L’imbarazzo ecclesiale e la prudenza della parola


viadelconcilio

Il mio allievo e ora collega Umberto Rosario Del Giudice mi ha scritto una lettera aperta sul tema singolare dell’imbarazzo. Per questo lo ringrazio e qui gli rispondo di cuore.

Caro Umberto,

non è usuale che ci si scrivano “lettere aperte”. Ma in questo tempo di “chiusura” e di “interruzione dei rapporti immediati” le lettere fioriscono e miracolosamente si aprono. E si può scrivere per richiamare la attenzione, per denunciare un abuso o per riflettere ad alta voce. E’ un fatto singolare, ma forse indice di una nuova e inconsueta esigenza comunicativa.

Tu mi dici che una delle parole più ricorrenti nel mio insegnamento è “imbarazzo”. Di fronte a lettura offerte da “auctoritates” ecclesiali si resta imbarazzati. E’ vero, caro Umberto, scrivendomi queste parole hai suscitato in me una riflessione su alcuni “sentimenti” che percorrono oggi il nostro cuore. E mi chiedo: perchè sono “imbarazzato”? E che cosa mi imbarazza? Provo a identificare alcune figure di questo imbarazzo attuale e a giudicarle in rapporto non semplicemente alla vita cristiana, ma alla vocazione teologica. Che cosa deve fare un teologo se prova imbarazzo?

L’imbarazzo per la inadeguatezza

Nel famoso incipit del capitolo XIV di “Great Expectations” di Ch. Dickens si legge: “E’ una gran brutta cosa vergognarsi di casa propria”. L’imbarazzo che si prova talora nella Chiesa, di questi tempi, assomiglia a questo sentimento espresso da Pip, il giovane protagonista del romanzo. La Chiesa, per fortuna, non è piccola come una famiglia. Ha un corpo grande come un elefante e si estende su 5 continenti. Si può sempre rimediare e ci si può sempre consolare. Ma quando in luoghi strategici accadono fatti deplorevoli, allora l’imbarazzo si fa sentire. Se per provvedere a situazioni di emergenza si usa prevalentemente il registro freddo e scostante di “norme giuridiche”; se per parlare del bisogno di misericordia si tira fuori dall’armadio il vecchio scheletro delle indulgenze; se per affrontare le nuove sfide, si percorrono solo le strade già battute e non si aprono mai sentieri nuovi, l’imbarazzo è inevitabile. Ed è imbarazzo per la “inadeguatezza” con cui la tradizione viene interpretata e mortificata. Quando vedi la inadeguatezza, provi imbarazzo e cerchi di trovare la via del rimedio.

L’imbarazzo per la arroganza

La seconda forma di imbarazzo è peggiore. E’ l’imbarazzo per la arroganza. Anch’essa deriva da inadeguatezza, ma vi aggiunge una forma pericolosa di cecità, diventando violenza. La arroganza non è altro che una inadeguatezza che impone violentemente agli altri di dover essere inadeguati. Nella Chiesa non è così raro che gli inadeguati diventino anche arroganti. Come quel vescovo che venne ad un Convegno teologico ed ebbe la sfrontatezza di dire: “quando affrontate un tema, iniziate sempre dal Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica”. Questa è inadeguatezza arrogante. Di fronte a questo l’imbarazzo è più forte e esige lo scatto di reni della denuncia. Quando uno diventa arrogante, deve essere fermato. Se la macchina della Chiesa – che prende talora questo volto meccanico – inizia a “distorcere” una tradizione, facilmente diventa ideologica. E parla di misericordia mentre opera vendette, parla di tenerezza mentre diventa spietata. E qui, al cristiano sono aperte molte vie, al teologo solo una. Si tratta di prendere la parola. Di fronte all’imbarazzo per arroganza, l’unica forma di prudenza è parlare e parlare chiaro.

L’imbarazzo per il silenzio e per la mancanza di parrhesia

Il terzo imbarazzo discende dal secondo. Se al teologo non resta che parlare, spesso deve costatare, amaramente, che è molto più semplice tacere. Ma questo non è richiesto dal ministero della teologia. Il teologo, infatti, esercita la prudenza nella parola: ha solo quella a disposizione. E deve dire, non tacere, tutto il suo imbarazzo, per la inadeguatezza, per la arroganza e anche per il silenzio. Se in un equilibrio di forze e di autorità, a un dato momento, nella Chiesa emerge una prassi distorta e si iniziano a produrre forme di discorso, o forme di vita pericolosamente scisse, il teologo non deve tacere. Deve dirlo, con tutta la chiarezza che è richiesta. La parola del teologo può fare male. E può fare male anche in modo gratuito e ingiusto. Ma se dice il vero, e mette in guardia da un errore che compromette la tradizione, deve farlo, anche se sa che dovrà pagare un prezzo per quello che dice. Se sulla dottrina eucaristica, o sulla struttura del culto liturgico, sulla gestione delle crisi matrimoniali o sulla pretesa esistenza di un “altro” rito garantito a gruppi reazionari da autorevoli organi ecclesiali si apre un problema e le soluzioni sono vecchie o irrispettose, come è possibili che nella maggior parte degli esperti sul tema, che la Chiesa ha formato e paga per esercitare questo ministero della parola, prevalga la scelta di tacere e di girare il capo dall’altra parte? Vorrei dire così ai teologi: siete pagati per parlare, non per tacere. La Chiesa ha bisogno della vostra parola, soprattutto quando è scomoda. Per fare complimenti non c’è bisogno di formazione specifica.

Caro Umberto, queste tre forme di imbarazzo attraversano le mie lezioni. E’ vero. Certo, non solo imbarazzo. Quanta ammirazione, quanto stupore, quanta sapienza e quanta lungimiranza scopriamo continuamente nello studio del passato e del presente ecclesiale. Ma ciò che imbarazza è il segno di un bisogno di dinamiche positive e di pratiche buone, di categorie da modificare e di argomentazioni da rivoltare, che mi appassionano e che cerco di trasmettere agli altri. E’ una gran bella cosa non vergognarsi della propria casa. Anche a costo di combattere con queste tre forme dell’ imbarazzo.

Ti mando un cordiale saluto e ti stringo la mano, senza guanto

Andrea

 

 

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