La terza forma è senza forma? Una questione de poenitentia


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La terza forma è senza forma?

Un dibattito sul senso di “forma” nel sacramento della penitenza

Molto opportuno mi è sembrato il resoconto su SettimanaNews proposto da M. Matté, a proposito di un lavoro di approfondimento sul “sacramento della penitenza” che si concentra sulla “terza forma”. Qui vorrei chiarirne alcuni presupposti sistematici. Da un lato si tratta di una esperienza resa possibile dal “nuovo rituale” del 1974. Prima si esso, per molti secoli, non vi è stato nulla di tutto ciò. Di recente, tuttavia, la condizione di “pandemia” ha riacceso, almeno in Italia, un faro di luce su questo “forma”. Di qui una serie di riflessioni, che hanno recuperato il terreno più fecondo di confronto sul sacramento e sulle sue forme di celebrazione. Proprio su questo vorrei qui aggiungere qualche prospettiva fondamentale, che rielabori una serie di equivoci nascosti nel termine “forma”, che ordinariamente associamo a questa eventualità (chiamandola appunto “terza forma”), ma che manifesta proprio nella “forma istituzionale”, nella “forma celebrativa” e nella “causa formale” profili allo stesso tempo equivoci e promettenti.

a) La forma istituzionale e lo “stato di necessità”.

Le “condizioni” che possono permettere l’accesso a questa modalità del sacramento sono stabilite in modo generale da un rimando del Rituale al Codice (cann 961-963) dove si stabilisce in modo netto che l’utilizzo di questa forma è subordinato o a “pericolo di morte” o a “grave necessità”, e che comunque colui al quale sono rimessi i peccati gravi mediante l’assoluzione generale, si accosti quanto prima, offrendosene l’occasione, alla confessione individuale, prima che abbia a ricevere un’altra assoluzione generale, a meno che non sopraggiunga una giusta causa”. (963)

Se esaminiamo la formulazione del testo, come deriva dal combinato disposto di Rituale e Codice, ci accorgiamo di un primo livello problematico. Se è vero che è il diritto a stabilire le condizioni ristrette in cui è possibile ricorrere a questa modalità di celebrazione del sacramento, è vero anche che la sottolineatura della necessità di “aggiungere la confessione individuale” per chi si trova in stato di peccato grave mette in luce un primo elemento paradossale. Va ricordato infatti che il sacramento esiste per rimediare al peccato grave. La sua “ratio” è fondata su questa evidenza, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Il sacramento è per il battezzato che, a causa della colpa grave, ha perduto la comunione ecclesiale. Se proviamo a “decrittare” il testo del Codice, esso dice, in sostanza, che questa “forma” non è efficace proprio per coloro che ne hanno bisogno. Mentre è efficace per coloro che potrebbero anche farne a meno! Singolare incoerenza tra logica del sacramento e forma della sua celebrazione.

b) La paradossale forma celebrativa

Il secondo aspetto da mettere in rilievo è il fatto che il rituale, nel momento in cui predispone il formulario di questo “stile estremo”, risente evidentemente delle condizioni eccezionali di cui abbiamo parlato prima. Se c’è pericolo di morte o “stato di necessità” è quasi inevitabile che la “forma rituale” possa tendere a zero. In effetti il rituale, pur rimandando in astratto alle condizioni celebrative della “seconda forma” (ossia alla celebrazione comunitaria della penitenza con confessione e assoluzione individuale) di fatto si concentra solo su una più ampia preghiera di introduzione alla formula di assoluzione, che è pronunciata su una comunità, non su un singolo. Il fatto nuovo, rappresentato dalla “condizione di pandemia”, sulla cui natura eccezionale non vi sono dubbi, ma che ha permesso di “preparare” celebrazioni comunitarie non istantanee e non improvvisate, ci ha introdotti, almeno in Italia, in una nuova esperienza di questa modalità. Ma non ha minimamente alterato non solo la norma del “proposito di confessione individuale”, bensì in alcuni casi, lo ha accentuato, motivato e suscitato. Questo è uno dei dati più interessanti.

c) La “causa formale” del sacramento e una grande sorpresa

La terza accezione di “forma” che voglio considerare è la più viscerale, quella che ha inaugurato nel XII secolo una grande trasformazione della tradizione latina. Mi riferisco qui alla forma come “causa formale”, ossia alla ragione sistematica che giustifica una realtà, in questo caso il sacramento della penitenza. Se ci soffermiamo su questo punto scopriamo una logica profonda, spesso dimenticata o rimossa, che giustifica gli imbarazzi di oggi e le prospettive per il domani. In effetti, se guardiamo fino in fondo nella realtà del IV sacramento, vediamo che per molti secoli, almeno fino al Concilio di Trento, la questione centrale è stata quella di giustificare la presenza di un sacramento della riconciliazione diverso dal battesimo. La tradizione scolastica ha impostato un ragionamento, che il Concilio di Trento ha poi utilizzato contro la negazione protestante. Ma l’utilizzo “antiluterano” ha nascosto un elemento decisivo del ragionamento medievale: ossia che nel sacramento della penitenza non vi è solo la grazia operante, ma anche la grazia cooperante. Per dirla in modo più secco: nel sacramento della penitenza non è sufficiente l’”ex opere operato”, ma è richiesto “l’ex opere operantis”. Questo per noi risulta sorprendente e anche spiazzante, perché sembra contraddire la “regola” che vale per tutti e 7 i sacramenti: ossia che nel sacramento sia decisivo non solo l’atto del perdono che Dio concede, ma anche, e direi in modo particolare e specifico, la risposta del soggetto a tale perdono. Di questo la Chiesa si prende cura in questo sacramento: che il soggetto peccatore possa rispondere di nuovo alla grazia del perdono. Proprio qui, però, gli scolastici vedono la ragione della “differenza” tra battesimo e penitenza. Nel primo è sufficiente la grazia del perdono di Dio, nel secondo occorre anche la libertà e la virtù del penitente. Come dice S. Tommaso d’Aquino, in modo icastico, nel vissuto della penitenza “può esservi la virtù senza il sacramento, ma non il sacramento senza la virtù”.

d) Che cosa è allora la “terza forma”?

Dopo questo breve viaggio nella “forma della terza forma”, ci chiediamo: ma che cosa è dunque la esperienza prevista nel III capitolo del rituale della Penitenza? Io credo che possiamo tranquillamente dedurne che, al di là delle parole utilizzate, siamo molto più vicini ad una “memoria del battesimo” che al “sacramento della penitenza”. Mancando alla “azione rituale” la risposta del soggetto, che non può essere ridotta ad una risposta generale e universale, è evidente che alla causa formale del sacramento manca un elemento costitutivo: non a caso esso è richiesto “a posteriori”, non appena si sia usciti dallo stato di necessità. Questa non è un aggiunta paradossale, ma la ripresa della logica decisiva del IV sacramento. Nella lingua di S. Tommaso possiamo dire che “manca la materia” quando gli “atti del penitente” vengono scavalcati, aggirati o rimossi. Perciò la 3^ forma, di per sé, è più prossima a quelle “celebrazioni della penitenza” che il rituale presenta, nel dettaglio, all’interno della “Appendice”. La sua “inefficacia sacramentale” non è semplicemente una “chiusura nel passato”, ma una fedeltà a quella logica complessa, che sola è in grado di giustificare un sacramento diverso dal battesimo.

Qui, come è chiaro, in gioco non vi è solo la III forma, ma anche la I e la II. La assenza di confessione, di contrizione e di soddisfazione non è un problema solo per la III forma (che le esclude per necessità) ma anche delle prime due forme, che spesso (per non dire quasi sempre) formalizzano gli atti del penitente, facendoli diventare una vera e propria “finzione”. Per questo il valore della III forma può essere quello di una “solenne memoria del dono di grazia del perdono”, che può abilitare nuovi percorsi penitenziali, che restano ad essa esterni, ma non senza feconda relazione con essa! Questi percorsi, differenziati e personalizzati, non si fanno mai in genere, ma sempre “in specie”. Nelle forme e con le modalità che ci toccherà inventare, oggi e domani, come sempre ha fatto l’autentica vocazione ecclesiale al “fare penitenza”.

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