corriere della Sera” il 23/10/2020.
Andrea: Non mi ha sorpreso, caro Riccardo, leggere le parole del Card. Mueller. Ricordo che, già durante il doppio Sinodo sulla famiglia, e poi nei commenti ad Amoris Laetitia, egli era intervenuto – anche come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – con parole dure, allo stesso tempo troppo nette e troppo rozze. Mi colpiva, già allora, questa pretesa, allo stesso tempo fondamentalista, integralista e massimalista, di chiudere il dibattito sulla base di una lettura teologica così immediata e così lontana dalla necessaria finezza, da impressionarmi. Tutto questo con la aggravante, ripetuta quasi alla noia – e ripresa anche nelle due interviste di ieri – di volere offrire una analisi “veramente teologica”, contro quelle pseudoteologie che, a suo avviso, non avrebbero alcun fondamento. Anche l’idea, che ha espresso più volte, di una funzione di “correzione” del magistero papale da parte della Congregazione riemerge ancora nei testi recenti: tutto ciò che non è lettura fondamentalista della scrittura e della tradizione sembra, a Mueller, confuso, sospetto, dannoso. Egli sembra non pensare neppure lontanamente che sia la realtà ad essere confusa e ad esigere categorie più elastiche, più duttili e meno drastiche. Ma forse io esagero: nelle sue parole tu credi che si possano trovare cose pregevoli?
Riccardo: L’intervista del cardinale Mueller, nella sua chiara presa di posizione riguardo alle parole di Francesco di assenso ad una legislazione efficace sulle unioni civili, ha alcuni pregi che occorre sottolineare. In primo luogo asserisce che “il Papa può sbagliare”: un’affermazione rilevante rispetto ad un esercizio autoritativo dell’autorità magisteriale della Chiesa che si è spesso sovrapposto e confuso con il discorso teologico. Se il Papa può sbagliare – come del resto una lunga tradizione della Chiesa dice – l’infallibilità del successore di Pietro non ha un valore assoluto e dunque il processo storico e teologico che ha teso a traslare l’infallibilità dal solo piano dei dogmi di fede a quello dell’intero magistero papale mostra ora i propri limiti. Emerge cioè come quello che nel 1870 era l’esito di un processo secolare che fissava limiti e procedure di esercizio dell’infallibilità sia diventato lo sfondo su cui si è ripensato il primato romano costruendo un’equivalenza rischiosa fra l’autorevolezza che deriva al vescovo di Roma dal suo ruolo nel collegio apostolico e la sua autorità dogmatica esercitata con modalità monarchiche. Il Papa è allora infallibile, quando svolge la sua funzione: confermare i fratelli nella fede, perché di quella fede non è il titolare esclusivo ma al contrario il testimone certo. Una fede che è viva nel Popolo di Dio e i cui contenuti salvifici non possono essere confusi con le realtà che passano sulla scena della storia.
Andrea: Come è evidente, quasi malgré soi, Mueller sembra allo stesso tempo ribadire la immutabilità di una dottrina perenne e trarre le conseguenze più estreme dalla crisi del modello ottocentesco che sembra voler difendere a spada tratta. E’ vero, infatti, che soprattutto sul tema matrimoniale la tradizione cattolica è attraversata da una duplice tendenza: da un lato, di fronte alla personalizzazione tardo-moderna, sembra volere bloccare la storia in una istituzione giuridica di cui vuole detenere il controllo totale, fino a contestare ogni autorità civile diversa da quella ecclesiale; d’altra parte essa deve restare fedele ad una tradizione che ha accompagnato il matrimonio con una grande attenzione sia al soggetto maschile e femminile, unici veri titolari del consenso, sia alla simbolica dell’amore, la cui logica è “analogia imperfetta” dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Mi pare che Mueller, proprio quando vuole difendere la tradizione, debba essere costretto a riconoscerne tutta la ricchezza, non riducibile soltanto al disegno istituzionalistico ottocentesco. La pretesa, così forte nelle sue parole, di “restare fedeli” oscilla pericolosamente tra il “paradigma Cristo” e il “diritto naturale”. Pur di non ammettere la esigenza di un “nuovo paradigma” – di cui è lo stesso papa Francesco, e non solo pseudo-teologi, ad aver parlato con tanta chiarezza – egli cade in contraddizione. Non ti pare?
Riccardo: Mi pare che ci sia un secondo elemento di novità che emerge dalle parole dell’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il fatto, cioè, che una valutazione di ordine teologico non sia un assoluto ma possa essere, anzi debba essere, oggetto di una discussione che ammette anche il dissenso, anche quando si ha di fronte una valutazione che viene dal vescovo di Roma. Al di sotto della presa di posizione di Francesco sulle unioni civili, infatti, v’è una valutazione teologica profonda: l’idea che la relazione d’amore fra esseri umani sia il luogo in cui abita il nostro essere a immagine e somiglianza di Dio e che dunque la Chiesa non possa che guardare con fiducia ad ogni iniziativa che gli stati mettono in atto per tutelare e dare dignità a quelle relazioni affettive. Mueller, nel far questo, testimonia della necessità, vitale per la teologia, di discutere e dibattere: una necessità che la rende quel cammino di sapienza e intelligenza che consente di tornare sempre sui contenuti della fede creduta per comprenderli in modo sempre più pieno. Questo significa allora che su questioni del genere, che esulano dagli assunti della fede e della teologia che il Popolo di Dio confessa ogni volta che celebra l’eucaristia, non comportano verità assolute. Al contrario, una vicenda come la richiesta di dignità che viene dall’amore fra esseri umani, nelle sue diverse forme, rappresenta uno di quegli aspetti dell’umano a partire dai quali i credenti, e fra questi soprattutto i teologi, sono chiamati a interrogare di nuovo la fede per penetrarle in maniera più compiuta il valore salvifico che dice la dignità dell’essere umano nel quale Dio si incarna.
Andrea: Ecco allora un punto decisivo: le “vite concrete” e i “fatti d’amore” che mettono radice, che sfidano il tempo, che generano affidamento, che suscitano ammirazione, possono essere irrilevanti per la Chiesa? La pretesa che le “unioni civili” restino “invisibili”, o siano “un nulla” costituisce una debolezza teologica che nasconde allo stesso tempo un imbarazzo e una soluzione troppo affrettata. Perché quando diciamo “unioni civili”, prima ancora che parlare di “normative”, parliamo di vite, di storie, di coscienze, di corpi che convivono. Riconoscere il bene, lì dove accade, anche quando è parziale, ferito, zoppicante, non è forse uno dei compito più delicati e più profetici di cui la Chiesa dovrebbe sentire il carico? E come negare che, in questo ambito, le forme di vita, che da un secolo si sono sviluppate in larghe parti del mondo, hanno visto sorgere modi della sensibilità, rilevanze della sessualità, rinvii della determinazione di sé e anticipi di esperienza prima del tutto inconcepibili? La “trasformazione della intimità”, intesa non ideologicamente come politicizzazione dei rapporti, ma come nuova percezione della unione e della generazione, possono essere forse liquidate con la lettura superficiale di un versetto biblico e così ridotte alla irrilevanza, quasi con una alzata di spalle? A me pare che qui manchi proprio l’esercizio di quella “pazienza teologica”, che deve tradurre e riannodare, rileggere e riscoprire la sottile trama che lega il presente al passato e lo apre al futuro. Una discussione aperta, senza sospetti, a me sembra l’unica via. Non ti pare?
Riccardo: E’ possibile, anzi doveroso ed essenziale, che le parole del Papa suscitino una discussione. Ma questo vale anche per la posizione espressa dal cardinale Mueller, che non ha un valore di infallibilità dottrinale, ma ponendosi sul terreno della riflessione teologica è per natura discutibile. Mueller mette in discussione questo nodo tematico e la distinzione fra il terreno del saeculum (dove operano gli stati e matura nel tempo la sensibilità sui diritti) e quello della fides (dove invece opera una continua intelligenza dei contenuti del Vangelo a cui ogni generazione è chiamata a partire dal tempo che è chiamata a vivere). Lo propone facendo leva su una interpretazione letterale del dettato della Scrittura, sostenendo che la littera del Genesi nel suo essere descrittiva, della creazione e della struttura del genere umano operate e stabilite da Dio, sia anche normativa. Si tratta di una impostazione che appare in sé stessa discutibile per molte ragioni: prima di tutto perché pone la Parola di Dio come un assoluto, negando la funzione di una traditio esegetica che ha lo spessore secolare della stessa storia cristiana e che è sempre stata multiforme al suo interno, figlia di quella capacità della Scrittura di crescere assieme a colui che legge, come ricordava Gregorio Magno. Oltre a questo, l’assolutizzazione assertoria delle tesi di Mueller appare in contrasto con la coscienza del valore della storicità della Scrittura e delle forme nelle quali esprime i contenuti di fede: un punto cruciale di quella Dei Verbum che pure il cardinale rivendica come un testo cruciale per non deviare dalle verità di fede. Infine, Mueller lamenta il rischio di una mondanizzazione, che mette i paradigmi politici davanti al Vangelo, eppure poi corre egli stesso il rischio opposto, quello cioè di derubricare il Vangelo (o meglio una sua interpretazione) ad un paradigma politica, quando si pronuncia sulle imminenti presidenziali americane.
Andrea: Mi pare assai utile richiamare anche un giusto approfondimento del richiamo che Mueller propone alla presa di posizione di Paolo verso Pietro. Egli sembra dire: se Paolo ha osato correggere fraternamente Pietro, allora è ben possibile sollevare obiezioni al papa. Ma tu dici giustamente: leggiamo il testo della lettera ai Galati cui si riferisce Mueller. Lo riporto subito qui:
«11Ma quando Cefa venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. 12Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14Ma quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?»».
Riccardo: Sì, sono questi i versetti del secondo capitolo della epistola di Paolo ai Galati in cui si racconta l’episodio della “correzione fraterna” di Paolo nei confronti di Pietro. Un episodio che il cardinal Mueller ricorda per giustificare la sua pubblica presa di posizione di contro al Papa. Eppure a leggere correttamente il passo emerge un elemento singolare: quello che Paolo contesta a Pietro è una simulazione. Il cercare di mostrare ai suoi correligionari giudei una rigida fedeltà alla legge mosaica che esclude i gentili dalla comunione col Popolo di Dio. Atteggiamento, questo, che per il giudeo Paolo contraddice quello che la sua esperienza di apostolato fra i gentili gli ha rivelato del Vangelo: che si tratta di un annuncio rivolto all’uomo, che permette di comprendere ancor meglio anche il senso del patto del Sinai. È l’esperienza sapienziale del mondo, messa di fronte al Vangelo, che rivela a Paolo una intelligenza più profonda delle cose e disinnesca la pericolosità del processo contrario. Perché fare della fede un sistema normativo significa costringerla nei vincoli rigidi di un codice di leggi: una delle strutture più marcatamente mondane, rinunciando a tutta l’infinita profondità di un cammino di libertà e verità.
Andrea: Un mio collega ha di recente citato, in un bell’articolo sulla tradizione liturgica antica, un testo di Gregorio Magno che dice:
“Sarebbe sciocco chi, ritenendosi il primo nel bene, non volesse imparare le cose buone che vede”.
I segni dei tempi hanno qualcosa da insegnare alla Chiesa. Che è certo mater et magistra, ma che, proprio come tutte le vere madri e le vere maestre, sa di dover imparare qualcosa di decisivo dalla vita dei propri figli e dal sapere dei propri discepoli.
Riccardo: Al termine di questo dialogo ritengo opportuno sottolineare nuovamente il rilievo della presa posizione pubblica di Mueller. È il segno di un cammino che giunge a maturità: quello che libera la teologia da una confusa sovrapposizione col magistero e restituisce la libertà della ricerca della verità della fede che è uno degli aspetti più vitali dell’umanizzazione cristiana dell’intelligenza delle cose.
La religione nei limiti della sola ragione
Ottobre 25, 2020 / gpcentofanti
Una delle conseguenze più drammatiche ed esiziali del razionalismo risiede nella circostanza che persino la guida cristiana, plasmata in una tale mentalità, può finire per ritenere poco rilevante l’insegnamento scolastico alla luce della propria fede. Nelle scuole cattoliche si può impartire in fondo la stessa formazione nozionistica, astratta, di quelle statali.
Le guide diventano paladine accanite di tale intellettualismo senza minimamente avvedersi che esso orienta al contrario dell’apertura della coscienza spirituale e psicofisica, ossia del cuore, nella Luce serena. Ci si chiude nei propri ragionamenti a tavolino, che Gesù chiamava loghismoi, al punto di ritenere che la stessa fede si basi su un misto di credenza e di ragionamento e non sul semplice accogliere nel cuore questa grazia quando la Luce la dona. Anzi quest’ultimo tipo di fede viene sprezzantemente considerato irrazionalismo. Non dunque sovrarazionale, ossia una fede crescendo nella quale si discerne tendenzialmente ogni cosa in modo sempre nuovo e più profondo.
Non ci si lascia portare da Dio nel mistero divino, umano, “materiale” ma si fa dei propri ragionamenti il criterio della stessa verità di Dio. Non si tratta di una maturazione del discernimento nella Luce, imparando per esempio a cogliere il linguaggio spirituale, non direttamente materiale, della Parola di Dio. Questione certo al fondo nota a molte persone di fede anche prima di Galileo. Si vedano gli scritti di san Giovanni della Croce. La kantiana religione nei limiti della sola ragione riduce la fede ad un ambito disincarnato e da sottoporre comunque al tribunale di una inesistente ragione astratta.
Se si privilegia una tale ragione astratta restano infatti un’anima disincarnata ed un resto emozionale-pragmatico dell’uomo. In una tale cultura la persona più attenta allo spirituale può così variamente rifugiarsi in un ambito etereo sospettando ma anche delegando tanti discernimenti della vita a conoscenze in realtà pseudoscientifiche.
Che si sia prevalentemente intellettualisti, spiritualisti o pragmatisti si resta fondamentalmente in una cultura razionalista. Dunque nell’astrazione, nella spersonalizzazione. Il campo ad un’etica omologante, tecnicista, spegnente, è largamente aperto. L’uomo può venire ridotto in nome di un falso bene ad un mero individuo consumatore perso un una massa anonima. Per la gioia di pochi ricchi e potenti che in nome della solidarietà lo annullano e lo schiavizzano. Paradossalmente tra gli stessi avversari di tali orientamenti si trovano drammaticamente fautori di quella stessa ragione astratta non a caso da loro declinata nel tradizionalismo di leggi altrettanto meccaniche, svuotanti. Perché riducono la vita dell’uomo ad un fare ostacolando la sua autentica, personalissima, ben al di là degli schemi, maturazione grazie e verso i riferimenti della fede.
Una guida cristiana può dunque sentirsi guardata con favore dai sempre più onnipervasivi media del sistema e confondere in buona fede una tale circostanza per un meraviglioso incontro con il mondo intero. Non si parla, almeno nei modi e nei tempi adeguati fin dalla scuola, di formazione alla vissuta luce della identità liberamente scelta e nell’allora autentico scambio con le altre ma con grande enfasi ci si fa paladini di una astratta religione dell’umanità che, come visto, della fede e dell’umanità autentica è proprio l’opposto.