La parola e il silenzio: 50 anni della Commissione Teologica Internazionale


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La parola e il silenzio: 50 anni della Commissione Teologica Internazionale

 

Il teologo deve offrire chiarimenti e salvare i fenomeni” (E. Juengel)

 

Per la occasione dell’anniversario dei 50 anni della Commissione Teologica Internazionale, due testi, di papa Francesco, e di Joseph Ratzinger, Vescovo emerito di Roma, nel commemorare l’evento, hanno toccato alcuni punti sensibili della visione cattolica circa la relazione tra teologia e magistero. Credo sia utile passare in rassegna alcune affermazioni importanti dei due brevi documenti.

La teologia del magistero e il magistero della teologia

Come aveva scritto la stessa Commissione Teologica, in un documento del 2012 (Commissione Teologica Internazionale, Teologia oggi: prospettive, principi e criteri, “Il Regno”, 57(2012), 269-289 ), tra magistero e teologia vi è una relazione strutturale. Anzi la stessa teologia esercita un “magistero della cattedra magistrale”, che collabora strutturalmente con il “magistero della cattedra pastorale”. C’è dunque una missione “generatrice” dei teologi, che non deve essere mai sottovalutata:

Avete, nei confronti del Vangelo, una missione generatrice: siete chiamati a far venire alla luce il Vangelo. Infatti vi ponete in ascolto di ciò che lo Spirito dice oggi alle Chiese nelle diverse culture per portare alla luce aspetti sempre nuovi dell’inesauribile mistero di Cristo, in cui «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2,3).  E poi aiutate i primi passi del Vangelo: ne preparate le vie, traducendo la fede per l’uomo d’oggi, in modo che ciascuno possa sentirla più vicina e sentirsi abbracciato dalla Chiesa, preso per mano lì dove si trova, e accompagnato a gustare la dolcezza del kerigma e la sua intramontabile novità. A questo è chiamata la teologia: non è disquisizione cattedratica sulla vita, ma incarnazione della fede nella vita” (Francesco, Discorso alla CTI).

Questo compito di “traduzione della fede” è costitutivo della missione della Chiesa e chiede competenza, studio audacia e insieme pazienza. Le virtù del teologo mettono alla prova il suo lavoro e lo rendono talora anche assai difficile. Ma resta un passaggio di cui la Chiesa, e il magistero pastorale, non può fare a meno. Con queste parole Francesco sottolinea il valore esemplare del lavoro teologico, che sia svolto alla luce di due principi:

La Commissione adempirà la propria vocazione di essere anche modello e stimolo per quanti – laici e clero, uomini e donne – desiderano dedicarsi alla teologia. Perché solo una teologia bella, che abbia il respiro del Vangelo e non si accontenti di essere soltanto funzionale, attira. E per fare una buona teologia non bisogna mai dimenticare due dimensioni per essa costitutive. La prima è la vita spirituale: solo nella preghiera umile e costante, nell’apertura allo Spirito si può intendere e tradurre il Verbo e fare la volontà del Padre. La teologia nasce e cresce in ginocchio! La seconda dimensione è la vita ecclesiale: sentire nella Chiesa e con la Chiesa, secondo la formula di sant’Alberto Magno: «In dulcedine societatis, quaerere veritatem» (nella dolcezza della fraternità, cercare la verità). Non si fa teologia da individui, ma nella comunità, al servizio di tutti, per diffondere il gusto buono del Vangelo ai fratelli e alle sorelle del proprio tempo, sempre con dolcezza e rispetto”.(Francesco, Discorso alla CTI)

La comprensione dello “scandalo”: la parola e il silenzio

Se possibile, Francesco ha ancor più accentuato questa vocazione, chiedendo di “rischiare nella discussione”. Ha però delimitato questo “rischio” alle “questioni tra i teologi”, sottolineando che al popolo va riservato il “pasto solido della fede”. Ecco il testo del papa:

E vorrei ribadire alla fine una cosa che vi ho detto: il teologo deve andare avanti, deve studiare su ciò che va oltre; deve anche affrontare le cose che non sono chiare e rischiare nella discussione. Questo però fra i teologi. Ma al popolo di Dio bisogna dare il “pasto” solido della fede, non alimentare il popolo di Dio con questioni disputate. La dimensione di relativismo, diciamo così, che sempre ci sarà nella discussione, rimanga tra i teologi – è la vostra vocazione -, ma mai portare questo al popolo, perché allora il popolo perde l’orientamento e perde la fede. Al popolo, sempre il pasto solido che alimenta la fede” (Francesco, Discorso alla CTI)

La degenerazione conflittuale del dibattito teologico, in effetti, costituisce un pericolo sempre aperto e assai rischioso. D’altra parte, bisogna anche riconoscere, che non sempre il caso si presenta secondo la descrizione offerta dal discorso papale. Talora, infatti, è il popolo ad avere le questioni, e la teologia tarda, indugia, esita a recepirle. Per questo non è azzardato ampliare questa visione con una ulteriore avvertenza. E lo direi così:

a) Vi è il caso in cui le problematiche teologiche, che si sviluppano “tra esperti”, debbono conservare quella riservatezza che può essere sciolta solo quando la soluzione è guadagnata ed assunta, consigliando il “silenzio pubblico” come strategia professionale ed ecclesiale da preferire;

b) Vi è il caso in cui le questioni più urgenti vengono già dal popolo, si impongono in modo diretto alla attenzione comune, preoccupano i cuori e le vite,e la teologia, proprio perché tace, determina lo scandalo e il disorientamento comunitario.

Direi, pertanto, che c’è uno scandalo della parola, ma vi è anche uno scandalo del silenzio: non è deciso, una volta per tutte, neppure per il teologo, se sia più prudente tacere o parlare. In alcuni casi una parola troppo audace può essere davvero motivo di scandalo e di disorientamento. Ma in altri casi è proprio un silenzio che non si rompe a creare scandalo, disagio, disorientamento. E’ vero, infatti, che in certi casi sono i teologi a “portare le questioni” al popolo. Ma in altri casi è il popolo a portare le questioni ai teologi, i quali sono tenuti a parlare, e non possono tacere.

Per dirlo con una bella formula, coniata dal teologo E. Juengel, “il teologo deve offrire chiarimenti e salvare i fenomeni”. Ci sono casi in cui il fenomeno può essere salvato solo nella misura in cui lo si sa chiarire in modo nuovo. Proprio il “lavoro teologico” che papa Francesco continuamente svolge su diversi “fronti caldi” – il matrimonio, l’ecumenismo, le istituzioni di governo, il dialogo interreligioso – dimostra come le questioni, più che poste dai teologi, sono poste dai fenomeni, e si impongono “comunitariamente”: guai a tacerne!

Una “nota” sul diaconato femminile: la storia e la dottrina

Con singolare “tempismo”, per la medesima occasione, anche J. Ratzinger, con la sua esperienza ecclesiale e magisteriale, ha scritto un “Indirizzo di saluto” alla CTI, nel quale, oltre a molte annotazioni autobiografiche, ha allegato, nella prima nota del breve testo, una considerazione che deve essere ritenuta preziosa proprio in ordine alle questioni del rapporto tra teologia e magistero. Eccone il testo, che si riferisce ad un documento prodotto dalla CTI a proposito del “conferimento alle donne del diaconato femminile”:

Un’eccezione è costituita in certo qual modo dal documento sul diaconato pubblicato nel 2003, elaborato su incarico della Congregazione per la Dottrina della Fede e che doveva fornire un orientamento riguardo alla questione del Diaconato, in particolare riguardo alla questione se questo ministero sacramentale potesse essere conferito anche alle donne. Il documento, elaborato con grande cura, non giunse a un risultato univoco riguardo a un eventuale Diaconato alle donne. Si decise di sottoporre la questione ai Patriarchi delle Chiese orientali, dei quali tuttavia solo molto pochi risposero. Si vide che la questione posta, in quanto tale, era di difficile comprensione per la tradizione della Chiesa orientale. Così quest’ampio studio si concludeva con l’asserzione che la prospettiva puramente storica non consentiva di giungere ad alcuna certezza definitiva. In ultima analisi, la questione doveva essere decisa sul piano dottrinale” (Joseph Ratzinger, Vescovo emerito di Roma, Indirizzo di saluto, nota 1).

Le brevi annotazioni qui riportate segnalano, con molta chiarezza, un compito teologico inaggirabile: sul diaconato femminile la storia non è in grado di condurre ad un “risultato univoco”. Riconoscere che la questione si pone, essenzialmente, sul piano sistematico e dottrinale significa che in essa la Chiesa può e deve far uso della propria autorità, con la prudenza della audacia. Non può spostare sul passato la responsabilità che la riguarda nel suo presente e nel suo futuro. Anche su questo fronte la collaborazione tra magistero magistrale e magistero pastorale non solo è possibile, ma è necessaria. Perché il riconoscimento magistrale della autorità permetta alla autorità pastorale di assumere decisioni nuove. In questo caso, se lo si guarda dalla parte giusta, l’ostinarsi nel silenzio apparirebbe molto più imprudente e scandaloso di una lungimirante presa di parola.

 

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