La memoria del Vaticano II


SENZA IL CONCILIO FORSE 
NON SAREI NEPPURE PIÙ CATTOLICO

Vale la pena riprendere questo testo appassionato, di un bravo giornalista e uomo di fede come Paolo Giuntella, che aveva riflettutto, intorno al 40^ anniversario del Concilio, sull’evento e sul suo significato per la Chiesa contemporanea. Rileggerlo quasi 10 anni dopo fa molta impressione e può essere assai istruttivo, soprattutto in relazione ai discorsi ingiusti ti molti nuovi “profeti di sventura”, che non sanno riconoscere la verità e la bontà del Concilio Vaticano II.

“Senza il Concilio Vaticano II forse oggi non sarei cattolico. L’ho detto e ripetuto spesso negli anni, ma soprattutto l’ho scritto e ripetuto nei mesi del 40° compleanno del Concilio. Ho sempre detto, o scritto forse perché naturalmente le vie del Signore sono infinite e tanto più, per quanto uno possa avere una testa narrativa, è difficile immaginare a ritroso delle scelte frutto di un condizionale, anzi di un congiuntivo che regge un condizionale: “Se non ci fosse stato il Concilio sicuramente oggi non sarei cattolico”. Non lo so e naturalmente non posso dirlo. Ma questa è la mia netta sensazione di oggi. E perciò lo dico, senza enfasi celebrativa. Perché noi siamo poco avvezzi a ricordare come era la Chiesa prima del Concilio. Spiritualità intimiste, trionfalismo ormai perdente e sopravvissuto a sé stesso, nostalgie del potere temporale, doppia morale, primato della facciata pubblica rispetto all’autenticità e alla coerenza, liturgia in latino cioè in una lingua sconosciuta per il novanta per cento dei cattolici di tutto il mondo, e dunque ritualità che finivano per diventare – anche al di là delle migliori intenzioni e della fede più convinta e genuina – per la maggioranza dei “fedeli” riti avvolti dall’incanto o dal tormento, velati di una sorta di magia, spesso vissuti dalla gente semplice ma anche dalle buone signore della borghesia o dell’aristocrazia più bigotta, con superstizione, o tradizioni popolari.
E’ vero che c’erano stati negli ultimi secoli anche pontefici squisitamente religiosi o pastori e persino riformatori, ma il conflitto irrisolto e perdente con la Modernità, la nostalgia – anche nei migliori – dell’ordine sociale cristiano perduto, delle gerarchie perdute della cristianità, lo sfaldarsi della morale comune che, in molti paesi europei, coincideva con la morale formale, con i costumi esteriori cristiani, condizionavano la vita dei cattolici, soprattutto giovani. Certo, c’erano stati anzitutto i santi, e spesso santi rivoluzionari o poveri alla Benedetto Giuseppe Labre (in totale direzione alternativa alla corte pontificia romana e alle corti di re cattolici o agli stili di vita di ricchi aristocratici e borghesi proprietari agrari “cattolici”).
C’erano stati teologi e intellettuali (per tutti un nome, John Henry Newman). C’erano stati profeti sociali e avanguardie politiche, “les abbés democrates”, i laici cattolici pionieri democratici, i cattolici liberali e cristiano-sociali. E poi era arrivato l’insegnamento sociale della Chiesa dalla “Rerum Novarum” in poi e un intenso movimento di rinnovamento degli studi biblici, di intellettuali, di grandi convertiti, da Oxford ai francesi, da Chesterton a Jacques Maritain. E ancora: il grande rinnovamento teologico degli anni ’50, la “Nouvelle Théologie francese, la spiritualità dell’imitazione del Gesù povero di Charles de Foucauld e dei suoi eredi spirituali, i piccoli fratelli e le piccole sorelle. C’erano i preti alla don Mazzolari e don Milani, alla papa Giovanni, certo, e i parroci come quello dell’Albero degli zoccoli, il film di Olmi.
Ma la prima immagine della Chiesa che aveva un bambino degli anni ’50 ed un adolescente dei ’60, era quella del monsignore romano, vestito di rosso con scarpe con fibbia d’argento e gran cappello, che l’8 dicembre arrivava in piazza di Spagna per portare i fiori alla colonna dell’Immacolata scendendo da una lunga Mercedes nera, con l’autista in livrea che gli apriva lo sportello. E come dimenticare le strazianti messe cantate delle 11.00 e la messa dei signori, dei ricchi borghesi, delle contesse impellicciate e ingioiellate, delle 12? E per di più in quegli anni, vale la pena ricordarlo, la maggioranza degli italiani era proletaria, contadini ed operai, e gli analfabeti superavano il 50 per cento. Per tutti loro, come per la massa dei diseredati analfabeti del Congo o del Salvador, delle Filippine e del Nord Est del Brasile, la messa era in latino. La Bibbia era quasi proibita, comunque ritenuta in grave sospetto, un libro “sconsigliato” come i film di Alberto Sordi, anche se poi al catechismo ti facevano studiare personaggi ed episodi dell’Antico Testamento e del Nuovo. Nella mia parrocchia, nel giorno del tesseramento dell’Azione Cattolica, i bambini iscritti stavano in prima fila e facevano per primi la comunione ricevendo un’immaginetta regalo. E a me tutto questo faceva una grande rabbia e, più ancora – papà che mi proibiva di iscrivermi e protestava con il parroco dicendo che nella Chiesa non ci sono figli di serie A e di serie B, e che, anzi, Gesù aveva proprio predicato la cacciata dei figli dell’oca bianca in ultima fila e aveva chiamato in prima fila poveri, barboni, prostitute e i famosi pubblicani che io, poi, non capivo bene che cosa fossero. Pensavo che fossero come quelli che venivano a leggere le bollette del gas.
E tutti i libri di teologia e spiritualità che leggeva papà, e che ordinava nella libreria francese di Roma, erano “proibiti”, non tradotti in italiano. Ed io, che ero l’unico a subire un po’ di fascino governativo ed ortodosso perché ero l’unico della famiglia ad ascoltare la radio, e dunque l’unico ad assorbire anche l’informazione ufficiale, ero preoccupato da questa attività semiclandestina di letture eretiche di papà e di incontri segreti dopo cena nella nostra camera da pranzo. In realtà poi, gran parte degli autori dei libri proibiti degli scaffali della libreria di papà sarebbero diventati cardinali: Journet, Danielou, De Lubac, von Balthasar, Congar. E un altro mito di papà, Giorgio La Pira, era il bersaglio preferito dei giornali più venduti a Roma e di un giornale cattolico che arrivò a definire Aldo Moro un “Rospo” schifoso e ributtante, in un editoriale del 1962 quando si stava preparando il primo governo di centro sinistra.
Si pregava per la conversione dei “perfidi ebrei” (anche se proprio Giovanni XXIII avrebbe ottenuto la rinuncia a quella orribile preghiera della liturgia del Venerdì Santo) ed era proibito anche solo entrare nelle Chiese protestanti. Ed io, che avevo un papà innamorato degli ebrei e persino degli zingari per via del campo di concentramento nazista e che era pacifista e favorevole all’obiezione di coscienza, ero sempre tentato di andare a vedere che cosa c’era dentro la Chiesa valdese di piazza Cavour. Sentivo il fascino di quella chiesa cristiana eppure proibita, e insieme l’orgoglio ma anche il timore, di un padre che frequentava ebrei, protestanti e zingari…E poi l’”Osservatore Romano” che arrivò a censurare il Papa, l’omelia di Giovanni XXIII in una parrocchia romana…

Ora, lo si voglia o no, il Concilio fu veramente una rivoluzione copernicana, come disse il teologo – un altro super proibito amatissimo da papà – Marie-Dominique Chenu. Fu per noi, per me, come se la Chiesa, dei monsignori di curia, la Chiesa delle Mercedes, la Chiesa delle zitelle bigotte e delle signore impellicciate che pensavano di risolvere il problema dei poveri e della giustizia sociale con qualche elemosina e consideravano La Pira un pericoloso comunista, questa Chiesa spalancasse le finestre per far uscire l’aria viziata e le porte per far entrare tutti “i sospetti”.. Pulizie pasquali e rinnovamento delle tinture delle pareti, dei mobili, della cucina della Casa di sempre. Per molti di noi allora giovani, ma anche per molti adulti, per gli intellettuali cristiani, ma anche per persone molto semplici, queste pulizie, questo ammodernamento delle mobilia, cioè essenzialmente la riconciliazione con il mondo moderno, con l’umanità contemporanea e le sue culture, non più considerate perdute e nemiche, sono state una tappa fondamentale. Per noi, che vivemmo in particolare a Roma quella stupenda, esuberante atmosfera, questa invasione di vescovi e teologi da tutto il mondo – la scoperta di tanti vescovi e cardinali poveri che affittavano piccole cinquecento Fiat per arrivare in 4 ai lavori in Vaticano – e tutta la serie di incontri, conferenze, opportunità, scoperte, fu davvero una primavera. Non tutti avevano, i miei amici, alle spalle una famiglia vaccinata: a casa mia entravano solo riviste cattoliche francesi, papà seguiva il Concilio su Le Monde, io che all’inizio ero più moderato su La Croix, solo più tardi ci abbonammo all’Avvenire d’Italia di Raniero La Valle. Ricordo con precisione un episodio, come fosse ieri, quando andammo ad ascoltare il cardinal Suenens, arcivescovo di Bruxelles. Un mio amico disse al padre che andava al cinema. Perché se il padre fosse venuto a sapere che era andato a sentire il cardinale progressista, lo avrebbe chiuso in casa. In genere un ragazzo – e né il padre né tanto meno lui, il mio amico, erano bigotti – magari a quindici anni diceva che andava a sentire un cardinale e poi andava al cinema o diceva che andava in parrocchia e poi usciva con gli amici e le mitiche, allora per noi catto-imbranati, ragazze. Mai il contrario eppure, questo lo ricordo per raccontare il clima di allora, dire una bugia per andare a sentire un cardinale! Ma senza volerlo il buon cardinal Suenens ci ripagò quando, nella sala affollatissima, cominciò a parlare degli schemi preparatori, da cui sarebbero scaturite le costituzioni conciliari. Parlava un perfetto italiano ma con marcata inflessione francese. Così cominciò a parlare di “Scemi del Concilio”, pronunciando la parola schemi appunto alla francese. Resisti la prima volta, resisti la seconda, alla terza non ce la facemmo più ed esplodemmo in una fragorosa, e contagiosa, sonora risata. E dovemmo dare, naturalmente una divertente spiegazione al cardinale…
Per noi fu quella la scoperta di una teologia più vicina alle nostre esigenze, alle nostre sensibilità, alla nostra cultura studentesca per quanto appena ginnasiale e liceale, al nostro bisogno di coniugare fede e cultura, fede e intelligenza e poi, progressivamente fede e storia, fede e politica, ma oltre i tradizionali labirinti della scolastica e del collateralismo obbligatorio con il partito ufficiale d’ispirazione cristiana. Scoprivamo la Chiesa dei poveri, o almeno che la povertà non era soltanto un voto per religiosi o una specializzazione dei francescani, ma uno stile di vita per tutti i cristiani, laici, padri di famiglia, intellettuali o professionisti che fossero. Scoprivamo il terzo e quarto mondo, il drammatico fossato che divideva ricchi e poveri del pianeta, ed una spiritualità dell’essenziale (Charles de Foucauld) ed inesplorata foresta di cultura teologica e politica e di impegno.

Poi ci fu la grande speranza e la grande euforia per la riforma liturgica e le belle avventure nelle nostre messe dei giovani con omelia dialogata, chitarre anche elettriche, e nuove canzoni – alcune delle quali oggi, quarant’anni dopo resistono ancora sulla breccia ma sono ormai lagne quasi insopportabili – e soprattutto, la Bibbia. Destrutturammo, Costituzioni conciliari alla mano, le associazioni di base, fondammo gruppi biblici a ripetizione molto vissuti, alternando cineforum parrocchiali e doposcuola nelle borgate, scoutismo e sogni di un mondo diverso. Ma non fu tanto questo, che ci fece restare nella Chiesa, quanto la liberazione dai silenzi, dagli incensi, dai passi felpati, dagli eccessi di prudenza, dagli obblighi di riverenza, dalle paure, dalle proibizioni.
Emmanuel Mounier ha parole terribili in molti suoi articoli e nel suo libro straordinario L’Avventura cristiana (L’Affrontement chréthien) contro la falsa “prudenza”, contro le virtù deformate, il capovolgimento della gerarchia delle regole dell’«intimidazione morale, del moralismo che mette “la protezione prima dell’amore, una caricatura della Prudenza prima delle virtù teologali. Ama et fac quod vis, non vuol dire riscaldati e fai il pazzo, ma vuol dire che l’assoluta subordinazione di ogni virtù, anche la sacrosanta prudenza, alla Carità, libera uno schiavo e dilata la vita».
Ma soprattutto fu per noi fondamentale la scoperta di una fede adulta possibile, senza rottura con le nostre conquiste culturali, con le esigenze della nostra intelligenza, senza dover rinunciare ad essere contemporanei; e la riappropriazione della Bibbia, della Parola di Dio. Insomma la scoperta delle fonti ed il respiro forte dei maestri, da Emmanuel Mounier a Thomas Merton da De Lubac, Congar, Chenu, a Rahner, da Helder Camara a La Pira. E poi l’incontro con punti di riferimento ecclesiali come il cardinal Pellegrino…
 […]
Al di là di tutti i meriti della “rivoluzione copernicana” conciliare, la riappropriazione delle Bibbia, la centralità della Parola di Dio, la definizione teologica del popolo di Dio (i laici finalmente tornati come nelle prime comunità cristiane alla stessa dignità sacerdotale pur nella diversità di carisma con i ministri), la riforma liturgica, l’apertura ecumenica alla libertà religiosa, al dialogo con le chiese cristiane sorelle, con l’ebraismo, con le religioni non cristiane, l’apertura del dialogo con il mondo contemporaneo, il ruolo dei laici nell’autonomia della sfera politica e sociale, quel che ha veramente inciso nella nostra vita di laici e nella vita della Chiesa è lo spirito che ha animato il dibattito e la ricerca teologica, il rinnovamento della catechesi, la maturazione della lettura dei segni dei tempi come categoria, come criterio che progressivamente sostituisce la categoria dell’ordine cristiano o della cristianità da ricostruire, il radicale mutamento delle missioni, la ritrovata centralità delle Chiese locali e l’avvio della collegialità. Per noi laici la dignità di popolo di Dio ha significato il tramonto della condizione di “fedeli”, dunque di soggetti e protagonisti, come dire, inferiori, nella Chiesa”.

di Paolo Giuntella

(fonte: http://www.donmirkobellora.it/libri/luna/luna.html)

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