Mezzogiorno


«Cosa nostra aveva sfidato lo Stato, tentando di passare dalla fase della convivenza, pretesa storica di tutte le associazioni mafiose, a un ruolo di primazia, di rovesciare cioè i rapporti di forza con gli altri poteri presenti nella società, a cominciare dalla politica. Così si spiega l’elenco lunghissimo di uomini delle istituzioni e della società civile uccisi dalla mafia in Sicilia dal 1978 al 1992. Senza dimenticare le stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano» [Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Laterza 2019, p. IX]. «Lo Stato ha però raccolto e vinto, nel rigoroso rispetto delle regole, la sfida: il maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e dai giudici istruttori di Palermo è stato il primo, e certamente il più importante, di una serie impressionante di processi e di condanne, di arresti e di confische, che è diventato inarrestabile proprio dopo le stragi del 1992, mentre il fenomeno sempre crescente dei collaboratori di giustizia minava il patrimonio più prezioso dell’associazione, l’affidabilità derivante dall’omertà» [ivi, p. X]. «La ‘ndrangheta ha anch’essa una storia secolare, ma oggi è diventata la più ricca, potente e pericolosa delle organizzazioni mafiose perché ha approfittato della crisi di Cosa nostra per soppiantarla nel rapporto privilegiato con i grandi fornitori messicani e sudamericani di cocaina, così diventando il principale broker del mercato mondiale degli stupefacenti» [ivi, p. XI].
«È un dato di fatto che le mafie operino ben al di là dei loro territori d’origine. Negli ultimi anni sono state moltissime le inchieste che hanno denunciato la presenza delle mafie nel Nord del nostro Paese. Si pensi ai numerosi arresti, sequestri, scioglimenti di consigli comunali che hanno riguardato regioni come la Lombardia, il Piemonte, la Liguria, l’Emilia Romagna» [ivi, p. 40]. «In verità la mafia si presenta oggi come un concentrato di tutte le possibili forme di dominio dell’uomo sull’uomo» [ivi, p. 67]. «Del resto, è storicamente ben nota la difficoltà, talora una vera e propria ritrosia, anche culturale, a riconoscere l’esistenza della mafie nel nostro Paese» [ivi, p. 75]. «La Cassazione ha fatto chiarezza sul punto e ha individuato l’elemento caratterizzante il reato di associazione di tipo mafioso nel “metodo mafioso”» vale a dire «“del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento ed omertà”» [ivi, p. 81].
«“Roma è il futuro”, così si esprimeva qualche anno fa un esponente della ‘ndrangheta». «Roma, per le sue dimensioni e per le sue caratteristiche economiche e sociali, è il luogo ideale dove muovere ricchezze illecite» [ivi, p. 86]. «Ma sul territorio romano, accanto a quelle componenti che si manifestano e operano come vere e proprie proiezioni delle organizzazioni mafiose più tradizionali, camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra, coesistono e interagiscono altre componenti, strutturate secondo modelli complessi e tali da poter essere qualificate a tutti gli effetti come sodalizi a carattere autonomo, che, avvalendosi del metodo mafioso, presentano le caratteristiche tipiche del modello normativo dell’associazione di tipo mafioso ex art. 416 bis c.p.» [ivi, p. 92]. «Per quanto ci riguarda, continuiamo a non accettare l’idea, purtroppo diffusa, che la corruzione a Roma sia un fatto normale se non addirittura utile allo sviluppo. Né, tanto meno, quella che la mafia non esista se tra gli imputati non vi sono siciliani, calabresi o campani» [ivi, p. 120]. «Anche in tal caso si piegano le regole della concorrenza e la realizzazione di interessi economici generali, si subordina il regolare sviluppo del mercato all’affermazione di interessi particolari, che fanno capo a pochi, i quali si arricchiscono a danno del potenziale sviluppo dei tanti, a partire da chi produce» [ivi, p. 133].
«C’è chi pensa che i soldi siano neutri, e che l’importanza è semplicemente che circolino, essendo l’immissione sul mercato della ricchezza un fatto in sé benefico che cancella la questione della provenienza di quei soldi. Insomma, non avrebbe importanza che il denaro sporco si mischi con quello pulito. Questo è un principio base di una certa filosofia con la quale operano molti imprenditori del nostro Paese (ma queste stesse idee permeano anche molti altri Pesi europei). Ancora oggi, insomma, in molti settori dell’economia è salda la convinzione che pecunia non olet, secondo l’antico detto latino. La storia però dimostra esattamente il contrario, ossia che l’origine delle ricchezze è importantissima perché, quando si mischiano capitali sporchi e puliti, di solito chi manovra i capitali sporchi prevale rispetto a chi utilizza quelli puliti. Anche nella parte avanzata di questo Paese c’era la fortissima convinzione di poter separare l’oggetto dei flussi di capitali dai soggetti che lo muovevano, ossia di far arrivare i soldi sporchi delle mafie ma non i mafiosi, accogliendo i primi e respingendo i secondi. Questa è spesso un’idea portante della nostra classe imprenditoriale, soprattutto al Nord» [ivi, p. 138]. «Va anche detto che le mafie, di regola, non riescono a penetrare tessuti economici, politici e sociali forti, ma solo quelli di per sé fragili e indeboliti a causa di patologie interne; e lì le mafie entrano come una lama nel burro. C’è quindi una serie di responsabilità collettive che hanno favorito la penetrazione delle mafie e che riguardano anche il modo in cui concepiamo l’economia, la società, la politica» [ivi, p. 139].
«Una parte del sistema di relazioni di cui stiamo parlando si sviluppa verso gli strati inferiori della società, così da generare appunto quel “consenso sociale” così importante per l’organizzazione mafiosa». «Questa preoccupazione per la gente comune rappresenta appunto parte del tessuto di relazioni con il resto della società che caratterizzano le mafie distinguendole dalle altre forme di criminalità organizzata. Ma ad essere decisive per la loro forza sono le relazioni che le mafie riescono a intessere verso le altre componenti della società, quelle più elevate nella scala sociale e per questo dotate di potere, economico, politico, o di altro genere, tanto che proprio queste relazioni sono state definite parte fondamentale del “capitale sociale” delle organizzazioni. Il primo gruppo di queste relazioni, il cui insieme compone quella che per comodità abbiamo chiamato ‘area grigia’, è costituito dai rapporti con le imprese» [ivi, p. 144]. «Dopo quello dei rapporti con le imprese, il secondo grande tema è quello delle relazioni con professionisti e pubblici funzionari. Sono centinaia, forse migliaia, in tutta Italia, i casi documentati». «Tutte queste persone mettono a disposizione dell’organizzazione le loro competenze specifiche e in tal caso anche le loro relazioni, che allargano sempre più la ‘rete’ di cui le mafie possono giovarsi» [ivi, p. 149]. «L’ultimo settore di portata strategica è quello delle relazioni della mafia con uomini politici e amministratori locali» [ivi, p. 152]. «In un caso e nell’altro caratteristica fondamentale è la natura non occasionale né isolata degli episodi; tale natura è invece tendenzialmente stabile, con carattere seriale e con il consolidarsi di una serie estesa e ramificata di relazioni informali e a volte illegali, tra una pluralità di attori che operano in settori diversi. È quella che abbiamo definito la “deprimente quotidianità della corruzione”» [ivi, p. 171].
«C’è di più: come ha affermato qualche anno fa l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi (in occasione di una conferenza all’Università Statale di Milano, l’11 marzo 2011): “Nell’arco di trent’anni la criminalità organizzata ha fatto perdere all’Italia vari punti di Pil, in larga parte ascrivibili a mancati investimenti”. Draghi ha aggiunto che “tra i fattori inibenti della crescita vi è anche l’infiltrazione mafiosa nella struttura produttiva“ e che proprio per questo è necessario “contrastare le mafie, la presa che esse conservano al Sud, l’infiltrazione che tentano al Nord» [ivi, p. 177]. «In definitiva, le mafie scoraggiano uno sviluppo autonomo e “sano” e alimentano forme di adattamento regressivo delle economie locali. Il risultato è un complessivo impoverimento del sistema e un ulteriore ostacolo alla crescita dell’economia, con la compressione dei diritti degli altri operatori e dei singoli lavoratori» [ivi, p. 178]. In effetti «il sommerso in Italia vale oltre 118 miliardi» secondo «uno studio del dipartimento Economia impresa e società dell’università della Tuscia che ha esaminato i dati delle ultime dichiarazioni dei redditi, relative al 2017, confrontandoli con i consumi delle famiglie nello stesso anno». «In pratica il valore del sommerso Irpef è cinque volte superiore ai 23 miliardi che servono per evitare gli aumenti Iva». «Si sono spesi 118,8 miliardi in più di quanto è stato dichiarato (e che al massimo poteva essere speso). Lo studio non considera l’intera casistica delle società di capitali». «Guardando alle singole Regioni, il divario più alto in Campania (29,02%), seguono Calabria (26,77%) e Sicilia (26,51%)» [Il Messaggero, 21/07/2019, p. 5].
«Esiste un problema di cambiamento culturale che coinvolge soprattutto le nuove generazioni, un problema di regole generali da cambiare e c’è, prima ancora, un problema di scelte e responsabilità individuali» [Pignatone e Prestipino, cit., p. 155]. Non a caso, «l’Italia – anche se con volumi e vicende diverse dal secolo scorso – sta riscoprendo l’emigrazione. Soltanto nel 2017, l’ISTAT ha calcolato tra gli under 30 28.000 laureati trasferitisi all’estero e 33.000 diplomati che hanno seguito la stessa strada. Negli ultimi cinque anni se ne sono andate via 244.000 persone, con un trend stabile, anche se si registra un lieve aumento tra i diplomati» [Francesco Pacifico, «Con la fuga dei cervelli all’estero l’Italia perde 14 miliardi ogni anno», Il Messaggero, 17/07/2019, p. 8]. «Insieme ad Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica, ho affrontato questo tema in numerose ricerche. Innanzitutto, nel Rapporto giovani del 2016 è emerso come ben il 90% dei giovani italiani considera l’emigrazione una vera e propria ‘necessità per realizzarsi completamente’, a differenza di altri giovani europei per cui l’emigrazione è solo un’opportunità come le altre» [Paolo Balduzzi, «La fuga dei giovani che affossa il Paese», Il Messaggero, 18/07/2019, p. 27].
Mezzogiorno. Eva Illouz ci fa notare che «se la storia è necessaria per comprendere il presente, non è di alcuna utilità in tempi di crisi». «Nel 1963, intitolando il suo libro sul processo Eichmann La banalità del male, Hannah Arendt fece scandalo. L’espressione fu mal intesa, soprattutto dalle comunità ebree che a torto la interpretarono come un modo di minimizzare i crimini dell’accusato. Con la formula la filosofa si cimentava in un metodo d’analisi classificabile come decisamente antistorico, nel senso di usare le analogie col passato e le categorie storiche o giuridiche conosciute. Anzitutto Arendt voleva attirare l’attenzione sul fatto che la natura del crimine, senza precedenti, esigeva di rivedere le nostre categorie di pensiero. Per giudicare Eichmann non ci si poteva contentare di parlare del male come s’era fatto prima. Per lo stesso motivo, ella rimproverava al procuratore generale di Israele, Gideon Hausner, di fare del processo uno spettacolo, senza capire che era in gioco un crimine nuovo: il crimine contro l’umanità, nuova categoria legale, politica e morale». «Fondarsi sul passato può a volte renderci ciechi di fronte a un avvenimento che segna una rottura profonda. Mi sembra che siamo in uno di questi momenti, in cui il passato non può illuminarci. Due esempi lo attestano. Donald Trump rappresenta una minaccia per la democrazia che non sembra a nulla di già conosciuto». «Il secondo esempio senza precedenti è la crisi ecologica». «Essa tocca talmente tanti aspetti differenti della nostra esistenza e in modo talmente inedito che la storia non aiuta affatto a comprenderla. Riflettervi solo in termini di catastrofe si ridurrebbe a quello che definirei l’“inevitabilismo”, vale a dire il sentimento che saremmo inesorabilmente condannati a un futuro totalmente determinato dalle strutture del presente. Voler comprendere il presente sul metro del passato, in certo modo, è eludere la responsabilità che su noi incombe di fronte al nostro presente. Rendere il futuro ineluttabile è anch’esso un modo per sfuggire a questa responsabilità. Come Arendt ci invitava a fare, le questioni specifiche devono avere risposte specifiche. “Se la serie di crisi che abbiamo vissuto all’inizio del [XX] secolo possono insegnarci qualcosa, è, penso, il semplice fatto che non esistono norme generali per formarci un giudizio”, scriveva. “Non è che al cader della notte che la civetta di Minerva prende il volo”, assicurava da parte sua Hegel, in una frase famosa dei Lineamenti di filosofia del diritto (1820). Riferendosi alla dea greca della saggezza, rappresentata dalla civetta, spiegava che la filosofia è sempre in ritardo. In quanto pensiero del mondo, appare solo quando la realtà ha compiuto e terminato il suo processo di formazione. La coscienza non può dunque far presa sul presente se non quando è passato. Per Arendt è il contrario: è a metà giornata che il “discernimento” può aiutarci a comprendere la particolarità della nostra situazione. Ed è il solo modo di assumercene tutta la responsabilità» [«L’invocation du passé met en jeu une vision morale de l’avenir», Le Monde, 18/07/2019, p. 22]. L’elezione di misura di Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea è una risposta specifica a una questione specifica che «non riguarda però un tema legato alla semplice questione di genere. Riguarda qualcosa di più importante che ha che fare con la delimitazione chiara di un terreno di gioco all’interno del quale difendere i confini della nostra libertà». «È la prima volta che famiglie europee provano ad avvicinarsi per questioni legate non unicamente alla semplice convenienza». [«Prove tecniche di patriottismo europeo», IL FOGLIO, 17/07/2019, p. 1]. Nello stesso giornale, stessa pagina, a firma David Carretta: «Ursula confermata per un soffio, tanti partiti possono dirsi decisivi. L’Europa assomiglia sempre più alle sue capitali». Mezzogiorno non è mezzanotte, senza manipolazioni e civetterie.

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