La Pasqua di Recalcati e la tradizione ebraico-cristiana: una questione seria


crocecavalca

L’articolo di M. Recalcati sulla Pasqua e la reazione di M. Morselli e M. Giuliani meritano una ripresa pacata e ampia. Qui vorrei solo impostare molto brevemente una questione che meriterebbe una ampia discussione, che non riguarda solo la comprensione della Pasqua, ma l’idea stessa di teologia, di rivelazione e di vita ecclesiale. Su tutto ciò è necessario un dialogo aperto e sincero, che può essere arricchito dagli approcci diversi che singole discipline e singoli autori possono offrire. Credo che su questi due testi sia possibile scrivere cose utili e costruttive. Imparare ad ascoltare a fondo il linguaggio dell’altro penso che sia parte decisiva della stessa “consegna pasquale”. Ed è un desiderio che chiede molto senso del dovere, ed è insieme un dovere cui il desiderio fatica a stare al passo.  

Negli ultimi giorni abbiamo salutato H. Kueng, grande teologo cattolico, e commemoriamo oggi, 9 aprile, l’anniversario della morte di D. Bonheoffer, grande teologo luterano. Sia il primo come il secondo si sono mossi nella tradizione cristiana con una profonda domanda di “traduzione”, di aggiornamento, di ripensamento. Si sono chiesti: in che modo possiamo “dare parola” alla Parola? In questo compito, che è del tutto qualificante per il lavoro del teologo, si sono confrontati a fondo con le due grandi “scuole” che il cristianesimo ha elaborato nel contesto moderno: da un lato la grande tradizione della “teologia liberale” e dall’altro la “teologia della rivelazione”.

Non è un caso che sia in Kueng sia in Bonhoeffer vi sia un “convitato di pietra”: ossia K. Barth. Kueng si è fatto le ossa nel confronto con Barth, mentre Bonhoeffer ha avuto Barth come interlocutore costante, ora in alleanza ora in conflitto. La istanza “rivelata” che Barth ha fatto valere su tutto il XX secolo – quasi da “convertito”, dopo essere stato lui stesso profondamente liberale – ha prodotto non solo una “critica del liberalismo”, ma anche, soprattutto oltre oceano, un “post-liberalismo”.

E la domanda tremenda, che Bonhoeffer formula all’inizio del 1943, su “chi resta saldo?” – l’uomo della ragione? L’uomo del sentimento? L’uomo della volontà? – ci aiuta a comprendere che cosa è in gioco:

Chi resta saldo? Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto questo quando sia chiamato all’azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel vincolo esclusivo a Dio: l’uomo responsabile, la cui vita non vuole essere altro che una risposta alla domanda e alla chiamata di Dio. Dove sono questi uomini responsabili?”

Questo testo di Bonhoeffer mostra assai bene anche i limiti della stessa recezione che di Bonhoeffer abbiamo offerto: questo può essere davvero un pensatore “della secolarizzazione”? Lo stesso Kueng, che studia la giustificazione, che riflette sulla “infallibilità”, su Dio e sulla Chiesa, che punta ad una “etica mondiale”, si lascia comprendere semplicemente con un approccio semplicemente “liberale”? Questo è l’orizzonte nel quale vorrei collocare la questione sollevata da Marco Morselli e da Massimo Giuliani, nello scritto “La Pasqua di Recalcati”, con cui hanno duramente criticato l’articolo di Recalcati pubblicato su Repubblica il 3 aprile col titolo “Pasqua, la vita oltre la Legge”. Mi propongo di esaminare alcuni aspetti del discorso di Recalcati, tentando di comprenderlo all’interno della storia di una ermeneutica liberale della tradizione cristiana, alla quale indirettamente mi sembra appartenere. Ovviamente bisogna considerare che Recalcati non è un teologo e propone del tutto legittimamente una interpretazione che assume solo alcuni aspetti della tradizione pasquale: ad esempio concentra la Pasqua solo sulla resurrezione, lasciandone fuori passione e morte. Ma è proprio questo gesto ermeneutico sintetico e inevitabilmente riduttivo a suscitare interesse e questioni.

La vita e la Legge: immanenza e trascendenza

I passaggi del testo di Recalcati sono chiari: la Pasqua di risurrezione è un evento non chiuso nel passato, ma che dipende da chi vi aderisce nella fede. Di qui quella che Recalcati chiama la “tesi” di Gesù:

la vita è più viva della morte, è ciò che dà morte alla morte, è ciò che consente di uscire dalle tenebre del sepolcro e di ricominciare”

Avendo assunto che la predicazione di Gesù si concentra in questa tesi, Recalcati ne deduce due conseguenze assai importanti: da un lato la qualità “extramorale” dell’annuncio, e dall’altro il sovvertimento del rapporto con la Legge. Ecco le sue parole:

È la linea extramorale che attraversa la parola di Gesù. Mentre il giudizio morale definisce la vita giusta come quella che si è adeguata alla volontà della Legge, e la vita che cade nel peccato come quella che vive contro la Legge. Ebbene Gesù ha sovvertito questo metro di giudizio con decisione: la vita giusta è la vita viva, è la vita che desidera la vita e che sa generare frutti. Di qui il ripensamento radicale della nozione deuteronomica della Legge.”

Questa argomentazione sintetica apre sulla seconda parte del testo, in cui Recalcati definisce questo “rivolgimento” come la identificazione della Legge della Buona Novella con il desiderio. Di qui una serie di conseguenze inevitabili: la negazione del sacrificio in quanto negazione del desiderio, perchéil dovere del desiderio non sopporta alcuna negazione. L’unico dovere è il desiderio e ogni dovere sembra masochismo. La “dissociazione” tra Legge e Grazia sarebbe il cuore della risurrezione. E anche nel giudizio finale si salva “la vita che ha saputo essere viva”, che viene identificata nei “più fragili”, ossia coloro che sanno mantenere una amicizia e non un rifiuto per la mancanza.

La riduzione della Pasqua

Come ha detto bene Aristotele, per comprendere bisogna ridurre. Ogni atto di intelligenza è una “riconduzione” ad unum. Recalcati non è il primo a utilizzare con grande forza il concetto di “vita” per comprendere il Vangelo. Che la “vita in pienezza”, che “avere la vita” sia “vita viva”, “vita di desiderio”, però, è troppo poco. Se ogni “legge” è scavalcata dalla vita del desiderio, il rischio è che manchi ogni alterità, ogni corrispondenza, ogni confronto. Come aveva provato a fare magistralmente Michel Henry, nelle sue grandi opere dedicate al Vangelo di Giovanni, l’esito di una fenomenologia della vita rischia di restare del tutto privo di fenomeni. Anche Gesù, in questa risurrezione, resta solo. Non ha bisogno né di un Padre di cui fare la volontà, né di uno Spirito rispetto al quale può congedarsi, donandolo e affidando ad esso la custodia del dono. Questo Gesù sembra senza Padre, senza Spirito e senza Chiesa. Un punto mi pare molto serio: la insistenza sulla “qualità extramorale” dell’evento pasquale, dalla quale però non si dovrebbe approdare ad una sorta di volatilizzazione dell’altro. L’altro è sempre decisivo e non è solo “alienazione”. C’è un altro “più esterno al mio estremo” e c’è un altro “più interno del mio intimo”. Qui forse anche Recalcati vuole portarci. Ad onorare quella alterità che non sta semplicemente in una esteriorità istituzionale e legale, ma anche in una interiorità correlata e non dominabile. Anche nel desiderio parla un altro da sé. Questo sarebbe prezioso se non diventasse evanescente, correndo il rischio di una sorta di “autoreferenzialità del desiderio”.

La alterità da considerare e da onorare

Questa breve rilettura può aiutare a chiarire alcune cose. Da un lato vi è il problema di una “lettura laica” della Pasqua come lettura riduttiva dei “dati”. L’evento pasquale non è semplicemente “vita che vince la morte”, ma anche messa in gioco della vita, fino alla sua perdita. Ha col desiderio un rapporto non lineare. Al dovere del desiderio non può essere estraneo il desiderio del dovere, come compimento di sé solo in, per e con un altro. Questo superamento del sacrificio, della Legge e della morale, non è una abolizione, ma una rilettura e un compimento. La legge e la morale sono strutture insuperabili del desiderio. Altrimenti la negazione del sacrificio diventa facilmente, anche se impercettibilmente, negazione dell’altro. Ed è questa “non rilevanza dell’altro”, questa possibile “contumacia dell’altro” che ha mosso la reazione netta del testo di Morselli-Giuliani. Perché, al di là del tono reciso e anche duro, ho sentito, nelle loro parole, la stessa forza e lo stesso scandalo con cui Barth, magari anche ingiustamente, mostrava come in Bultmann, ma anche in Schleiermacher, vi fosse non solo la “conciliazione” e la “mediazione” tra Vangelo e mondo, ma anche la riduzione del Vangelo al mondo. La fede, alla cui luce la risurrezione appare come evento, è evento extramorale. Guai a dimenticarlo! E Recalcati giustamente lo ricorda. Ma proprio per questo ha bisogno del sabato e del sacrificio, ossia di una tempo compiuto e di un altro irriducibile. Non per istituzionalizzarsi, ma per non svuotarsi. Qui, a me pare, la polarità tra grazia e legge non si supera, ma si approfondisce. Negare il desiderio è disumano e ridurlo alla Legge è illusorio. Ma altrettanto disumano è negare la Legge, riducendola a desiderio. Sono convinto che su questo una tradizione fenomenologica e psicoanalitica e una tradizione ebraico-cristiana possano essere molto più vicine di quanto non sia apparso da questo dibattito acceso. Non acceleriamo i tempi, né dei nostri dialoghi, né delle nostre professioni di fede. Il risorto è la fine dei tempi: ma nella distensione temporale l’altro ha una consistenza irriducibile. Rimane intimior intimo meo e exterior extremo meo.

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