Nuova teologia eucaristica (/18): Hoc facite: Sintesi dell’Autore (di Zeno Carra /1)
Nel contesto del filone di post dedicati alla “nuova teologia eucaristica”, trovo particolarmente significativo che i prossimi post vedano una interessante alternanza tra i contributi di due teologi che appartengono a a generazioni diverse: Ghislain Lafont è del 1928, mentre Zeno Carra è del 1986. Entrambi hanno deciso di intervenire con una serie di contributi particolarmente nuovi e che non mancano di suscitare interesse, ammirazione e discussione. Inizia con questo post una serie di tre interventi di Z. Carra, del quale ho presentato già il volume in forma di 4 recensioni, e che ora l’autore stesso offre qui in una sintesi originale, che Don Zeno ha deciso di scrivere per questo blog. Di questo lo ringrazio. La alternanza tra la prosa lineare e sapiente dell’esperto monaco e professore francese, e l’approccio teoretico nuovo e originale del giovane teologo veronese, offrono una immagine convincente della riflessione cattolica sul centro eucaristico della esperienza liturgica, sacramentale ed ecclesiale.
Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo
Sintesi dell’autore (/1)
di Zeno Carra
Questo scritto si offre come invito alla lettura del saggio di cui porta il titolo. Non vuole dunque esserne un riassunto dettagliato, ma – a mo’ di antipasto – indicare una, tra le centrali, delle istanze perseguite dal libro.
Si tratta della questione sul rapporto tra Dio e la “realtà”, questione amplissima, di cui lo scritto vuole indagare un luogo chiave per la fede: l’evento eucaristico.
“La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti”: così scrive il papa in Lumen Fidei, 17. L’eucaristia è luogo privilegiato in cui tale rapporto si gioca, ma forse anch’essa risente di questo iato che il papa denuncia: la progressiva disaffezione di tanti cristiani alla pratica eucaristica, da alcuni decenni in qua, non mostra che nel sentito comune anche questo evento centrale della pratica credente sta perdendo il suo ruolo di articolazione tra Dio e la nostra vita, tra l’azione di Dio e la realtà concreta della storia dei nostri giorni?
L’analisi dei fattori in gioco in tale fenomeno chiama in causa molti campi del sapere: sociologia, storia, teologia, etc. Il nostro saggio limita la sua domanda al ruolo che la teologia ha in questo: il sistema teologico con cui diciamo, pensiamo, insegniamo l’evento eucaristia può avere una sua parte in quanto denuncia il papa? Ovvero: strutturiamo il nostro accesso pensante e la nostra prassi (nel loro mutuo generarsi) al fatto “eucaristia” in un sistema che forse non regge più adeguatamente l’istanza centrale a questo dato del vissuto cristiano, che cioè Dio in essa tocchi e agisca la mia vita effettiva?
La tesi sostenuta è questa (e come tesi viene offerta alla critica dei lettori): che l’impianto classico della nostra teologia eucaristica non sorregga più adeguatamente, nel presente di questa cultura, il fatto della “realtà” di ciò che la fede confessa per l’eucaristia.
Prima di procedere, occorre fare una premessa: per poter veramente ascoltare la proposta che il libro avanza è necessario mettere sotto critica, almeno come ipotesi di lavoro, uno schema preriflesso che agisce potentemente tra i “pregiudizi” del lettore cattolico: l’idea cioè che la teologia si divida in due campi opposti, nettamente separati da una linea di demarcazione, e che i fattori, che automaticamente collochiamo nei due campi, perseguano tutti unanimemente lo stesso scopo, combattano tutti sotto la stessa bandiera (le due bandiere sarebbero, ovviamente, in lotta tra loro). Le schiere opposte sarebbero le seguenti:
Teologia tomista; filosofia classica (metafisica platonico-aristotelica) intangibilità del deposito teologico acquisito; conservazione acritica e sviluppo del pensiero per “accumulo”.
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Esperimenti teologici recenti; filosofie moderne (fenomenologia); proposta di revisione degli schemi teologici; rilievo delle criticità nella teologia e nella prassi credente e sviluppo del pensiero per “cambio di paradigmi”. |
Le bandiere per cui queste schiere guerreggerebbero sarebbero la custodia sicura delle verità sempiterne della fede, sul primo versante; il dissolvimento relativista della fede cattolica e la sua dissoluzione nel magma indistinto della cultura contemporanea, sul secondo.
È un sistema di precomprensione che agisce potentemente in noi, indotto certamente dalla storia ecclesiale, dai vissuti, dalla necessità operativa di un pensiero chiaro e distinto che permetta di procedere con scioltezza nelle questioni, etc. Ma è altresì un pregiudizio che impedisce di fare teologia e di dialogare per la ricerca comune della verità. Ci si schiera nell’uno o nell’altro campo e si dà per assodato il fine de “gli altri”.
Occorre presupporre che le cose siano più complesse e che il pensiero teologico e la prassi ecclesiale non siano così nettamente semplificabili; occorre permettersi di presupporre che quanto io automaticamente colloco in uno schieramento, custodisca e promuova invece istanze che con sicurezza io attribuisco ai fattori dello schieramento opposto, e viceversa.
Sull’oggetto messo in analisi, il rapporto Dio-realtà condensato nello snodo della presenza eucaristica reale di Cristo, il saggio procede in tale direzione: porre sul tavolo della discussione l’ipotesi per cui la teologia classica, cioè il sistema tomista, con cui per circa sette secoli abbiamo strutturato questo dato di fede, non regga (più) adeguatamente oggi il fatto che tale presenza sia, appunto, “reale”, che tocchi effettivamente la concretezza della vita dell’uomo. E che dunque sia urgente che la teologia pensi categorie altre da offrire alla prassi spirituale dell’uomo d’oggi perché egli non smarrisca uno dei tesori centrali della sua esistenza credente: l’eucaristia.
Procediamo in medias res: perché la sistematica tomista sull’eucaristia (Summa Theologiae, III pars, quaestiones 73-83) non reggerebbe più il fattore “realtà” della presenza di Cristo?
La risposta si colloca su due piani: il primo interno al sistema teologico dell’Aquinate [di seguito]; il secondo nel mutato contesto culturale del secolo ventesimo in cui la sua teologia viene recepita come “la” dottrina sull’eucaristia [nel prossimo intervento].
1. Sul primo piano della questione, Tommaso, per trovare una terza via alla teologia del suo tempo, chiusa nel vicolo cieco dell’alternativa tra fisicismo e spiritualismo, utilizza quanto gli offre la metafisica di Aristotele, filosofia che si sta affacciando sullo scenario del pensiero europeo. Per giustificare la presenza di Cristo al sacramento eucaristico, egli suddivide il dato tra i due livelli con cui viene spiegato ogni ente: sostanza come livello stabile e fondante, che conferisce l’identità alla cosa, ed accidenti, come determinazioni mutevoli, soggette alla storia dell’ente, che si innestano nella sostanza. La celebrazione eucaristica (nel proferimento del racconto di istituzione) produce il mutamento di pane e vino a livello della sostanza: la sostanza di corpo e sangue di Cristo prende il posto della sostanza di pane e vino, continuando però a sussistere gli accidenti precedenti: species di pane e vino (quaestio 75). Le sostanze del corpo e sangue di Cristo soggiacciono agli accidenti di pane e vino ma non li sorreggono come facevano le loro sostanze proprie, in quanto ad essi disomogenee. In tal modo gli accidenti di pane e vino sussistono indipendentemente dall’essere venute meno le sostanze a loro proprie (q. 77).
In quest’uso della metafisica aristotelica dell’ente, Tommaso vi opera una notevole forzatura: in natura non si dà il caso di accidenti sussistenti senza la sostanza loro propria. Infatti egli ne giustifica la possibilità chiamando in causa il miracolo della potenza creatrice di Dio (q. 77, art. 1).
Così facendo Tommaso introduce uno iato insuperabile tra i due livelli dell’ente dopo la consacrazione, iato non previsto nel sistema metafisico che lui utilizza. Normalmente, dagli accidenti, colti con i sensi, la gnoseologia aristotelica prevede che l’intelletto possa scendere al livello fondante della sostanza. Nel caso eucaristico ciò non è più possibile: accidenti di pane e vino non sono più mediazione inferenziale alla sostanza che ora “contengono”, in quanto non è la loro propria. Alla sostanza di corpo e sangue di Cristo si accede solo mediante la fede, ossia, nel sistema di Tommaso, mediante l’adesione di intelletto mosso dalla volontà agita dalla grazia (S. Th. II – II, q. 2, a. 9). Il passaggio naturale nella gnoseologia aristotelica sensi intelletto è interrotto nel caso eucaristico. I sensi si fermano al livello “esterno” della cosa. L’intelletto vi accede per altra via: per la mozione interna della fede (S. Th. III, q. 75, a. 1; q. 76, a. 7).
Questa impostazione si vede bene dove Tommaso si domanda se sia possibile individuare localmente la sostanza di Cristo nell’ostia consacrata: mentre è possibile dire che la sua presenza è correlata all’ostia e non a ciò che le sta attorno (altare, suppellettili, etc.), non è però possibile “localizzarla”, ossia indicare la datità sensibile dell’ostia sull’altare come spazio della presenza: gli accidenti del pane non consentono all’intelletto il passaggio di localizzare la sostanza del corpo di Cristo, perché essa non sorregge quegli accidenti come faceva invece prima la sostanza del pane (q. 76, a. 5).
Queste, che sembrano sottigliezze metafisiche, si ripercuotono in modo più eclatante sulla spiritualità della prassi connessa all’eucaristia: la sistematica esclusione di ogni atto storico (in quanto accede solo al livello sensibile-accidentale) dall’essere rilevante per il fatto della presenza di Cristo. Quanto si fa su pane e vino arriva al livello delle specie, non varca lo iato abissale tra le specie e la sostanza del corpo e sangue di Cristo: “visus, tactus, gustus in te fallitur, sed auditu solo tuto creditur”, canta l’inno Adoro Te devote. L’udito, inteso come veicolo per la verità di fede cui aderisca l’intelletto, è ciò che rimane in gioco. Tutto il resto cade! Anche l’azione liturgica diventa periferica, in quanto atto storico, che dunque non raggiunge il nucleo essenziale. Essa si riduce a preparazione didattica e a devoto rendimento di grazie per ciò che accade al suo centro: la presenzializzazione sostanziale (q. 83). Solo un piccolissimo tratto del rito resta rilevante: le parole della consacrazione. E non tutte quelle che il canone riporta ma solo la sezione predicativa dell’identità degli enti: “Hoc est corpus meum – hic est calix sanguinis mei” (q. 78). Una piccola diastasi temporale ed un segmento di azione (il proferimento di tali parole), su cui comunque ci si pone la domanda: “a che punto avviene la mutazione sostanziale?” (q. 78, a. 6). Tra le azioni disabilitate ad essere accesso alla presenza vi è anche la manducazione (gustus et tactus), che infatti nel sistema tomista è raccomandata per il solo fatto giuridico che Cristo ha comandato così: manducate. Per la sussistenza coerente del sistema teologico è tuttavia sufficiente un accesso mentale (la comunione di desiderio) ad un evento puntuale che in sé è compiuto: la presenzializzazione nella consacrazione (q. 80).
Questa impostazione sarà generatrice di effetti non trascurabili: proseguirà il calo di accesso dei fedeli alla comunione sacramentale; aumenterà di importanza una fruizione diversa del sacramento, più consona all’accesso intellettuale che il sistema veicola: la visione adorante dell’ostia esposta (fruizione che non pone fine al fatto della presenza, come invece la manducazione, secondo il sistema tomista!); si svilupperà una prassi celebrativa più coerente con questo accesso intellettivo-metastorico per cui le azioni liturgiche restano “solo” al livello inferiore di segni indicativi: predilezione per la “messa bassa”, assistenza alla messa come momento di meditazione introspettiva anche mediante l’aiuto dell’esegesi allegorizzante degli atti liturgici.
In questo il sistema di Tommaso contribuisce a divaricare presenza di Cristo e storia dell’uomo: pur tenendoli legati assieme mediante l’analisi aristotelica della metafisica dell’ente, egli li divarica introducendo nell’ente (eucaristia) l’incolmabile iato tra sostanze del corpo e sangue di Cristo ed accidenti di pane e vino ad essi non consone. Tommaso utilizza il sostrato della filosofia aristotelica, in sé attento all’unità ontologica degli enti, ma introduce al suo interno una diastasi dualista, di marca piuttosto platonica, tra livello storico degli atti e dei sensi corporei e livello intellettivo dell’essere, in cui colloca la sostanza.
Il sistema di Tommaso reggerà comunque sino a quando la prassi liturgica effettiva della chiesa non verrà scissa dal fatto della presenza di Cristo (riforma protestante) e sino a che la cultura capirà l’essere della realtà secondo la Weltanschauung del mondo medievale, avendo quale referente teorico adeguato il sistema della metafisica classica (rivoluzione epistemologica del periodo Cartesio-Kant).
(continua – 1)