L’orologio e la zappa. La rilevanza della fede e il matrimonio come sacramento nel documento della CTI


zappa

Non è difficile capire che ogni realtà esige di essere affrontata con gli strumenti adeguati alle sue caratteristiche. Non posso pettinarmi con un martello. Non posso piantare un chiodo con un pettine. Un orologio, per essere aperto, controllato, riparato, esige l’utilizzo di piccoli strumenti di precisione, conformi alla sua struttura e capaci di “leggere” e di “toccare” le sue specifiche caratteristiche. Se uno pensasse di aggiustare un orologio con una zappa, farebbe solo danni. Perché la zappa non rispetta la natura fine dell’orologio, lo snatura e facilmente lo distrugge. Questa è l’immagine che mi si è presentata davanti, appena ho letto la parte conclusiva del documento della CTI su tema del rapporto tra “Fede e sacramenti”. Il testo, nel suo insieme riguarda “La reciprocità tra fede e sacramenti nella economia sacramentale”. Qui reagisco solo al capitolo IV, dedicato al tema “La reciprocità tra fede e sacramento nel matrimonio”. A tal proposito, il lavoro prezioso, che una Commissione Teologica dovrebbe fare oggi, sarebbe quello di “predisporre strumenti migliori” per lavorare su quel capolavoro di orologio che è la tradizione matrimoniale cattolica. Se invece, al meglio della sua prestazione, essa ci presenta una “zappa” come soluzione, allora c’è da preoccuparsi.

Fuori dalla metafora, vorrei brevemente soffermarmi su alcuni aspetti di questo documento, dove di affrontano le questioni più delicate con un metodo che, senza mezzi termini, ritengo del tutto inadeguato, segnato come è da un modo di proporre la sintesi teologica e di giungere alle conclusioni che mi pare del tutto inefficace rispetto alla intelligenza della res e alla azione sulla res.

a) Il centro sistematico affidato alla dogmatica canonistica

Come spesso accade nella tradizione cattolica degli ultimi 200 anni, il ruolo determinante, nella dottrina sul matrimonio, è attribuito alla dogmatica giuridica, non a quella teologica. O, meglio, ad una dogmatica teologica appiattita su quella giuridica. E anche la CTI, che pure avrebbe il compito e lo spazio di un “pensiero audace”, nel cuore della sua argomentazione, si affida ad una sintesi giudirica tipica della Chiesa e del mondo del XIX secolo. Il principio della identità tra contratto e sacramento, che al n. 155 del testo si riconosce chiaramente come non definito sul piano dogmatico, e quindi discutibile come un opinione tra le tante, viene però identificato con la “posizione cattolica” e per questo considerato di fatto “indiscutibile”. Questa mossa, teologicamente poco coraggiosa e poco limpida, inibisce alla Commissione ogni vera intelligenza delle questioni e dischiude il campo ad una lettura del rapporto tra fede e sacramento che non ha, di fatto, alcun ruolo per comprendere il sacramento stesso. Se subordiniamo il pensiero teologico sul matrimonio a scelte di carattere istituzionale che sono vecchie di 200 anni, non facciamo un servizio alla tradizione, ma contribuiamo ad affossarla.

b) La irrilevanza della storia

Mi colpisce molto, proprio sul piano della “intelligenza teologica”, la scelta di impostare il ragionamento in modo sostanzialmente “sincronico”, senza attribuire alcuna vera rilevanza alla dinamica storica, che anche i teologi cattolici dovrebbero avere acquisito come un criterio inaggirabile di giudizio, da almeno 50. In particolare vorrei fare notare come la rilevanza della dimensione “antropologica”, che è trasversale a tutta la storia cristiana e cattolica di riflessione sul matrimonio, dovrebbe essere compresa – se la si vuole comprendere davvero – non semplicemente elencando gli interventi – quasi tutti tratti da discorsi alla Rota Romana – degli ultimi tre pontefici (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco), ma con ben altro respiro e ben altre fonti. Il passaggio dalla visione antropologica di Tommaso d’Aquino, con il matrimonio come “generatio” alla natura, alla città e alla chiesa, alla visione inaugurata dal Decreto Tametsi, dove la Chiesa assume una nuova e rivoluzionaria “funzione pubblica”, l’affermarsi poi della “identità tra contratto e sacramento”, già a metà 800 e poi ufficialmente a partire dal Codice di Diritto Canonico del 1917, fino alla scoperta della libertà di coscienza e alla rilevanza della famiglia come Chiesa, con Dignitatis Humanae e Gaudium et Spes, e infine al superamento del “primato assoluto della legge oggettiva” nel 2016 con Amoris Laetitia, come superamento del modello tridentino-ottocentesco. Questa grande storia, se viene ridotta ai 40 anni di pronunciamenti degli ultimi papi nei discorsi alla Rota Romana si trasforma subito in una zappa con cui l’orologio matrimoniale non riesce proprio né ad essere aperto né ad essere riparato. E la ripetuta “reciprocità” tra sacramento e fede, su cui il documento insiste fino alla noia, non sembra altro che una formula retorica. Anzi, se a questo avviciniamo il modo apologetico a cui si riduce il riferimento antropologico – quasi come il “male” di un mondo in cui il soggetto ha acquisito autonomia, così come appare dal debolissimo n. 172 – allora è evidente che la natura stessa del matrimonio, nella sua profezia di anticipazione “naturale” dell’ordine spirituale, è di fatto perduta come contenuto, e ridotta a “conoscenza di fede”. Non vi è più immediatezza, dialogo, reciprocità. La Chiesa non ha nulla da imparare da una coppia che si ama e che genera. Ha solo da insegnargli una dottrina. E questo è un problema strutturale, di cui una teologia inadeguata porta una grande e crescente responsabilità. Non possiamo certo imputarla ai teologi del XV o del XIX secolo. Ma certo a quelli del XXI!

c) Una nozione apologetica di antropologia

Voglio ora soffermarmi proprio su questo n. 172, che è tra i più infelici del testo e che rivela un metodo distorto e clericale di leggere la tradizione. Così produce una zappa che non sa né aprire né aggiustare alcun orologio. Vediamo in sintesi la argomentazione apologetica utilizzata in questo passaggio:

– si assume la “antropologia” come un “duplice contenuto” che riguarda l’uomo come “persona che si realizza nel donarsi” e come “differenza maschio e femmina”;

– si dice che la Chiesa è “baluardo culturale” che preserva la “realtà naturale propria del matrimonio”;

– si elencano otto “assiomi indiscutibili della cultura postmoderna” che offuscano questa “natura antropologica” del matrimonio.

– dunque, sul piano “ermeneutico”, se si carica il “matrimonio naturale” di tutti i contenuti di fede, si realizza la identificazione, estrinseca, tra grazia e natura. Ma questo al prezzo di “snaturare” tanto la seconda quanto la prima.

Una impostazione di questo genere pregiudica il rapporto con il “dato antropologico”, che è appunto la immediatezza dell’amare e del generare, che si dà in forme nuove nel nostro contesto tardo- o post-moderno non semplicmente come un “errore da correggere”. Ed è proprio questa la forza antropologica della relazione coniugale. Di attingere a forme di vita – della relazione orizzontale e verticale, del rapporto di amore e di generazione – da cui la Chiesa ha sempre anche da imparare. L’annuncio del Vangelo passa, nel matrimonio, per le cose più semplici e più elementari. Su questo “primato del sensibile” nel matrimonio, non una parola. Il sacramento, ridotto alla competenza giuridica della Chiesa su di esso, finisce per far perdere la bussola anche ai teologi. Ma una Commissione teologica dovrebbe avere la forza e la autorità di “guardare più in alto” e di non restare condizionata dalle questiuncole impostate da canonisti che credono di poter risolvere tutti i problemi sulla base del dettato di un Codice. Uno dei dogmi moderni, a cui il teologo dovrebbe resistere, è la “completezza del sistema giuridico”. Eppure nel documento non vi è traccia di una “logica più grande e più elementare” rispetto a quella della “legge oggettiva” che identifica contratto e sacramento.

d) La sordità ad “Amoris Laetitia” e al suo approccio sistematico

In un documento del 2020, che tocca il tema del matrimonio, il ruolo da attribuire ad AL avrebbe dovuto essere assolutamente centrale. Invece il testo di AL appare marginalmente, citato solo 6 volte, ma sempre su affermazioni per nulla decisive. Se in un documento che vorrebbe occuparsi del grande tema del rapporto “tra fede e sacramenti” non si coglie l’occasione per una “rilettura ariosa” della tradizione, non si recupera una visione “escatologica” del matrimonio, non si valorizza il “processo” e la natura “continua e progressiva” del sacramento, ma ci si ferma alla lettura classica, che vuole tutto e subito, in un inizio contrattuale identificato col sacramento, non si tiene in nessun conto di quella “autocritica” che AL ha inserito al suo inizio e che dovrebbe valere, in primis, per i professionisti della teologia. Riascoltiamo solo le prime di quelle parole (AL 35-36):

35. Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro. 36. Al tempo stesso dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica.”

Queste parole non sono destinate semplicemente ai pastori. Non sono parole di buon senso orientate soltanto alla pratica. Sono un principio sistematico rinnovato e fedele ad una tradizione più ampia e più ricca di quella degli ultimi due secoli. A questa nozione di tradizione debbono guardare anche i teologi, soprattutto quelli che portano la responsabilità di una Commissione Internazionale. Se non vogliono cadere sotto il giudizio che AL rivolge a coloro che si basano soltanto su una ricostruzione “acquisita” della tradizione. Non è bello che, 4 anni dopo AL, si proponga ancora una visione del matrimonio che “pusilli animi est” (AL 304). Vogliamo teologi capaci di leggere la tradizione con coscienza della “inquietudine”, con senso della “incompletezza”, con il ricorso alla “immaginazione”. Che possano immaginare un mondo ecclesiale, vivo e vero, in cui ci siano “contratti” tra battezzati che non sono sacramenti, e sacramenti vissuti che non hanno forma di contratto. E forse la immaginazione potrebbe essere fedele alla realtà, mentre la dottrina acquisita e “certa” si (e ci) immunizza dal reale. Insomma, da un documento della CTI ci saremmo aspettati strumenti nuovi di intelligenza e principi di azione più fedele, non zappe “vintage” o bilancini da farmacista.

 

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