La improvvisa comparsa di Don Romano. Un grato ricordo di un monaco di S. Giustina


 donromano

Quando un uomo, un cristiano, un monaco, un prete, un abate, scompare, improvvisamente, su una spiaggia del sud Italia, mentre cerca ristoro al caldo del mezzogiorno con un bagno di mare, il rischio è di chiudere lo sguardo su una vita, su una vocazione, su una predicazione, su una testimonianza, concentrando tutto su quella tragica fine, imprevedibile, amara e dura da portare.

Ma spesso dimentichiamo che gli uomini scompaiono con tanta rapidità quanto rapida è stata la loro comparsa. Vorrei qui ricordare come Romano sia comparso, d’un tratto, repentinamente, inatteso e autorevole, nella mia vita.

Erano i primissimi giorni di ottobre del 1988. Ero arrivato da poche ore a Padova, per iscrivermi e iniziare i corsi alla Abbazia di S. Giustina. Vi ero gunto in circostanze piuttosto inusuali. Del resto in tutte le occasioni decisive per trovare la mia strada, sono stato “chiamato”, non ho deciso quasi nulla da me solo. Già in occasione della mia iscrizione al Ginnasio, infatti, se non fosse arrivato in casa mia uno zio che solo in quel caso varcò la soglia di casa, per convincere i miei a cancellare la iscrizione a Ragioneria, e ad iscrivermi al Liceo, ora forse sarei in mezzo ai conti e non ai sacramenti. Anche nel secondo caso, mi trovai iscritto a Padova dalla iniziativa di un caro amico, che vedeva più lontano di me, e che aveva parlato e preso accordi proprio con Don Romano. Allora, quando giunsi a Padova, mi trovai davanti a Romano, per la prima volta. Con cordialità mi presentò il programma, mi fece l’esame di lingue, mi incoraggiò nei primi passi e poi mi consegnò, con mia grande sorpresa, le chiavi per la stanza e per accedere a diversi ambienti della Abbazia. Ma il mio stupore fu ancora più grande quando, due ore dopo, lo trovai, sempre lui, che mi serviva a tavola, in refettorio. Fu il mio “battesimo benedettino”. Mi si piantò addosso da allora, come un registro vitale, mediato dai suoi gesti e dal suo stile monastico.

Fu lui a mediare, qualche anno dopo, i rapporti con le edizioni Messaggero, con semplicità e continuità. Era un professore di grande timidezza, ma quando predicava, anche nelle messe feriali in Abbazia, si lasciava andare, e il tono della sua voce, dopo inizi sempre molto cauti, decollava, si faceva caldo e faceva sognare il regno di Dio, la carità che resta, alla fine, e la fede viva.

Aveva sempre tante cose da fare. Stampava, facilmente, con sempre rinnovato stupore. E fotografava, con gusto: croci, paesaggi, fiori, animali, luci.

Il carattere era sereno, semplice, accogliente, perennemente in ritardo, per eccesso di attenzione alle ultime richieste di aiuto, di consiglio, di incontro.

La comparsa, improvvisa, di Romano, ha segnato la mia vita, per sempre. Con Don Filippo erano i due punti di riferimento, a S. Giustina, come monaci e come responsabili della scuola.

Ora, la sua scomparsa non cancella quella comparsa. Durante la vita era sempre paziente, sempre conciliante, sempre pacato. Solo in un caso era veloce, deciso, dal piede pesante: quando guidava l’automobile. Guidava come un pilota in gara e più di un collega, alla sua offerta di “passaggio”, inventava su due piedi una scusa.

Da quando era diventato Abate a Finalpia, qui vicino a Savona, ci vedevamo molto meno. Pur abitando a 25 Km di distanza, non ci incrociavamo più nei corridoi padovani. Ora la notizia della scomparsa mi ha richiamato la sua comparsa, altrettanto improvvisa. Nell’ultimo congedo, lunedì scorso, nella Basilica di S. Giustina, il saluto corale di abati, monaci, preti, amici, parenti, ha mostrato, sul volto di tutti, la traccia di questa stessa “comparsa indimenticabile”. La memoria di questa presenza semplice e onesta, discreta e profonda, consolava i cuori e addolciva il dolore. La memoria grata della comparsa ha superato così l’amarezza dura della scomparsa.

 

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