La sostanza e il metodo: la tradizione che cammina e il decalogo di Amoris Laetitia
In una dichiarazione appassionata e acuta, Cristina Simonelli interviene sulle valutazioni ecclesiali e teologiche del Congresso di Verona (qui), sostenendo che il giudizio espresso dal Card. Parolin, che aveva dichiarato di “approvarne la sostanza, non il metodo”, rimane troppo ambiguo e deve essere chiarito. Ciò che la Presidente del CTI mette in luce è che proprio la “sostanza” del Convegno deve essere discussa, e non salvata. Qui a mio parere si sovrappongono due questioni e due registri che devono essere accuratamente distinti:
a) Da un lato sicuramente il Card. Parolin ha voluto prendere le distanze da un modo di impostare la “questione famiglia”, che non condivide. D’altra parte ha cercato di salvare la “fede comune” sulla rilevanza del matrimonio e della famiglia. Per farlo ha usato un linguaggio “comune”, mettendo in tensione una “sostanza immutabile” di rapporto con la centralità famigliare, rispetto ai metodi che cercano di affermarla in modo più o meno corretto;
b) D’altra parte è proprio questa pretesa – di distinguere una sostanza dottrinale immune da ogni storia – che Cristina Simonelli richiama alla attenzione, come un possibile equivoco, che merita di essere chiarito in modo ampio, uscendo dal modello ottocentesco di lettura della famiglia, che è clericale proprio nella misura in cui genera un “abuso di sostanza”.
Credo che su questo piano sia utile fare riferimento a due testi, nei quali la frase del Card. Parolin può assumere il suo contesto più adeguato e non essere fraintesa. Si tratta in primo luogo del discorso di papa Giovanni XXIII che ha aperto il Concilio Vaticano II, al cui centro sta la definizione di “indole pastorale”, che si basa precisamente su una “ricalibratura del rapporto tra sostanza e metodo; dall’altro il testo di “Amoris Laetitia”, che ha un “decalogo sul metodo” in cui la Chiesa esce dal modello ottocentesco di affermazione e di difesa del matrimonio/famiglia. Analizziamoli entrambi, per capire meglio il senso e i limiti della affermazione del Card. Parolin.
a) La “indole pastorale” del Vaticano II
Spessissimo citata, e altrettanto frequentemente incompresa, la “indole pastorale” del Vaticano II si basa su una intuizione che Giovanni XXIII ha espresso originariamente, nel cuore del discorso di apertura, Gaudet Mater Ecclesia, l’11 ottobre 1962, con la nota espressione “altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei e altra la formulazione del suo rivestimento”. Questa frase, opportunamente segnalata come decisiva per la ermeneutica conciliare, fissa in modo singolarmente efficace i confini tra continuità e discontinuità, tra immutabilità e mutabilità, precisando le esigenze ecclesiali di “riforma”. Ciò che in essa deve essere compreso non è il “permanere” della sostanza al di là delle formulazioni storiche di essa, quanto piuttosto la esigenza di formulazioni adeguate per garantire l’accesso storico alla sostanza. La prospettiva della frase, inoltre, non utilizza la terminologia della “sostanza” in termini metafisici, bensì in termini storici ed organici. Sostanza non è “rappresentazione stabile”, ma anzitutto “nutrimento e alimento”. La frase chiarisce la necessità della “indole pastorale” proprio come “aggiornamento” e “riforma” della Chiesa, perché sia dato nuovamente un accesso adeguato a ciò che la tradizione ha di nutriente e di promuovente. Il riferimento a questo testo fondamentale consiglia, strategicamente, di evitare di considerare la teologia cristiana del matrimonio e della famiglia come un “deposito immutabile” rispetto a cui la storia resterebbe esterna. Per questo sembra azzardato che possa esservi un “consenso” sulla sostanza che eluda i nodi delle “formulazioni”. In altri termini, chi oggi propone una “teologia della famiglia” che si basa sulle evidente storiche e antropologiche di un secolo fa non è per nulla d’accordo “nella sostanza” con la Chiesa. Anche se è un potente, in cerca di consenso.
b) Il decalogo di “Amoris Laetitia”
– Il testo di AL 35-37
Tra i primi numeri di AL brillano quelli dedicati ad una “strutturale autocritica” della tradizione ecclesiale su matrimonio e famiglia:
35. Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro.
36. Al tempo stesso dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l invito a crescere nell amore e l ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.
37. Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche adare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle.
Un “Decalogo di autocritica”
Vorrei ora cercare di desumerne una serie di “dieci parole” per orientare adeguatamente non solo il versante “critico”, ma anche quello “autocritico”:
1. La sterile denuncia: “non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa” (AL 35)
2. La pretesa normativa: “Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità” (AL 35)
3.Le ragioni e le motivazioni di una scelta: occorre “presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro” (AL 35)
4. Modi inadeguati di esporre le convinzioni e di trattare le persone: “a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica” (AL 36)
5. Squilibrio tra fine unitivo e fine procreativo: “spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l invito a crescere nell amore e l ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione” (AL 36)
6. Un accompagnamento inadeguato delle nuove coppie: “Non abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete” (AL 36)
7. Astrattezza e idealizzazione teologica: “Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario” (AL 36)
8. La presunzione di autosufficienza della dottrina: “Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme” (AL 37)
9. Il matrimonio concepito più come atto che come rapporto: “Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita” (AL 37)
10. Non sostituire, ma formare le coscienze: “Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (AL 37).
Queste aperte considerazioni, che rileggono la storia della pastorale familiare di fronte alle sfide del mondo contemporaneo, non nascondono le esigenze di conversione dei cuori e le esigenze di profonda riforma della disciplina. L’annuncio della comunione in Cristo, che si realizza nell’amore matrimoniale e familiare, esige una assunzione drammatica della tensione tra libertà e autorità, tra comunione e separazione, tra riconciliazione e divisione. La società tardo-moderna dischiude nuove libertà autentiche, ma propone nuove forme di schiavitù insidiosa. Ma al soggetto individuale, che può diventare strutturalmente autoreferenziale, non può essere contrapposta una dottrina segnata da autoreferenzialità ecclesiale. Al possibile delirio soggettivistico del mondo non si potrà mai opporre efficacemente un autoritarismo oggettivistico della Chiesa. Se la società aperta è una delle condizioni della più autentica personalizzazione della coppia, del matrimonio e della famiglia, allora una rilettura della intera tradizione ecclesiale, a partire dalle Scritture, secondo una più lucida composizione di esigenza istituzionali e di esigenze personali sarà in grado di offrire, anche alle prossime generazioni, una sintesi convincente del senso della tradizione matrimoniale e della sua proponibilità in vista di una vita buona e felice. Senza disperazione e senza presunzione, ma alimentando quella speranza che è la più vera risposta alla profezia cristiana sull’amore. Profezia che non si è dimostrata mai tanto esigente, da non risultare ancor più misericordiosa.
c) Il metodo è la sostanza
Se riascoltiamo la frase del Card. Parolin alla luce di questi due testi, vediamo bene il margine di ambiguità di una espressione certo diplomatica, ma anche rischiosa. Essa tuttavia, bisogna ricordarlo, non ha alcun valore magisteriale. Mentre la presa di distanza dal Congresso, al di là delle parole della Segreteria di Stato, viene dalla tradizione conciliare, inaugurata dal grande testo di Giovanni XXIII e confermata dal testo di AL. Per la quale la distinzione tra sostanza e metodo, sempre possibile, non deve mai far dimenticare che, per la tradizione ecclesiale, il metodo è la sostanza. E che un accesso ai “contenuti” della dottrina su matrimonio e famiglia, che avvenga con il metodo del populismo, della discriminazione, della imposizione o del non riconoscimento della libertà dei soggetti, è tradimento della tradizione e non sua custodia. E in questo caso Cristina Simonelli ha pienamente ragione nel metterci in guardia.