la lettera del Papa ai Vescovi tedeschi


Esce oggi su “Settimana” ( 20/2012, p.3) questo commento alla Lettera del Papa Benedetto XVI ai Vescovi Tedeschi
Il “per tutti” diventerà “pro multis”?
Una lettera del papa ha puntualizzato ai vescovi tedeschi “perché” è meglio usare la traduzione letterale dell’espressione. Alcuni approfondimenti teologici e liturgici. Come si comporterà la Chiesa italiana?
La lettera che Benedetto XVI ha scritto ai Vescovi tedeschi il 14 aprile scorso manifesta apertamente l’intenzione di portare una parola chiara e definitiva sulla questione della traduzione della formula “pro multis”, che compare nelle parole pronunciate sul calice all’interno della celebrazione eucaristica. Vorrei qui presentare brevemente il contenuto della lettera, alcune piccole questioni che restano aperte al dibattito nonché alcune interessanti particolarità della recezione italiana della soluzione prospettata dal Papa per la Chiesa tedesca.

Benedetto XVI inizia il suo testo con una premessa di carattere storico, ricordando che la decisione successiva al Concilio di tradurre il pro multis con “per tutti”, fondata dal punto di vista esegetico e teologico, costituisce tuttavia non una semplice traduzione, ma una interpretazione del testo originale, che risponde ad un progetto di apertura al mondo moderno dei testi biblici e liturgici, favorendone una più diretta e profonda comprensione.
Cionondimento, citando la propria esperienza pontificale di celebrazione dell’eucaristia in diverse lingue, il papa mette in luce come, nell’adeguare alle diverse lingue il senso del testo originale, si sia rischiato di perdere la percezione del testo comune che è sotteso alle singole traduzione, le quali, a loro volta, appaiono in alcuni casi anche come una versione “banalizzata” dell’originale. D’altra parte, la istruzione “Liturgiam authenticam” (2001) ha introdotto il principio del primato della “traduzione letterale”, che dovrebbe chiaramente indicare la differenza tra il tradurre e l’interpretare, permettendo di salvaguardare anche la “estraneità” della lingua biblica e liturgica. In tal modo la parola biblica e liturgica resterebbe nella sua identità anche “estranea” alla cultura, mentre la interpretazione teologica, da compiersi nella comunità ecclesiale, sarebbe chiamata ad comprenderla e a renderla accessibile al soggetto moderno.
In tale contesto la Santa Sede ha deciso che la espressione “pro multis” sia semplicemente tradotta, e non sia interpretata. In forza di questa decisione, tuttavia, Benedetto XVI è consapevole che nel corpo ecclesiale potranno sorgere domande preoccupate intorno alla comprensione della salvezza che tale traduzione parrebbe avvalorare e solleva egli stesso alcune domande assai forti “Cristo non è forse morto per tutti? La Chiesa ha cambiato la sua dottrina sulla salvezza? Si vuole distruggere l’eredità del Concilio?”. Per evitare questo turbamento ecclesiale il papa chiede che alla modifica del testo sia premessa una capillare catechesi, di cui Vescovi e presbiteri debbono sentirsi responsabili. In tale catechesi il Papa chiede che vengano illustrati i motivi che avevano portato ad una traduzione “interpretativa” del “pro multis” con l’espressione “per tutti”, da considerarsi con tutte le sue buone ragioni, allo scopo di offrire immediatamente il senso universale della salvezza cristiana, rispetto alla quale si tratterebbe ora di spiegare accuratamente i passaggi che permettono ai “molti” di non chiudersi, ma di sentirsi responsabili per “tutti”.
Benedetto XVI vuole mostrare come le parole originali della istituzione della eucaristia – che parlano di “voi” e di “molti” – siano la forma concreta – e non astratta – dell’universalismo cristiano. Nel chiarificare bene questa correlazione – senza opposizione – tra “molti” e “tutti” sarà dimostrata contemporaneamente non solo la continuità nella dottrina della salvezza universale, ma anche la necessaria articolazione interna a tale dottrina. Con il magistrale sviluppo di un modello di questa catechesi previa si conclude il testo della lettera indirizzata ai Vescovi tedeschi. I quali, rispondendo al papa, hanno sottolineato il grande contributo che la lettera offre alla comprensione della azione salvifica di Gesù Cristo “affinché la universalità della salvezza che da lui deriva sia espressa in modo inequivocabile”, come dice il testo papale stesso.
Alcune questioni meritano tuttavia un ulteriore approfondimento.
Bisogna riconoscere anzitutto che il superamento del “tenore letterale” fa parte del lavoro stesso del tradurre, non è semplicemente una aggiunta interpretativa. Per questo una netta contrapposizione tra traduzione e interpretazione, così come appare nel testo della lettera, non è sempre del tutto chiara. D’altra parte, il fatto di tradurre, in quanto tale, dovrebbe permettere di far accedere il lettore al senso del testo. Se dopo la traduzione il testo resta quasi inintelleggibile senza una adeguata catechesi, questo fatto pone una questione non piccola per la vocazione pastorale della Chiesa. Se è vero che una certa “estraneità” della lingua deve poter restare nel testo liturgico, e se è altrettanto vero che le lingue moderne introducono una contraddizione ignota alle lingue antiche tra “molti” e “tutti” (come ha bene evidenziato il Card. Vanhoye), il solo uso liturgico può avere la forza di sovvertire tale contraddizione? O tutto il peso verrà comunque spostato sul piano della catechesi?
D’altra parte le lingue non sono semplici strumenti espressivi, ma visioni complessive del reale. L’idea di tradurre “letteralmente” presuppone che le relazioni tra le parole non mutino da lingua a lingua, ma così non è. Per questo Tommaso ricordava che di molte traduzioni quella letterale è spesso quella più facilmente sbagliata! Ciò non significa che non si debba scrupolosamente rispettare il tenore filologico originario di un testo biblico o liturgico. Ma il destinatario non può essere assente nell’atto della semplice traduzione, che ha sempre in sé una dimensione necessariamente interpretativa. L’esempio più tipico è quello costituito da tutte le forme di traduzione di linguaggi non tecnici. I proverbi, le poesie, le lodi, le imprecazioni non possono mai essere tradotte semplicemente “in modo letterale”, a pena di perderne tutto il senso. Bisogna farle entrare dentro una cultura, nella quale possano anche conservare il loro aspetto di “estraneità”, ma in forma relativa. Altrimenti, se la estraneità è assoluta, il passaggio da un contesto linguistico ad un altro fallisce, mentre il passaggio dal celebrare all’assistere rischia di tornare a minacciare l’esperienza stessa del soggetto e della comunità radunata.

Tra gli elementi richiamati dalla lettera bisogna anche notare una tensione, percepibile dalle prime righe del testo, tra i destinatari della lettera (i vescovi tedeschi) e la questione della traduzione tedesca del “Gotteslob” (Libro di preghiera) che riguarda invece “l’area linguistica tedesca”. I rapporti tra ambito ecclesiale/nazionale tedesco, austriaco e svizzero, che restano sempre molto delicati, potrebbero risentire del fatto che la lettera ha come destinatari soltanto i Vescovi tedeschi.
Una diversa considerazione riguarda invece la prevedibile recezione della lettera da parte della Chiesa Italiana. Qui occorre procedere con grande cautela, a causa di una condizione più complessa della nostra tradizione italiana rispetto a quella tedesca. Infatti la traduzione italiana delle “parole della consacrazione” ha assunto nel percorso della Riforma Liturgica la prospettiva di una traduzione delle parole della istituzione secondo una forma non letterale, applicando tale principio non solo alle parole sul calice – e rendendo quindi “pro multis” con “per tutti” – ma anche alle parole sul pane – rendendo “quod pro vobis tradetur” con “offerto in sacrificio per voi”. Per un principio di coerenza, che difficilmente potrà essere ignorato, ogni intervento nel senso della “traduzione letterale”, nel momento in cui fosse valutato necessario da parte della CEI, dovrebbe comportare una revisione non solo delle parole sul calice, ma anche di quelle su pane, che potrebbero/dovrebbero essere rese con “che è dato (o che è offerto) per voi”. Diversamente, se si ritenesse che vi siano ancora buone ragioni per lasciare la traduzione “non letterale” per il pane, sarebbe difficile non muoversi in tal modo anche per il calice, nonostante il diverso criterio seguito da parte della Chiesa tedesca, ma in quel caso nella piena coerenza tra pane e calice.
Qui, tuttavia, io credo che dovrebbe valere il principio generale per cui la universalità della Chiesa si sperimenta non “nonostante”, ma “grazie” alle diverse culture. E perciò come per l’anno della fede il riferimento al CCC non leva affatto alle diverse forme di adattamento della catechesi a livello nazionale e locale il loro spazio necessario, così le chiare parole del Papa rivolte ai confratelli vescovi di lingua tedesca sollecitano i vescovi italiani ad una valutazione necessariamente e responsabilmente ricca e articolata.
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