La rivoluzione apparente del Prefetto Fernandez: la giurisdizione è davvero diversa dall’ordine?


Con singolare enfasi, il Card. Fernandez, al centro del proprio intervento di dialogo con padri e madri sinodali di giovedì scorso, 24 ottobre, ha fatto riferimento ad una “teoria”, attribuita al noto giurista Ghirlanda, che “pur non essendo donna”, darebbe nuovo spazio alla prospettiva di pensare la partecipazione della donna al governo della Chiesa.

La teoria di P. Ghirlanda si basa sulla possibilità, anche dopo il Concilio Vaticano II, di pensare una differenza tra potestà di ordine e potestà di giurisdizione: in altri termini, nella possibilità che il governo della Chiesa e la autorità nell’insegnamento possano essere separate dalla potestà di santificazione. Qui, è evidente, il modello della “origine non sacramentale del potere di governo”, anzitutto nel Papa, e poi nei singoli Vescovi, sembra l’orizzonte primo di riferimento, per Ghirlanda e per una lunga tradizione medievale e moderna.

Va detto, però, che il Concilio Vaticano II, pur senza superare del tutto questa distinzione, ha introdotto una “unità del ministero ordinato”, ristrutturando tutto il sistema, e concentrando il “sacramento dell’ordine” nei tre gradi di diaconato, presbiterato ed episcopato.

Ancora più importante è cogliere la logica diversa con cui il ministero ordinato viene pensato. Mentre prima la ordinazione si riveriva ad un “cursus honorum” di 7 gradi, che aveva al suo culmine il “presbiterato-sacerdozio”, il potere di giurisdizione faceva capo al Vescovo, che non apparteneva all’ordine sacro, ma ne restava al di fuori. Mentre il presbiterato era “sacramento dell’ordine”, l’episcopato era un semplice “sacramentale”.

Per questo, lungo la storia, una grande attenzione si era posta sugli “impedimenti” alla ordinazione, non sulla consacrazione episcopale. Un esempio interessante può essere quello della “minore età”, che era impedimento a ricevere il sacramento dell’ordine nel suo grado massimo, ma non impediva di essere consacrati vescovi.

Partecipare al “governo della Chiesa” potrebbe significare, perciò, riesumare questa grande differenza, che un tempo è stata decisiva, e che oggi, però, sarebbe un incentivo a retrocedere significativamente rispetto alle nuove evidenze maturate con il Concilio Vaticano II. Proviamo ad intendere bene queste differenze

a) La logica che arriva fino al Vaticano II è, come detto, quella di distinguere tra potestà di ordine (ossia il potere di consacrare la eucaristia e di perdonare i peccati) e potestà di giurisdizione (ossia il potere di governo e il potere di magistero). Queste potestà erano “in capo” a soggetti diversi: il prete si occupava di messe e di confessioni, il Vescovo di atti di governo e di atti di predicazione.

b) Con il Vaticano II si inizia a pensare secondo “tria munera”, tre doni/compiti, che sono di Cristo e di tutta la Chiesa. Ogni battezzato partecipa del munus profetico, del munus regale e del munus sacerdotale. Questi riguardano anche tutti e tre i gradi sacramentali dell’ordine: tanto il diacono, quanto il presbitero, quanto il vescovo hanno competenza profetiche, regali e sacerdotali. Il presbitero ora si vede riconosciuto competenze in campo di governo e di predicazione, mentre il Vescovo sta anzitutto alla presidenza della celebrazione eucaristica. Di questa novità, nella impostazione di Ghirlanda, sembra non restare nulla.

Che cosa significa reintrodurre, in questo nuovo contesto, la differenza tra ordine e giurisdizione? La cosa può avere molti significati diversi: il primo è, sicuramente, un arretramento della coscienza comune. Torniamo a pensare con criteri formalistici, che isolano il “governo” dalla presidenza eucaristica. Questo, da un lato, può permettere di attribuire a laici (e laiche) alcune competenze. Ma opera, radicalmente, una nuova separazione tra presidenza eucaristica, presidenza di governo e presidenza di magistero. Questa Chiesa “scissa”, che abbiamo ricevuto dal Medioevo e dalla rilettura tridentina e moderna, potrebbe forse rispondere alla nuova domanda di partecipazione che le battezzate cristiane chiedono da decenni?

In realtà la confusione deriva probabilmente da un uso distorto delle categorie. Questo era evidente in alcune battute del Card. Fernandez, soprattutto quando insisteva sul fatto che “non sono molte le donne che vogliono il diaconato”. Mentre, diceva, sarebbe possibile attribuire loro una potestà, pensandola però sul piano della sola giurisdizione.

Proprio qui, io credo, ci sia la questione maggiore. Che cosa significa de-clericalizzare la Chiesa? Aumentare o diminuire la autonomia del giurisdizionale rispetto al sacramentale? Io non sono affatto certo che la “domanda di autorità” che le battezzate cristiane sollevano si possa gestire soltanto sul piano del “governo”. Anche il magistero della Parola e la Presidenza del culto fanno parte di una domanda legittima, alla quale non si può rispondere rispolverando le categorie medievali, che dividono il vescovo dal prete, attribuendo al primo la giurisdizione e al secondo il sacramento e mettendo le donne in linea con il vescovo, anziché col prete.

Se le donne vivono la vocazione battesimale, devono poter accedere a tutti i gradi di autorevolezza ecclesiale, sia sul piano della profezia, sia sul piano della regalità, sia sul piano della santificazione. Le donne come gli uomini. Una vocazione universale al ministero, con il dovuto discernimento, ma senza impedimenti di sesso, dovrebbe essere una acquisizione dovuta.

Infine, una curiosità. La lunga presenza dell’”impedimento sexus”, che ha giustificato in modo decisivo la “riserva maschile”, ha avuto come giustificazione la “mancanza di autorità delle donne in ambito pubblico”. Se oggi Fernandez dice che le donne sono autorevoli sul piano pubblico, dice una cosa decisiva per la evoluzione del sistema ecclesiale, che smentisce secoli di pregiudizio, al quale non si risponde, come lo stesso cardinale ha ammesso chiaramente, con “principi mariani o petrini”. Riconoscere la autorità delle battezzate cristiane significa maturare le condizioni di una Chiesa in cui tutti possono rispettare il fatto che la vocazione al ministero (istituito e ordinato) abbia assunto figura universale, senza riserve e senza impedimenti.

Il rischio è invece che, prefigurando una autonomia della giurisdizione dall’ordine – cosa che comunque implicherebbe una profonda riforma del Codice –  si confini la vocazione femminile in una condizione di minorità: con potere, ma senza sacramento. Questa sarebbe, a mio avviso, non una minore, ma una maggiore clericalizzazione. E la rivoluzione sarebbe solo apparente.

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