Né motuproprio né terraemotus


Né Motuproprio né terraemotus.
Il “purgatorio” della liturgia prima del Concilio Vaticano II
Prima del Concilio Vaticano II la liturgia non era certo un paradiso. Ma non era neanche un inferno. Nel purgatorio di quei tempi si faticava, come in quello dei tempi nostri, ma con alcune differenze importanti, che vale la pena di mettere bene in chiaro, per non cadere in facili errori di prospettiva o in ingiustificati sentimenti di nostalgia.
Prima dell’ultimo Concilio Ecumenico, le esperienze di devozione, di solennità, di ossequio al precetto, di osservanza della pratica letterale erano spesso anche molto intense. Ma si muovevano all’interno di un paradigma spirituale ed ecclesiale che si era progressivamente irrigidito e aveva perso vigore, a partire dal xviii secolo. La pratica di tale paradigma, che potremmo definire tardo-tridentino, aveva guadagnato meriti non piccoli, e tuttavia aveva anche generato teorie riduttive circa l’atto rituale, pensandolo e vivendolo nelle categorie di cerimonia esterna, di culto esteriore, di funzione sacra.
La misura di questa evoluzione si può verificare nella teoria che gli ulltimi tempi preconciliari hanno elaborato circa la “partecipazione” dei fedeli all’atto rituale, come risulta in modo lampante dal testo di Mediator Dei di Pio XII, del 1947.
In quel testo troviamo presentato in modo limpido il modello di partecipazione “interiore”, che ha guidato le forme celebrative, devozionali, spirituali, ecclesiali a partire dal medioevo e poi, con accentuata forza, dopo il Concilio di Trento. Partecipare significava – allora – “avere nell’animo gli stessi sentimenti di Cristo”. Questo modello di partecipazione, fotografato autorevolmente “dal fondo”, a pochi anni dalla svolta conciliare, ci permette di comprendere come era quel mondo del “preconcilio”. Questa lettura illumina il perché in quel mondo fosse “normale”, per non dire altamente raccomandabile, moltiplicare le forme di devozione in occasione del rito eucaristico. Se il cardine della partecipazione è l’”animo”, i riti e le preghiere comuni non hanno, anzi non possono avere, alcuna vera autorità spirituale. Questo è l’elemento più tipico che caratterizza il “purgatorio” preconciliare. Proviamo ad esaminare un caso tipico di questo “parallelismo” tra rito e devozione.
Nella chiesa prima del Vaticano II balza all’occhio il fatto che la gran parte dei cristiani cattolici facesse la comunione raramente e solo “in occasione” della messa, ma mai come atto rituale interno alla messa. E così è stato per secoli, per noi cattolici, fino agli anni 60 del xx secolo.
Abbiamo testimonianze sorprendenti di questa normalissima distorsione. Racconta B. Botte che ai primi del 900 a Parigi la comunione si poteva fare sempre, prima, durante o dopo la messa, ma mai al momento dei riti di comunione. D’altra parte dalla tradizione autobiografica orale di P. Cesare Falletti risulta che sua madre, volendo fare la comunione alla fine di una messa negli anni 50 in Alta Savoia, si fosse sentita obiettare che non era possibile, essendo quella una “messa non da comunione”. E quando al prevosto di Gallia aveva risposto che a Roma lei faceva continuamente l’esperienza che tutte le messe fossero da comunione, si era sentita compatita, dato che purtroppo – ne desumeva il prelato- a Roma non c’era più religione.
D’altra parte non si sentono anche oggi nuovi profeti di sventura denunciare con disperata presunzione la “mancanza di religione” di chi fa la comunione in processione verso l’altare, ricevendo la particola sulla mano, e non in bocca, bene inginocchiato alla balaustra e con il piattino sotto il mento? Questa percezione di una “mancanza di religione” dipende essenzialmente dal fatto che negli ultimi 40 anni abbiamo faticosamente ricominciato a sapere che la comunione è un rito comunitario (sic!)e non un atto di culto individuale. Il nostro modello “devoto” di comunione rimane quello preconciliare, individualista, privato, borghese.
Questi non sono casi-limite, e lo dico per gli anni 50. Non per l’ oggi. Oggi questi sono casi umani, se va bene, o casi clinici, quando va male. La normalità ecclesiale del tempo – di quei tempi – viveva questi abusi come usi pacifici e percepiva spesso come abusi irreligiosi l’affacciarsi di pratiche che cercavano solo di riproporre una rinnovata fedeltà ai riti ecclesiali.
Questo non toglie nulla al valore esemplare che il ML ha avuto, già nel xix secolo e poi per tutto il 900, nel favorire esperienze diverse. In europa, già negli anni 10 e 20 vi erano esperimenti avanzatissimi della nuova sensibilità, prima nei monasteri e poi nelle diocesi e nelle parrocchie.
Ma il paradigma individualistico e formalistico di partecipazione ai riti è mutato universalmente solo con il Concilio Vaticano II.
Poiché l’unica ragione della Riforma liturgica che il Concilio ha solennemente inaugurato è la proponibilità concreta di un diverso modello di partecipazione, nel quale i “riti e le preghiere” possano diventare il canale primario e comune a tutti di espressione e di esperienza della appartenenza e della identità ecclesiale. I riti e le preghiere sono il luogo primario in cui Cristo e la Chiesa si incontrano e si riconoscono a vicenda. Tutti gli altri sono “ministri” di questa logica cristologica ed ecclesiale. Per questo il nuovo modello di partecipazione istituisce una diversa esperienza ecclesiale, in cui il clericalismo e l’individualismo su cui si era fondato il regime precedente – per necessità – viene superato e tradotto in una relazione ecclesiale che trae dai “ritus et preces” la intelligenza del mistero e di sé.
Alcuni abusi del paradigma tardo tridentino oggi non solo non sono più possibili, ma neanche più pensabili. Considerare e valorizzare bene il dono grande e sofferto di questa benedetta impensabilità ci consente di fare i conti appieno con il preconcilio liturgico, con quel purgatorio che si rivela pieno di problemi, esattamente come il nostro postconcilio. Solo che tra uno e l altro vi è un salto di paradigma, che muta il ruolo dei riti e la identità dei soggetti. Nel purgatorio postconciliare queste nuove acquisizioni sono esigenze dure, impegnative, che possono spaventare o illudere, ma che rimangono irrinunciabili per recuperare la verità dei riti e la identità dei cristiani. E proprio per questo mettono alla prova tutti, di generazione in generazione.
Ma la prova maggiore non sta nel riconoscere nuovi diritti e nuovi doveri ai soggetti, ma nel fare tutti insieme una nuova esperienza comune di dono. Cosa che nel preconcilio non era affatto assente, ma veniva declinata su altri registri, e non sapeva essere espressa ed esperimentata nella fitta trama rituale che allora avvolgeva certo integralmente la vita dei cristiani, ma rassegnandosi quasi sempre ad una forma troppo fredda e inevitabilmente clericale, e quindi con un impatto esistenziale spesso totalmente estrinseco. Questo è il purgatorio dal quale tutti abbiamo preso congedo definitivamente e che nessun atto, fatto, motuproprio o terraemotus potrà mai più ripristinare.
Va detto, a onor del vero, che già il preconcilio era cosciente di questa necessità di “superarsi”. Tutta la elaborazione liturgica che ha caratterizzato l’ultima parte del pontificato di Pio XII e il breve pontificato di Giovanni XXIII deve essere intesa proprio come quel “preconcilio” che ormai ha maturato la coscienza della insufficienza del proprio paradigma liturgico, non partecipativo e clericale. Solo così possiamo comprendere perché Giovanni XXIII, quando propose una nuova edizione del Messale Romano “tridentino” nel 1962 – proprio quel messale che oggi alcuni vorrebbero eternizzare artificialmente nella esperienza della Chiesa – lo fece con la lucida coscienza della sua costitutiva provvisorietà, in attesa di quegli “altiora principia” che il Concilio Vaticano II avrebbe presto o tardi elaborato per la vita ecclesiale del futuro. Anche il preconcilio, dunque, sapeva bene i propri limiti, e si disponeva a superarli con grande lucidità e onestà.
Dal nostro purgatorio post-conciliare guardiamo a quel vecchio purgatorio con la tranquilla coscienza che in esso troviamo pur sempre la nostra radice, ma non senza quella progressiva estraneità che inevitabilmente si fa strada di fronte ad un modo di concepire e di vivere la liturgia, che per la grazia inattesa di un passaggio dello Spirito ci è stato per sempre risparmiato.
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