La liturgia malata e il vano tentativo di rianimare il Messale del 1962
Proprio in un tempo di così grave crisi sanitaria, dove la vita di moltissimi uomini e donne a Roma, in Italia, in Europa e nel mondo è messa radicalmente in discussione, non mi sarei mai aspettato di vedere ragguardevoli Congregazioni della Chiesa romana scivolare nelle trappole che il passato lancia sempre tra i piedi del presente. Quanto è facile, quando si è dentro una istituzione così antica, pensare che la tradizione sia un museo da conservare piuttosto che un giardino da coltivare. E anche quando nel giardino ci sono uomini e donne che soffrono, che cercano orientamento, che sospirano una parola di vita e di speranza, non è poi così difficile preoccuparsi del buono stato del museo, di lucidare le maniglie e gli specchi, di compiacere gli amici, di ripetere semplicemente la filastrocca del passato, a memoria e con un certo sovrano distacco.
Così, dopo aver visto la Congregazione del Culto risolvere con il Decreto Covid-19 le questioni riguardanti la Pasqua col piglio di un regolamento condominiale riservato a chierici, e dopo aver visto la Penitenzieria Apostolica scrivere ben due Documenti per trattare penitenza e indulgenze soltanto come questioni rilevanti ai sensi del Codice di Diritto Canonico, ieri siamo stati sorpresi dall’urgentissimo e attesissimo duplice Decreto con cui si integrano nuovi prefazi e nuove feste di Santi nel Messale Romano del 1962. Chi legge forse penserà che io stia scherzando. No. Prima la Commissione Ecclesia Dei, temporibus illis, e poi, nell’ultimo anno, una Sezione della Congregazione per la Dottrina della Fede hanno speso tempo, energie, soldi, hanno convocato “esperti”, fatto riunioni, sondato terreni, oliato ingranaggi, per poter arrivare a – udite udite! – modificare quel Messale che papa Giovanni XXIII aveva approvato nel 1962, come “strumento provvisorio” in attesa del Concilio e della Riforma Liturgica. Quel messale che quindi, a causa del fatto che, a partire dal 1969, abbiamo avuto un nuovo “Ordo Missae”, era ovviamente rimasto allo stadio di allora, senza alcun aggiornamento o modifica.
Come è stato possibile tutto questo? Come è stato possibile che una Congregazione, che non è competente in materia liturgica, potesse approvare la modifica di un “ordo” che è uscito dalla vigenza dal 1969 e che un Motu Proprio del 2007 pretende di aver “rimesso in vigore”? Proviamo a ricostruire brevemente le tappe di questa storia:
a) Papa Giovanni XXIII, nel 1960, valutando il da farsi, aveva esitato: doveva dar corso alle riforme che Pio XII aveva già preparato, oppure doveva aspettare lo svolgersi del Concilio, che aveva già convocato? Decise di procedere alla revisione del Messale tridentino, in forma provvisoria. Il Concilio avrebbe fissato gli “altiora principia” sulla base dei quali si sarebbe fatta la riforma. E così nacque il testo provvisorio del 1962.
b) Il Concilio, esplicitamente, ai numeri 47-58 di Sacrosanctum Concilium, fissa le linee fondamentali della riforma dell’Ordo Missae, che verrà realizzato e approvato nel 1969. E chiede, per questo, di modificare profondamente, di integrare largamente, di implementare e arricchire strutturalmente il rito del 1962.
c) Paolo VI, all’entrata in vigore nel Novus Ordo ribadisce quello che il suo predecessore e il Concilio avevano detto. Il nuovo testo sostituisce il precedente, a causa dei limiti rituali, teologici, pastorali e spirituali del testo precedente.
d) Nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, Benedetto XVI cerca di favorire la “riconciliazione” nella Chiesa e concede un più largo uso del “messale del 1962”, costruendo una ipotesi sistematicamente assai discutibile e argomentata con il sofisma della “co-vigenza” di un rito ordinario e di un rito straordinario. Come disse Camillo Ruini, alla uscita di SP: “speriamo che un gesto di riconciliazione non diventi un principio di divisione”.
e) In questi 13 anni la presenza del “rito straordinario”, con la sua equivoca ufficialità, ha dato forza a tutte le forme di chiesa “anticonciliare”. Non era certo nelle intenzioni di Benedetto XVI, ma lo è stato negli effetti. Questo rito “antico” ha coagulato intorno a sé volti della reazione ecclesiale e civile, passatisti di varia stoffa, aristocratici decaduti, snob rampanti e anche qualche soggetto poco equilibrato. Nel frattempo, la Commissione Ecclesia Dei conduceva trattative di accordo con i lefebvriani in cui non si capiva mai da quale parte del tavolo ci fossero i veri nemici del Concilio Vaticano II. Di amici, se ne vedevano sempre pochi.
f) Da ultimo, la Commissione, avendone combinate di troppo grosse, è stata soppressa. Ma, come si vede dai documenti presentati ieri, si è semplicemente trasferita all’interno della Congregazione per la Dottrina della Fede. I cui responsabili non possono cedere alla devianza e al parossismo. Anzi, può addirittura sembrare che ne abbiano sposato e firmato gli esiti più implausibili.
Poniamo ora la questione vera, che non è di carattere liturgico, o giuridico, ma sistematico. Sul piano della teologia sistematica tutta questa operazione è una mistificazione senza possibilità di scampo. Dire che sono vigenti contemporaneamente due riti, di cui il secondo è nato per correggere, emendare e rinnovare il primo, è un sofisma che fin dall’inizio ha alterato le competenze liturgiche nella Chiesa cattolica. Ma è un sofisma sistematico che non riesce a convincere e che soprattutto non funziona. Tanto che, dal 2007, non solo i Vescovi delle diocesi non possono sovrintendere alla liturgia nella loro diocesi, ma ora è chiaro che anche la Congregazione del Culto non può esercitare il discernimento in materia liturgica, perché una “liturgia straordinaria” viene controllata e modificata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Senza neppure informare il Dicastero competente per materia.
La teologia sistematica può far notare, inoltre, che un rito del 1962, che dal 1969 è “fuori uso”, se all’improvviso qualcuno vuole di nuovo utilizzarlo, si trova inevitabilmente ricacciato nel 1962. Questa cosa fu notata subito, pochi mesi dopo il luglio del 2007, quando si dovette affrontare una grave questione: il venerdì santo, quando si sarebbe pregato per i fratelli ebrei, coloro che si fossero avvalsi delle formule del 1962, come avrebbero potuto evitare di arrossire loro e far arrossire tutti quelli che li ascoltavano con le parole della formula di preghiera per i “perfidi giudei”? E gli azzeccagarbugli di allora, così simili a quelli di oggi, dissero: costruiamo una “nuova formula” che sia diversa da quella del 1962, ma diverse anche da quella del 1969. Così nel 2008 si inventò una formula non così antigiudaica come quella del 1962, ma non così irenica, come quella del 1969. Fu come se nel 2008 si fingesse di essere nel 1966, un po’ dopo il 62 e un po’ prima del 69. E abbiamo creato così il primo “mostro”. Molti altri sono stati i “mostri” che in questi 13 anni abbiamo visto nascere. Come quando, tre anni dopo, la commissione Ecclesia Dei, sempre con il “placet” dell’allora Prefetto della Congregazione, stabilì questo principio, che sembra preso dritto dritto dalla “Fattoria degli Animali” di Orwell: “vi è gruppo valido per la richiesta del “rito straordinario” quando la richiesta è fatta da almeno tre persone, anche appartenenti a diocesi diverse”. Ma bene! Che meraviglioso giochino! In questo modo tre persone, di tre diocesi diverse, potevano e possono, nelle tre diverse diocesi, fondare tre gruppi di fedeli “VO”, ognuno avente come membri gli stessi tre soggetti. Un capolavoro di mistificazione, con puntuale benedizione romana. E così arriviamo a questi nostri giorni. E vediamo come la curia romana, in determinati e limitati suoi settori, favorisce apertamente se stessa, le proprie chiusure, le proprie fissazioni, arrivando a compiacere il desiderio di “aggiornare” il messale del 1962, pur di non aver nulla a che fare con il messale che lo aveva aggiornato fin dal 1969! Quel Messale, che papa Giovanni voleva provvisorio, che il Concilio ha voluto superare e che Paolo VI ha di fatto superato, ora si decreta di rianimarlo, di truccarlo, di dargli un minimo di passabilità, di non farlo apparire così vecchio e così povero come irrimediabilmente esso è. Ma il Messale del 1962 non si rianima, non può essere rianimato. E’ morto. Pensare di “rianimarlo” è il sofisma di Summorum Pontificum, che però è un documento piccolo piccolo, con una vocina esile esile, cos’ diversa dalla voce squillante del Concilio, della Riforma Liturgica e della esperienza del popolo di Dio di 50 anni, in 5 continenti diversi. La piccola provincia che si chiama Curia Romana può sempre scambiare le vocine stentate per il fragore di grandi acque, ma non può giocare con la tradizione né con il buon senso del popolo di Dio, solo per compiacere pochi reazionari con aderenze altolocate. Noi, invece, ci sentiamo proprio bene e diamo alle vocine il peso delle vocine, e al fragore delle cascate il dovuto rilievo.
Di fronte a questo spettacolo “pusilli animi”, di cui però i protagonisti non riescono a cogliere la meschinità, un’ultima cosa deve essere detta. In fondo questi azzeccagarbugli della liturgia hanno pure le loro ragioni. Perché in questi 13 anni hanno potuto fare molte cose indisturbati: quanti uomini di Chiesa, quanti pastori, quanti teologi, quanti responsabili della liturgia o dei seminari hanno avuto il coraggio e la onestà di parlare chiaro? Di denunciare i trucchi, i sofismi, gli effetti distorti di tutto questo meccanismo di nostalgia reazionaria? Perché non oggi, ma fin dall’inizio tutto era assolutamente chiaro. Fin dall’inizio c’era mistificazione sui dati, c’erano cardinali che parlavano della “grande riforma di Giovanni XXIII” e magnificavano le “orde di giovani” assetati di VO. Eppure quasi tutti sono rimasti zitti. Addirittura alcuni teologi, anche di fama, si sono piegati a lodare “Summorum Pontificum” come “lezione di stile cattolico”. Ma la maggior parte rimasero zitti e muti. Oggi vediamo bene che, se non diciamo la verità, se non lo facciamo anzitutto noi teologi, che siamo nella Chiesa proprio per questo, per dire la verità, gratuitamente, senza tornaconto, senza immediata responsabilità pastorale, ma solo per dire le cose come stanno – anche quando costa, forse soprattutto quando costa – se non lo facciamo noi, entriamo tutti in un circolo vizioso di distorsioni, di contorsioni e di mistificazioni tali, che nella Chiesa non si riesce più a distinguere ciò che è necessario, ciò che è possibile e ciò che è ridicolo. Tuttavia, poiché questi sono giorni in cui molta gente muore, e se non muore sta male, vive isolata, è preoccupata e talvolta persino disperata, vedere settori della Curia romana baloccarsi a far le riformine giocattolo dei riti tridentini, a calcolare le indulgenze sui trenta minuti (non 29) di Scrittura letta o ridurre la messa in coena domini a “ufficio ecclesiastico” per singoli celibi, non solo è un fatto triste e imbarazzante, ma può assumere anche un profilo drammatico e un senso quasi tragico di insuperabile autoreferenzialità.
Gentile prof.Grillo,
mi auguro che le sue parole vengano diffuse il più possibile nella curia vaticana. Per far capire che certe tematiche sono molto importanti e che non vanno affrontate con superficialità o con ignoranza; e che, soprattutto, non tutte le persone che aderiscono con sincerità e buona fede alla religione cristiano-cattolica hanno, come si dice, l’anello al naso per ingollare tranquillamente quel che viene deciso ai piani più alti del palazzo, facendo passare per buone, con nonchalance, certe deplorevoli mistificazioni.
Evviva chi ha il coraggio di parlare in nome della verità!
Chiarissimo prof. Grillo,
Seguo da anni il suo blog, pur trovandomi, per ragioni teologiche e liturgiche, “dalla parte opposta”. Non mi definisco “lefebvriano”, né sedevacantista, né tantomeno conservatore o tradizionalista nella comune accezione del termine. Mi considero un figlio della Chiesa, che nel suo piccolo, prova a servire anzitutto nel proprio tempio laico, che è la famiglia, e come insegnante di Religione nella scuola pubblica.
Non ho mai avuto alcun problema a partecipare alla Santa Messa celebrata secondo il Messale Romano riformato, né a pregare l’Ufficio Divino servendomi della Liturgia delle ore.
Tuttavia, per quanto abbia cercato di far quadrare il cerchio, non le nascondo di trovare più consono per la mia vita spirituale il cosiddetto Rito Romano Tradizionale, sia per ciò che concerne la Santa Messa, sia per la celebrazione dell’Ufficio divino. Non saprei se ciò costituisca una colpa ai suoi occhi, o sia indice di volontà di scisma, eppure, in coscienza non riesco ad ammettere che il nero sia bianco e viceversa.
Mantengo inoltre una posizione critica nei riguardi della Riforma Liturgica e di talune “innovazioni” teologiche del post concilio in materia di esegesi, morale, dogmatica, sacramentaria e pastorale.
Ciò premesso, tengo a complimentarmi con Lei, per l’onestà intellettuale, la coerenza e la perfetta logicità delle sue conclusioni.
Confesso che, pur reputandola, dal punto di vista esclusivamente teologico, un “nemico”, apprezzo la sua competenza ed il suo amore per la verità e ritengo che Lei rappresenti in Italia, una delle pochissime voci di vera e sincera ermeneutica del Concilio Vaticano II.
Sottoscrivo ogni virgola del presente articolo, condivido la sua analisi sull’attuale situazione di anomalia liturgica, le sue critiche al Motu Proprio “Summorum Pontificum” e insieme a lei considero l’edizione del Messale Romano promulgata da San Giovanni XXIII Papa, un rito di transizione. Effettivamente, e lo scrivo con cognizione di causa, avendo letto e studiato il mattone di Mons. Annibale Bugnini sulla riforma liturgica, non ha alcun senso rifiutare la riforma 2.0 per rifugiarsi nella sua versione 1.0, essendo gli autori dell’una e dell’altra i medesimi e soprattutto essendo queste riforme guidate dai medesimi princìpi.
Nella speranza che un giorno non lontano, possa cessare questa dicotomia liturgica, in modo da tornare ad una unità di culto del Rito Romano, la saluto nel Signore, e le auguro una buona giornata e buon lavoro.
Con stima,
Prof. Andrea Russo
Corrispondo volentieri al suo saluto e auguro buone cose. Con gratitudine
Caro Prof. Grillo,
sono un assiduo lettore del suo blog, anche se sono su posizioni differenti dalle sue in materia liturgica. Tuttavia trovo interessantissime le sue analisi e la apprezzo per la chiarezza con cui espone le sue tesi.
Avrei da confidarle tantissime cose….mi piacerebbe interloquire con lei di persona (tra l’altro sono un suo “condiocesano” di Savona)…magari si presenterà l’occasione…
Ho deciso di scriverle perchè ho letto il post del prof. Andrea Russo e devo confessare che sono completamente d’accordo con lui. Da quando mi sono avvicinato alla Santa Messa secondo il VO, sono stato rapito da essa e mi ci trovo spiritualmente molto di più che in quella secondo il NO. Ben inteso, per me sono entrambe valide e io partecipo indifferentemente ai due riti, anche secondo le mie esigenze di tempo e gli impegni lavorativi e familiari…
Secondo me il Motu Proprio SP ha colpito proprio nel segno, cioè ha evitato la divisione; ed è proprio su questo che io dissento da lei. Ha dato la possibilità a tanti fedeli di ritrovarsi spiritualmente nella preghiera. Ad esempio io apprezzo tantissimo il silenzio durante l’elevazione, il fatto che il sacerdote sia orientato come culmine dei fedeli, il fatto di potersi ritrovare in un’unica lingua che è quella ufficiale della Chiesa (io giro parecchio ed è stupendo poter acoltatre ovunque la stessa lingua!).
Io ringrazio il papa Benedetto per aver dato la possibilità di mantenere vivo questo tesoro e non lasciarlo da una parte nelle mani degli scismatici e dall’altra nelle mani dei Vescovi, che spesso purtroppo sono prevenuti di fronte ad esso.
Porgo distinti saluti.
Stefano Bergero
Purtroppo solo i Vescovi possono capire se in loco esiste una reale necessità, oppure il rito antico è solo un modo per non accettare il cammino ecclesiale comune, che non è nella disponibilità di singoli fedeli, per quanto animati da buone intenzioni. Per questo una soluzione “universale” è uno “stato di eccezione” che non ha più alcun senso. E crea continue divisioni nella Chiesa, che ormai (e forse da tempo) abitano anche nelle stanze della Curia romana.
Qualche noticina sul commento del sig.Stefano Bergero.
Il fatto che lui si ritrovi spiritualmente più vicino al VO rispetto al NO, e si senta “rapito”, è un fatto del tutto individuale e soggettivo. Non per tutti, infatti, è così.
Durante l’elevazione il silenzio c’è sempre, anche nella liturgia del NO.
La lingua comune, ovvero il latino, può piacere ad alcuni ma di certo non a tutti.
Ho conosciuto persone che si rammaricavano di non poter comprendere quella “lingua comune”. La qual cosa significa che molti vogliono partecipare attivamente al rito sacro, e tale partecipazione avviene, di fatto, comprendendo bene la lingua con cui il celebrante guida l’assemblea.
Ciò non avveniva prima del C.V.II, quando molti fedeli partecipavano alla Messa restando completamente passivi.
Cara Victoria,
io non penso assolutamente che debba essere abolito il NO, così come non rinnego il C.V.II, anche se ci sarebbe molto da discutere, alla luce della costituzione Sacrosanctum Concilium, su alcune degenerazioni in materia liturgica e musicale….non legate al NO in se stesso, ma piuttosto a come vengono animate le liturgie. Sarebbe molto interessante che il Prof. Grillo proponesse una discussione su questo tema sul blog.
Io penso semplicemente che la cosa giusta sia proprio quella affermata da Benedetto XVI in SP: “Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano.”
Quindi lei ha ragione quando afferma che le mie affermazioni sono del tutto personali….il fatto che io mi ritrovi più nel VO che nel NO è una mia condizione personale e non pretendo assolutamente che ci si trovi meglio anche lei, così come non penso assolutamente che debba essere abolita la messa nelle lingue nazionali (ricordo però sommessamente che il latino è fino a prova contraria la lingua ufficiale della Chiesa Cattolica Romana e quindi non dovrebbe essere peccato il fatto di apprezzarne l’uso nelle celebrazioni liturgiche; a tal proposito si legga gli articoli 36 e 54 della costituzione conciliare SC )…..Allo stesso modo condivido anche quanto esposto dal Prof. Grillo quando afferma che il cammino ecclesiale non è nella disponibilità dei singoli fedeli.
Ma il fatto di aver “liberalizzato” le celebrazioni secondo il VO fa parte del cammino ecclesiale comune….è un papa che l’ha stabilito e quindi io non mi sento assolutamente in colpa nel cogliere questa occasione.
Piuttosto non capisco bene che cosa voi proponete. Di non concedere più le celebrazioni secondo il VO? Di costringere i fedeli che vogliono assistervi a fare centinaia di chilometri per trovare una diocesi dove il Vescovo sia ben disposto? Oppure essere costretti a frequentare le celebrazioni dei sacerdoti della Fraternità S. Pio X? A me sembra che la situazione attuale sia quella corretta: in una diocesi su cento messe festive ce ne sono 98/99 secondo il NO e 1/2 secondo il VO per quei pochi che vogliono assistervi.
Siccome la Messa non è oggetto di self-service, credo che l’unica prospettiva fedele allo sviluppo della tradizione sia di uscire dal regime di eccezione. Che cosa è il “regime di eccezione”? Ciò che papa Benedetto ha sperimentato a partire dal 2007. Tale regime aveva come obiettivo riconciliare la cattolicità divisa dai lefebvriani. Questo e non altro era l’intento. Fin dall’inizio fu chiaro che questo intento non fu raggiunto ed anzi si divisero molte parrocchie che prima erano unite. La liturgia non è un “livello di attaccamento” del soggetto, ma è il linguaggio comune a tutta la Chiesa. Per questo il regime di eccezione deve finire. E’ già durato troppo. Che cosa significa che deve finire? Che le competenze devono trovare a chi le ha per vocazione ecclesiale, e devono essere ritirate da chi le usurpa. Se i singoli vescovi, tenendo conto delle condizioni della diocesi, vorranno concedere la possibilità, a gruppi significativi, di celebrare secondo il rito preconciliare, potranno farlo. Chi ha passione per il latino, potrà soddisfarla nel rito di Paolo VI in lingua originale. Tutto il resto continuerà ad avere l’unico rito comune. Il rito romano nell’unica forma vigente. Il resto è sofisma o nostalgia.
Gentile Stefano,
che altro aggiungere a quanto detto egregiamente dal prof. Grillo? Solo qualche precisazione.
Intanto, io non addebito nessuna “colpa” né a lei né ad altri che abbiano preferenza per i riti preconciliari. Ci mancherebbe altro! È come quando, in campo musicale e artistico in generale, certi restano incantati da musiche e forme d’arte che ad altri invece possono non piacere. E non ci sono colpe in questo.
Ma per la Messa c’ è un discorso più profondo da fare.
La Chiesa cattolica ha elaborato nel 1969 una forma liturgica valida per tutti i cattolici del mondo; tenendo conto, realisticamente, del fatto che essa doveva rendere più attivi e partecipi i fedeli laici, diversi per lingua e cultura nelle varie parti del mondo. Nell’ intento ulteriore di attrarre il più possibile al rito liturgico gli abitanti di un dato paese.
Ora è chiaro che il VO, richiamato da papa Ratzinger per far rientrare lo scisma lefebvriano, non ha sortito l’ effetto sperato. Per cui non ha più ragion d’ essere.
Generalmente viene seguito dai nostalgici. Infatti nella mia città c’ è una chiesa ad hoc. Bene. Se a costoro sta bene quella Messa, con tanto di latino e di spalle del prete in cui specchiarsi, sia il Vescovo ad autorizzarla, non una Congregazione che non ha la facoltà di farlo. Questo è il nodo della questione.
Avete mai visto Lilli e il Vagabondo della Walt Disney? Spero di sì. Il cartone animato ebbe in italiano due doppiaggi: nel primo, quello degli anni cinquanta, furono reclutati i migliori doppiatori dell’epoca e il risultato fu un capolavoro; il secondo, invece, cercò di adattare il linguaggio al nuovo millennio, eliminando tutta quanta la poesia. L’esito fu alquanto sgradevole, e qualcuno si fece sentire. I paladini del nuovo ostacolarono chiunque cercasse di ridare voce ai dialoghi armoniosi e incantevoli di un tempo; coloro che invece decisero di formulare un parere obiettivo al riguardo, confrontarono serenamente il nuovo doppiaggio con quell’antico, restituito finalmente al pubblico per bontà della stessa casa di produzione. Il risultato fu questo: quello vecchio fu giudicato di un livello artistico di gran lunga superiore. Certamente nessuno mette in dubbio che si tratta dello stesso Lilli e il Vagabondo. Stessa sostanza insomma. Ma quale abisso separa le due forme! Non sono nato negli anni cinquanta, ma il senso del bello penso di averlo. Il doppiaggio vecchio mi pare un’opera d’arte, che mi ha colpito il cuore e la mente. Ogni volta che lo vedo torno bambino e canto volentieri: “Dolce sognar e lasciarsi cullar”. Penso che il sig. Disney sia molto felice per me. Provi anche Lei, Prof. Andrea Grillo, si lasci trasportare dalla poesia dell’antico doppiaggio per una volta, e non lo giudichi solo per partito preso. Almeno non impedisca a molti di tornare bambini. Non abbia paura e renderà un grande servizio alla Disney.
Per i cartoni animati non c’è dubbio. Il problema della messa è che non è oggetto di semplice estetica. Prevede che lei diventi Lilly e il vagabondo, non che la stia a guardare, sognando. E questo è un’altra prospettiva, dove la nostalgia è, di norma, fuorviante.
Gentile Prof. Grillo, vedo che il problema dei “perfidis judaeis” sta a cuore ai liturgisti e si è cercato di rimuoverlo dal rito latino.
Tuttavia, essendo io un cattolico di rito bizantino, debbo notare come nell’Ufficio della Passione del Grande e Santo Giovedì, le formule rivolte nei confronti dei fratelli giudei sono molteplici. Perché il problema per quel rito lì non si pone?
Ne consegue che la Chiesa Cattolica fa arrossire comunque i suoi fratelli giudei.
Calcolando che il fatto che i cattolici che seguono la forma straordinaria del rito sono una piccolissima parte del mondo cattolico, che senso questo accanimento, quando, oltretutto, le medesime formule (ancora più veementi) permangono nella Divina Liturgia celebrata dai cattolici di rito bizantino?
Il problema è sempre grave, ma è diverso. Si tratta di un rito che riguarda una porzione di fedeli. La forma straordinaria riguarda invece potenzialmente tutti coloro che appartengono alla Chiesa romana di rito latino. Ed è problema che riguarda un aspetto, ma non la forma rituale in quanto tale. Di quei la diversità della attenzione
Può al momento non costituire problema in sé, ma conosco molti tradizionalisti che, nell’impossibilità di seguire il rito tridentino per l’opposizione che si riscontra in alcune diocesi, cercano, laddove possibile, di frequentare i cattolici di rito greco. Conosco personalmente due fedeli che hanno operato questa scelta. Cosa si fa se questa gente decidesse di riversarsi nel rito bizantino? Sto parlando di un’eventualità solo teorica ed ipotetica.
A mio modestissimo avviso, il problema non si risolverà mai cercando di negare quella che è una crisi in atto. Un passo in avanti sarebbe, per esempio, attenersi alle indicazioni più specifiche della Sacrosanctum Concilium e sui documenti conciliari che non dispongono affatto che il rito possa essere lasciato all’arbitrio del sacerdote. Mi è capitato di assistere per ovvi motivi, dato che vivo nel cosentino, a celebrazioni in rito latino. Per la mia sensibilità orientale, sono rimasto sbigottito nell’assistere a tanta sciatteria e a tanto scarso senso di sacralità promanante da quelle celebrazioni. Non credo fosse nel desiderio dei padri conciliari vedere, un giorno, simili mancanze. Né vorrei dare ragione a Viganò quando parla di Concilio come finestra di Overton. Sarebbe anche ora, lo dico per il profondo bene che nutro nei confronti della Chiesa, che si iniziasse a rispettare maggiormente la liturgia. Un primo passo per porre cercare di porre fine al disorientamento di tanti fedeli.
Un cordiale saluto.
Professore Grillo,
Lei prende pure il tempo di giudicare e scrivere un articolo cosi lungo, in periodo di Covid, per sputtare sui fedeli che tengono a conservare il rito tradizionale che, per secoli, ha nutrito la fede di innumerevoli santi. Cosa v’importa alla fine, se ci sono pure giovani che preferiscono pregare in quel modo. Con la nuova liturgia abbiamo svuotato le chiese e perso un patrimonio musicale per sostituirlo con cansonette. Abbiamo distrutto altari patrimoniale per celebrare su cubi di pietra e perso totalmente il senso del sacro. Ringraziamo Dio, se in un mondo cosi squallido, ci siano ancora persone e giovane famiglie che si lasciano trasportare da una liturgia che eleva i loro cuore e nutre la loro fede. Io sono cappellano in carcere da tredici anni e sono sorpreso vedere come piace ai giovani detenuti la bella liturgia, con alcune parti in canto gregoriano. Hanno pure la traduzione in lingua francese sotto le antifone. Invece di infantilizzare la gente con canzonette e guitarrate in chiesa, ammiro il gesto di Papa Benedetto e la Congregazione del Culto divino, per il loro senzo pastorale, anche in periodo del Covid. Almeno loro non rimangono le braccia incrocciate e fanno il loro lavoro. Se a lei non piace la vecchia liturgia, respetti almeno coloro che sanno apprezzarla. Mi creda, non perda il suo tempo, in periodo di Covid, ad esprimere le sue frustazioni su internet. Io celebro sia il rito antico che quello conciliare e non ne faccio una malattia come lei. Nella Chiesa ci sono diversi riti ed è giusto che sia cosi. L’unità, nella Chiesa, puo benissimo farsi nella diversità di espressioni rituali.
Don Carlo Apesteguy
Mi pare che la sua frase finale contrasti con l’esperienza e anche con il MP Traditionis Custodes.