Nuova teologia eucaristica (/20): Hoc facite: Sintesi dell’Autore (di Zeno Carra /3)


Hocfacite

Con questo testo si conclude la “autopresentazione” che Zeno Carra ha proposto non tanto del suo volume, quanto di un “filo rosso” che lo attraversa tutto e che ci propone una questione decisiva. Come poter oggi assicurare alla “presenza eucaristica” un rapporto strutturale con la realtà? Questo intento, perseguito con lucidità, segna anche questa terza e ultima parte della riflessione del giovane teologo veronese.

Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo

Sintesi dell’Autore (/3)

 di Zeno Carra

Sul finire dello scorso intervento, in cui raccoglievamo le piste promettenti della teologia del ‘900 quanto alla nostra questione, si rilevava come esse furono in parte bloccate dall’intervento della Mysterium Fidei di Paolo VI.

 3. Se, tuttavia, da un lato, l’intervento magisteriale sui neonati tentativi della dogmatica (dovuto certamente anche al clima di disordine “creativo” che scosse la chiesa di quegli anni) li ha, per così dire, congelati sul nascere, dall’altro lato il magistero stesso, attuando la riforma liturgica richiesta dal Concilio Vaticano II ha ridato pertinenza alle loro istanze sul piano della prassi liturgica. Abbiamo notato in tutte le tre aree esposte in precedenza l’attenzione a riportare al centro l’azione (fenomenologia del rito e della cena) come costitutiva del sacramento. Ebbene, tale istanza (volutamente?) non restò disattesa: Sacrosanctum Concilium affermò autorevolmente che la “partecipazione” (= prendere parte all’azione liturgica) al sacramento non è un fattore secondario (come nell’impianto tomista) ma ad esso essenziale. Agire l’azione liturgica non è stare su un livello secondo del sacramento, ma entrare nel suo cuore “essenziale” (Sacrosanctum Concilium 11; 14; 47-48).

Il Missale Romanum riformato da Paolo VI, poi, opera un cambiamento sottile ma significativo proprio su quella sezione della Messa ritenutane il cuore nell’impianto tomista: le parole della consacrazione. Entrando nel racconto di istituzione il presidente non deve più soffermarsi solamente su quelle parole che Tommaso indicava come essenziali (quelle predicatorie della conversione della sostanza: “Hoc est corpus meum – Hic est calix sanguinis mei”), ma anche sui verbi di azione “Accipite et manducate – Accipite et bibite”, che prima erano ritenuti irrilevanti alla conversione sostanziale. Nel punto centrale dell’eucarestia (secondo il sistema tomista) le azioni entrano come essenziali e non restano più solo rivestimento accidentale e secondario!

 Da questo rapido (e certamente incompleto) excursus sui movimenti teologici del secolo ventesimo in materia, possiamo raccogliere preziose indicazioni per abbozzare un percorso di ripensamento della sistematica eucaristica.

Si nota una singolare convergenza sul modo nuovo di accedere alla realtà, si raccolgono i segni di una nuova “ontologia” che permetta di uscire dall’impasse in cui la svolta della modernità ha collocato la metafisica aristotelico-tomista dell’ente. Se la “realtà” delle cose giace sull’orizzonte della storia, della datità effettiva di ciò che esperiamo (“res extensa”); se non è più possibile né necessario supporre un mondo a “due livelli” (G. Bonaccorso); se il livello prima ritenuto fondante (la sostanza) è spostato ora a livello di interpretazione di quello che prima era ritenuto il livello secondario (gli accidenti: la storicità), e, di converso, questo è ora colto come il fulcro unico della “realtà” … allora la riflessione del secolo ventesimo ha intuito la via per pensare l’essere delle cose in questa nuova Weltanschauung: la considerazione fenomenologica delle connessioni relazionali tra le cose sul piano della storia, dell’esperibilità. L’essere delle cose sta nella rete di relazioni storiche in cui una cosa è collocata, da cui sorge ed in cui diviene se stessa: l’essere si è per così dire “estroflesso” e giace sul piano unico di questa creazione che è datità effettiva ed esperibile. Fare attenzione alle azioni che riguardano una data cosa non è dunque stare su un livello secondario per quella cosa (accidentale), esterno al suo nucleo vero (sostanza): è invece cogliere i costitutivi relazionali da cui la tale cosa è se stessa.

Le azioni che investono quel pane e quel vino lo costituiscono in ciò che esso è e diviene: il rito, la celebrazione come forma coerente di azioni, non è la cornice al dato della presenza di Cristo: ne è il luogo generatore.

La categoria di forma emerge dunque come centrale in questo nuovo abbozzo di ontologia: l’insieme complesso di relazioni agite su quel pane e quel vino, ossia la messa, costituiscono lo spazio, o meglio, il processo in cui si dà la presenza reale di Cristo.

Fare su pane e vino quelle quattro azioni che Cristo nella sua cena ha fatto (accepit, gratias egit, fregit, dedit dicens…) e che ha prescritto di compiere ritualmente (“Hoc facite”) inscrive ancora ogni volta in questa nostra storia, nell’ambito concreto ed esperibile della realtà, quella forma quadripolare che egli ha dato, la stessa che egli ha tracciato per dare forma a quello che di lì a poche ore sarebbe accaduto: la croce. Compiendo quelle quattro azioni su pane e vino, Gesù ha predisposto la forma con cui stava per lasciarsi crocifiggere: sacrificio come assunzione della propria datità creaturale (accepit), come rendimento di grazie al Padre su di essa (gratias egit), come consegna proesistente agli altri a detrimento di sé (fregit et dedit). Forma con la quale dare ai suoi accesso perenne a quell’evento ogni volta che l’avrebbero fatta: “Haec quotiescumque faceritis, in mei memoriam facietis”. In tale forma egli condensa la sua vicenda terrena e secondo tale forma la compie sulla croce: morendo così egli sigilla la sua umanità in tale disposizione, e la risurrezione, intervendo su Colui che è morto così, escatologizza eternamente la sua umanità così conformata. Ecco perché ogni volta che si fa quello, che si agisce tale forma connettendo così, per mano della chiesa, elementi della realtà creata – uomini e cose, pane, vino e cristiani – questa realtà viene connessa a Colui che così sta escatologicamente disposto e proteso verso di noi. La storia viene connessa ogni volta al Crocifisso Risorto, o, di converso, emerge ancora nella storia Colui che, così morto e così risorto, così è legato alla realtà.

Agendo nella realtà la forma consegnata nella cena, forma dell’oblazione in croce, che è quindi la forma escatologica di Cristo, nelle connessioni conformanti questa stessa realtà Cristo si fa realmente presente.

 Ritornando a porre il focus dalla cristologia alla sacramentaria, rileviamo alcune connotazioni di questo abbozzo di ripensamento della presenza reale.

  • Presenza che non si inserisce “dentro” gli enti di pane e vino (“contineri in”), in quanto per lo sguardo dell’uomo moderno non c’è un “dentro” / “sotto” metafisico ad ogni ente: la realtà è questa, ad un solo piano. Ma presenza che si realizza come instaurazione oggettiva di relazioni, connessioni, attorno al pane e vino, di cui pane e vino sono il nodo ineludibile. Solo di essi si può fare ciò che Cristo ha comandato di fare: senza essi cade il complesso di nessi agiti che è il rito della messa. Presenza dunque che non può darsi a prescindere / a monte di pane e vino, ma che si dà proprio in quanto su pane e vino si fanno quelle quattro azioni1.

  • Presenza che non sfuma nel finire delle quattro azioni (dopo la celebrazione), in quanto non viene meno parte di quel pane su cui sono state fatte, pane che ora non è più quello di prima perché ha attraversato quel complesso formale di quattro azioni.

  • Ma al contempo presenza che non può prescindere dall’accesso dei fedeli ad essa: il manducare è la realizzazione del quarto vettore – “dedit discipulis suis” – essenziale al darsi compiuto della forma. Ed infatti nella tradizione non si è mai data messa in cui almeno uno non mangiasse di quanto si consacra!

  • Presenza che, in quanto insiste su una rete di azioni, introduce come soggetti necessari i partecipanti: non spettatori supererogatori a qualcosa che è dato a prescindere da loro, ma agenti – ciascuno a suo titolo – di ciò che va agito perché la presenza emerga nella realtà.

  • Ma, al contempo, presenza che non viene risolta nel “per noi” delle loro intenzioni: pane e vino sono oggettivamente agiti al di là della mia inferenza mentale. Essi non sono “segni”, meri portatori di un significato la cui sussistenza sta solo nell’intelletto di chi li legge: essi sono cose reali su cui e con cui realmente si fa qualcosa nella loro concretezza materiale; ci sono azioni storicamente compiute sulla cui oggettività non si può discutere. Su quel pane e su quel vino si sono fatte quelle quattro azioni e quindi essi – per una constatazione fenomenologica (dunque ontologica!) – non sono più il pane e il vino di prima.

 Questa, in sintesi, la tesi proposta dal saggio “Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo” per ridare spazio, nella cultura di oggi e con i suoi accessi epistemologici alle cose, all’istanza cattolica della “realtà” della presenza eucaristica di Cristo.

(fine -3)

1 Pane e vino secondo il sistema tomista non sono ultimamente più rilevanti dopo la consacrazione. Di loro restano solo gli accidenti: segni indicatori inadeguati di una sostanza sempre eccedente che non li sorregge. Paradossalmente, che nella messa si usi pane e vino non importa se non per il motivo de iure che Cristo li ha scelti: il fatto della presenza non attiene intrinsecamente per nulla a ciò che riguarda pane e vino come tali (venire dalla terra e dal lavoro umano; essere mangiati e bevuti nella condivisione).

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