“Non ci sono ragioni che impediscano…” Il linguaggio nuovo del Sinodo e le questioni aperte su liturgia e donne


Molti sarebbero gli aspetti su cui dover dare accurata valutazione al testo di 155 proposizioni sinodali. Vorrei per ora limitarmi a due temi: al tema della “liturgia” e a quello della “partecipazione delle donne alla vita della Chiesa”. E’ utile cogliere la evoluzione dei contenuti, considerando le tre fasi di sviluppo recente: ossia la Relazione di sintesi del 2023, l’Istrumentum Laboris del luglio 2024 e infine questo testo conclusivo e autorevole. Di grande interesse è osservare come in una certa misura, sui due temi che considero, si debba registrare una significativa evoluzione nello stile e nella impostazione, anche quando il testo ha dovuto restare indeterminato, per non perdere il consenso della Assemblea. Sui temi che affronto, infatti, si trovano due tra le proposizioni che hanno ricevuto il maggior numero di voti contrari, anche se sono state approvate e quindi hanno acquisito autorevolezza di magistero.

a) La liturgia e la vita sacramentale

Alla lettura della Relazione di sintesi, di circa un anno fa era facile notare, sul tema liturgico, una certa involuzione del linguaggio e idee piuttosto confuse.

Anzitutto il riferimento alla liturgia appariva, per la prima volta, nel terzo capitolo, dedicato alla “Iniziazione cristiana” tra le “convergenze”. In realtà le “tradizioni liturgiche” sembrano assicurare una “pluralità” a fronte della unità del mistero sacramentale. Appariva qui, per la prima volta, una differenza tra sacramento e liturgia che appariva problematica e “vecchia”. La ripresa del riferimento liturgico tra le “proposte”, riferito in questo caso alla Eucaristia, introduceva il concetto di “autenticità”, che riprendeva piuttosto il linguaggio di “Liturgiam authenticam” che non la logica conciliare. La correlazione tra “dono” e “celebrazione” non veniva identificata adeguatamente dal concetto di “autenticità”. Un secondo elemento di “proposta” era identificato nell’adeguamento del linguaggio liturgico, che potesse essere meglio “incarnato” nella diversità delle culture. L’invito ad un ruolo maggiore delle Conferenze Episcopali veniva controbilanciato, in modo piuttosto ambiguo, dal richiamo alla “continuità” e alla “formazione”: non era chiaro, al documento, che la incarnazione è proprio al servizio della continuità e della formazione, non è una logica opposta o diversa. Il terzo punto, sempre in questo ambito di proposte, era la maggiore “gradualità” da sviluppare, nelle forme del culto liturgico comunitario, senza attribuire un ruolo esclusivo alla celebrazione della Messa. Anche qui, però, la confusione tra liturgia e pietà popolare, pur con tutte le sue ragioni, non sembrava aver chiaro il campo di sviluppo primario di ciò che è “liturgico” (liturgia della Parola, liturgia penitenziale, preghiera nel tempo…).

Altrettanto problematica appariva non solo la assenza della terminologia della “inculturazione” (citata solo una volta e in contesto non liturgico), ma la singolare interpretazione del rapporto tra iniziative di “adattamento del linguaggio” e “continuità della tradizione”. Qui emergeva con evidenza un pregiudizio, secondo il quale la continuità della tradizione implicherebbe la assenza di adattamento, mentre ogni adattamento comprometterebbe la continuità.

Il testo della Relazione finale cambia decisamente strada. Presenta la “materia liturgica” in una prospettiva diversa, proprio a partire da quelle evidenze che il Concilio Vaticano II ha riscoperto come decisive. Segnalo come i nn. 21-27, sotto il titolo Le radici sacramentali del popolo di Dio, presentino complessivamente la vita liturgica, e si chiudano con un numero che è tra i “meno votati”. Una relazione tra “liturgia” e “sinodalità”, per la quale si chiede addirittura la istituzione di un nuovo “gruppo di studio” (che sarebbe il n.11) apre uno sguardo significativo sul rapporto originario tra synaxis e synodus. La ricerca su una ecclesiologia liturgica sembra l’orizzonte più promettente per il lavoro di questo approfondimento sentito come dovuto.

b) La donna e la autorità nella Chiesa

Se ricostruiamo l’itinerario che va da ottobre scorso ad oggi, scopriamo che su questo tema si è passati da una condizione di grave disorientamento ad una formulazione piuttosto chiara dei passi che oggi risultano chiari e necessari. Non ritorno al testo disorientato e imbarazzato del n.9 della relazione di sintesi, ma segnalo come lo scorporo del tema, delegato a luglio al Gruppo di Studio n.5, non impediva, nell’Instrumentum Laboris, di sottolineare come, mentre la Assemblea non avrebbe dovuto occuparsi della questione, però il Gruppo di Studio n.5 avrebbe dovuto tenere presenti ed elaborare i risultati delle 2 Commissioni di studio istituite sul tema da papa Francesco.

Ciò che osserviamo, di fronte al testo piuttosto limpido elaborato dalla Assemblea del Sinodo (il n.60, che ha ottenuto il numero più alto di voti contrari, 97) è che ora abbiamo di fronte un quadro in duplice evoluzione, che può essere così riassunto:

– il tema della “partecipazione della donna alla vita e alla missione della Chiesa” non è stato integralmente delegato al gruppo 5, ma la Assemblea ha ritenuto di stendere un testo forte, chiaro anche se soltanto generale. In quelle righe si legge una delle frasi più nette che mai il Magistero abbia scritto:

Non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non si potrà fermare quello che viene dallo Spirito Santo. Anche la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta.”

– il gruppo n. 5, di cui abbiamo capito la natura “originale” – nel senso che non si tratta di un gruppo, ma del Dicastero per la Dottrina della fede, con i “suoi” gruppi e organi interni – sembra procedere con alcune scelte non condivise con il Sinodo. Da un lato, diversamente da quanto stabilito a luglio, sembra non tener conto dei risultati delle Commissioni sul diaconato, alle quali rimanda come un altro “gruppo di lavoro” con risultati ancora da produrre. Dall’altro sembra aver subito, al suo interno, una certa evoluzione, anche se tende ad assumere il “tema” della autorità della donna nella Chiesa in una lettura che oppone “ordine” e “giurisdizione”, riservando il proprio studio solo al secondo aspetto.

Potremmo dire, allora, che si è aperto un campo di lavoro che implica tre dimensioni di elaborazione: la espressione autorevole del n. 60 della Relazione finale, con la sua influenza, il lavoro della Commissione sul diaconato (con alcune conclusioni da pubblicare e con ulteriore lavoro da svolgere) e il Gruppo 5, che sta scrivendo un documento, sul cui schema iniziale, presentato alla Assemblea e contestato, ora sarà utile la convergenza di tutti i Consultori e i Membri, perché correggano quelle impostazioni troppo drastiche, che il nuovo testo del Sinodo rende di fatto superate.

c) In sintesi

Potremmo dunque dire così: quando la proposizione 60 del Sinodo dice che “non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida” sa bene che, pur non essendoci ragioni, ci sono leggi e tradizioni che alimentano pregiudizi contrari non solo alla ragione, ma alla stessa fede. Lavorare per “dare ragione” della autorità della donna nella Chiesa non può partire dalla esclusione della ordinazione, per favorire solo una residuale “guida amministrativa” della comunità. Come ha segnalato bene Umberto del Giudice, in uno dei primi commenti al testo (che si può leggere qui), questa deriva amministrativistica non sarebbe un grande risultato per una Chiesa che si voglia sinodale.

Qui il Vaticano II insegna meglio di alcuni giuristi che i tre “munera” (profezia-parola, regno-governo e sacerdozio-santificazione) riguardano tutte le membra del popolo di Dio. Pensare che alle donne possa spettare solo profezia e governo, ma non santificazione, è un punto cieco, che per ora il Gruppo 5 sembra assumere come indiscutibile, ma che la Assemblea sinodale ha chiaramente corretto e orientato in modo più coerente con il Vangelo e con la esperienza di uomini e donne. Non c’è ragione per lasciare la riserva maschile solo sulla santificazione. La donna può presiedere una assemblea di parole profetiche e di insegnamenti ecclesiali, può presiedere una assemblea di governo e di discernimento e può presiedere anche una assemblea liturgica, di culto e di santificazione. Oggi non c’è più ragione per impedirlo, anche se lo si è fatto per moltissimi secoli. Alle tradizioni malate prima o poi si sostituiscono tradizioni sane.

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