La penitenza da riscoprire: in dialogo con L. Orsy
Con un testo efficace pubblicato sull’ultimo numero del Regno (qui), L. Orsy presenta in modo sintetico una delle questioni aperte dopo il Concilio Vaticano II: il ripensamento della “disciplina penitenziale”. E l’autore, dall’alto di una lunga esperienza, può agevolmente indicare non solo lo sviluppo storico del “sacramento della misericordia”, ma anche le attese successive al Concilio Vaticano II (in larga parte disattese) e le possibilità aperte nel futuro anche prossimo.
Mi sembra da apprezzare la chiarezza e la parrhesia con cui l’autore espone molto apertamente i modelli storici del sacramento e la esigenza di riforma che il Concilio ha fatto emergere con chiarezza. Scrive infatti all’inizio del suo testo: “il Concilio ha giudicato che l’attuale rito e le formule esteriori siano espressioni inadeguate del dono interiore della grazia e perciò il Concilio ha chiesto che la Chiesa cerchi una configurazione migliore per l’amministrazione del sacramento”.
Una configurazione migliore del sacramento, tuttavia, non è semplicemente una operazione disciplinare. E nemmeno soltanto una questione liturgica. Ma è una questione dottrinale. L’anelito “pastorale” del Concilio ci chiede un rinnovamento nel modo con cui pensiamo sistematicamente il sacramento della confessione. Per questo il modo di amministrarlo, che ha bisogno di un grande ripensamento, non può non corrispondere ad una più adeguata “dottrina” del sacramento stesso. Su questo punto, la seconda parte del testo di Orsy è piuttosto una narrazione che una teorizzazione. E come narrazione rivela cose di grande importanza, ma nasconde anche questioni altrettanto urgenti.
Infatti la “soluzione” prospettata sembra una sorta di “mediazione” tra il secondo e il terzo capitolo dell’attuale rituale. Si tratterebbe, in sostanza, di una celebrazione della confessione comunitaria, ma con assoluzione individuale, sebbene con confessione non specifica e analitica e quindi pubblica e non segreta.
Questa proposta, che intercetta sicuramente una serie di istanze presenti nel contesto ecclesiale e sociale di oggi, mi sembra però che non risponda alla questione centrale, ossia al significato teologico del sacramento per la guarigione del battezzato. Qui mi pare che la proposta resti largamente al di qua di ciò che appare non solo necessario, ma direi sufficiente. Provo a spiegare meglio questa mia perplessità e lo faccio schematicamente, secondo una serie di proposizioni:
a) I “sacramenti della misericordia” sono anzitutto battesimo, cresima e eucaristia. Il sacramento della confessione è sacramento per “recuperare una esperienza della misericordia” che debbo già aver conosciuto, in una forma molto più grande, nella celebrazione eucaristica domenicale.
b) Pertanto la funzione del “sacramento della confessione” è di ricondurre il soggetto battezzato, entrato in crisi grave, a ritrovare la esperienza della misericordia di Dio. In esso, perciò, è rinnovato il dono del perdono (che non è tipico di questo sacramento), ma con la specificità di un “lavoro del soggetto”, che risponde al perdono rinnovato di Dio con la sua parola, con suo cuore e con suo corpo.
c) Se lo leggiamo in questo modo, il sacramento ha il suo profilo più tipico nel “prendersi cura” della risposta del peccatore pentito alla grazia che Dio rinnova su di lui. Per questo non esiste nessuna “assoluzione generale”, ma nemmeno una “confessione generale”, un “pentimento generale” o una “penitenza generale”, se non in casi limite.
d) Ciò non significa che non si debba recuperare la dimensione comunitaria del fare penitenza. Ma il sacramento resta sulla soglia della propria necessità se non si occupa di accompagnare i soggetti non semplicemente ad una esperienza di perdono, ma al concreto itinerario verbale, coscienziale e operativo con cui essi rispondono alla grazia del perdono.
Per questo il recupero del “fare penitenza” mi sembra una dimensione intrinseca al sacramento, che non si lascia ridurre ad una celebrazione “mensile”, la cui funzione di “celebrazione penitenziale” è fuori discussioni, ma che in quanto tale assomiglia piuttosto ad una preparazione e a una pedagogia del sacramento che non alla sua temporale e spaziale celebrazione nella crisi dei soggetti cristiani. Questo è il centro di una esigenza che è pastorale e insieme è squisitamente teologica. Su questo abbiamo cercato di riflettere, insieme a Daniela Conti, nel volume Fare penitenza. Ragione sistematica e pratica pastorale del quarto sacramento, Assisi, Cittadella, 2019, che ha anche ispirato il senso di questa mia considerazione.
Non è per niente facile il discorso sul sacramento della confessione e relativa penitenza.
Richiama in prima battuta la consapevolezza del “peccato” di cui confessarsi.
A me pare che manchi, appunto, la coscienza di essere in stato di peccato. Ma se manca questa coscienza, si può dire che il peccato c’è? Per esemplificare: se un bambino “ruba” ad un altro bimbo un giocattolo che gli piace, ma non è consapevole di aver commesso un’azione sbagliata, si può parlare di “peccato”? Questo discorso potrebbe essere esteso alle azioni degli adulti; molti dei quali, infatti, agli occhi altrui appaiono colpevoli o peccatori, ma alla propria coscienza no, e per svariati motivi. E perciò non vanno a confessarsi. Se il mondo va male per tanti versi, è proprio per questo motivo, io credo.
Se poi pensiamo alla citatissima parabola del figliol prodigo, dove si vede il padre che corre incontro ad un figlio che, dopo essersi allontanato da lui e aver vissuto in modo dissoluto, ritorna ( forse neanche pentito) a casa e il padre gli prepara una bella festa senza volere spiegazioni, qualche domanda sul sacramento della penitenza è lecito farsela.
Che cos’è il peccato? Fondamentalmente è mancanza di amore, ma a questo punto ci si dovrebbe chiedere a quale causa attribuire tale mancanza d’amore che induce a peccare. Potrebbe essere, in certi casi, un fattore caratteriale, magari ereditario, fortemente condizionante.
Solo dopo tutto questo viene, secondo me, il discorso sulla forma penitenziale.
Conosco un prete che parla di “invenzione del peccato”, perché attribuisce i cosiddetti peccati ai difetti naturali della creaturalità dell’essere umano; stante che l’Umanità è (sarebbe) in lenta, progressiva, crescita verso la perfezione costitutiva del Regno di Dio nell’Amore.