Nuova teologia eucaristica (/3): Il miracolo e la parabola (M. Rouillé d’Orfeuil)
Una lettura originale e profonda della tradizione patristica e medievale sulla eucaristia ci viene proposta da un giovane teologo francese, che utilizza cose nuove e cose antiche per costruire una meditazione raffinata e toccante. Matthieu Rouillé d’Orfeuil è formatore presso il Pontificio Seminario Francese di Roma, docente incaricato all’Università Gregoriana. Ha pubblicato la sua tesi di dottorato: Lieu, présence, résurrection – Relectures de phénoménologie eucharistique, nella collana “Cogitatio Fidei” 300, le Cerf, Paris, 2016.
Presenza eucaristica: il miracolo e la parabola
Ciò che i vangeli sinottici chiamano “miracolo” (dunamis), Giovanni lo denomina “segno” (sèmeion) per sottolineare che il fatto straordinario rinvia anche a cose del mondo quotidiano, che non è soltanto un’argomentazione da attribuire alla potenza taumaturgica di Gesù, ma che contiene una chiave di lettura del reale ed indica, a chi sa vedere, una verità in più, di natura spirituale. Vorrei, quindi partire dal primo dei “segni” che Gesù compie : cambiare l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11). Se si preferisce rimanere incantati dal “miracolo”, si pensa che non è possibile cambiare in un istante dell’acqua naturale ed insipida in una bevanda forte e piena di sapori, a meno di essere un prestigiatore di grande talento. Ma se si vuole contemplare il “segno”, uno diventa libero di vedere anche un’altra cosa. Non c’è forse, nel nostro mondo ordinario, qualcosa che sia capace di cambiare dell’acqua in vino, dell’acqua piovana, fredda e triste, in vino delizioso ed allegro ? La risposta ci sfugge per la sua evidenza : per cambiare dell’acqua in vino, basta una vite e un vignaiolo. Ciò richiede di solito un po’ più di tempo rispetto a ciò che fecce Gesù a Cana ; ma questa conversione dalla pioggia sgradevole in bevanda di festa non ha nulla d’inconsueto. Questa transustanziazione (giàcché si può giustamente chiamarla così) che cambia tutta la sostanza dell’acqua nella sostanza del vino è un processo che avremmo torto a non riconoscere prima di tutto nella vita ordinaria degli uomini del Medio Oriente che sapevano per esperienza autentica come la pioggia è rara, come la vite è fragile, come la fermentazione dell’uva è delicatissima, e com’è preziosa la gioia. Per cambiare l’acqua in vino, occorre dunque una vite e un vignaiolo.
Proseguendo la mia lettura del Vangelo di Giovanni, trovo questa parola di Gesù, al termine dell’ultimo pasto : « Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo » (Gv 15,1). Se il quarto vangelo non presenta il racconto dell’istituzione dell’eucaristia nello stesso modo in cui lo fanno i sinottici, sarebbe comunque uno sbaglio non capire tale dichiarazione d’identità di Gesù prima di morire, come una parola eminentemente eucaristica. Nel consegnare ai suoi apostoli la parola fine delle nozze di Cana, Gesù dice chi è lui, la vite, indica chi è il vignaiolo, suo Padre, e suggerisce che il pasto pasquale che ha voluto come rivelazione del suo amore eccessivo, « fino alla fine » (Gv 13,1) era il compimento gioioso di un’alleanza, la celebrazione di nozze nuove ed eterne alle quali il vino e la gioia non sarebbero mai venute meno.
Laddove il “miracolo” affascina come una cosa straordinaria, il “segno” rinvia alla Chiesa-Sposa, come segno dell’alleanza, « il sacramento dell’unione intima con Dio e dell’unità di tutto il genere umano » (cf. LG 1).
Nutrizione e metabolismo.
La questione successiva appare assai prevedibile : che cosa può cambiare del pane in corpo, del vino in sangue ? Esiste forse un fenomeno naturale, ordinario, che realizza ciò ? Così formulata, l’enigma diventa semplicissimo : ciò che cambia il pane in corpo ed il vino in sangue è ovviamente questo processo vitale che assimila i prodotti alimentari che mangio per farli – non soltanto “miei” – ma per farli “io”. Ciò che si chiama il “metabolismo” (cioè : ultra-cambiamento) può molto bene dirsi anche transustanziazione. Tutta la sostanza del pane che mangio è cambiata nella sostanza del mio corpo ; e tutta la sostanza del vino che bevo è cambiata nella sostanza del mio sangue. Parlare così sembra una astuzia ; ma bisogna chiedersi se tale linguaggio sia realmente tradizionale. Veramente i teologi hanno riflesso in questa direzione sull’eucaristia e su questa conversione stupefacente di sostanze ? – oppure è soltanto uno gioco sottile ma così innovativo da non poter pretendere di spiegare nulla della storia dell’eucaristia ? Lo sappiamo bene, l’eucaristia è, nella Chiesa, una realtà del tutto tradizionale : Paolo ci ha trasmesso ciò che lui aveva ricevuto (cf. 1Cor 11,23), ed occorre dunque in sommo grado collegare anche il pensiero eucaristico, il discorso eucaristico, la spiritualità eucaristica ad una continuità di interpretazioni, a rischio di vedere ridotta tutta la teologia del sacramento che costituisce (secondo la parola di Ireneo, IV, 18,5 ; cf. C.C.C. 1327) la norma della nostra dottrina, ad una pericolosa leggerezza. No, mio compito è illustrare tutte le conseguenze patristiche e scolastiche delle immagini e dei simboli. Vorrei tuttavia indicare alcune pietre miliari, descrivere così la logica di tale tradizione che parte dal metabolismo per arrivare alla transustanziazione.
Inizio da un’osservazione di Tertulliano :
« Cosa è la carne, se non terra cambiata in forme proprie ? » « Quid [est] caro quam terra conversa in figuras suas ? » (Tertulliano, De carne Christi, IX, 2).
Tale osservazione sembra colpevole di ingenuità, se viene interpreta soltanto come un commento alla creazione di Adamo dall’argilla… ma supponendo tale credulità infantile da parte del teologo geniale, non siamo forse noi stessi ad essere ingenui ? Tertulliano non parla di una carne fatta di terra, ma di una terra cambiata in carne. Lui sa molto bene che la materialità dell’uomo non è quella di una statuetta ; ma vede bene anche, aldilà di ciò che sembra, che c’è un’affinità : una continuità e un cambiamento. Cosa cambia la terra in carne ? Il processo resta forse misterioso per l’uomo delle città ; ma un uomo della campagna lo sa molto bene. Il grano di frumento caduto in terra, che ivi muore, trae da questa tutto ciò che occorre per diventare spiga (Gv 12,24) ; la spiga raccolta e schiacciata fornisce la farina ; la farina mescolata d’acqua e cotta al fuoco diventa pane commestibile (Is 55,10) ; ed il pane mangiato diventa carne dell’uomo. Cosa è dunque la carne dell’uomo, se non un po’ di questa terra dalla quale il grano di frumento ha tratto la sua prima metamorfosi ; e fu condotto poi fino a diventare, in ultima e sublime transustanziazione, l’istanza biologica di un essere spirituale ? Se uno vuole usare un poco di filosofia scientifica, può andare a rileggere cosa dice Aristotele sulla nutrizione, e anche il commento di Tommaso d’Aquino su questo tema.
Aristotele, Della generazione e della corruzione, I, 5 ; 320 a 8 – 322 a 33. Tommaso d’Aquino, In libros De generatione et corruptione, I, 16, 3. J. Maritain, « Philosophie de l’organisme – Notes sur la fonction de nutrition » (1937), in Jacques et Raïssa Maritain, Œuvres complètes – VI, Edition publiée par le Cercle d’Etudes Jacques et Raïssa Maritain, Editions Universitaires de Fribourg – Editions Saint Paul, Fribourg – Paris, 1984 ; p. 981-1000.
Sarebbe del tutto sbagliato pensare che Tommaso d’Aquino, quando parla di “transustanziazione”, si interessi soltanto ad una trasmutazione fisica di un genere assai strano, cioè il cambiamento di una briciola di pane, qui posta sulla patena, in un boccone di carne (cambiamento tanto più paradossale per il fatto che, visibilmente, nulla viene mai cambiato). Tommaso sapeva molto bene ché l’eucaristia non è un caso d’illusionismo, ma vita di un corpo. Sapeva che la transustanziazione è anzitutto la realtà vitale, intima, di una carne visibile e sensibile, e non un gioco di prestigio sacerdotale, per quanto possa essere pio.
« i prodotti alimentari corporali sono cambiati nella sostanza di quello che se ne nutre » « alimentum corporale convertitur in substantiam eius qui nutritur » (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiæ, III Q. 73 a. 3 ad 2m ; cf. I Q. 119 a. 1).
E Bonaventura non dice altro :
« Non c’è vita per il corpo senza incorporazione dei prodotti alimentari che gli sono adatti (…) I prodotti alimentari mangiati passano nella sostanza del mangiatore per operare la sua nutrizione » « non est vita corpori absque incorporatione cibi convenientis ei (…) cibus comestus transit in substantiam et nutrimentum comedentis » (Bonaventura, De præparatione ad Missam, 13) « il pane nutre la carne o il corpo ; e il vino viene cambiato in sangue, che è la vita stessa » « Nam panis nutrit carnem sive corpus, et vinum transit in sanguinem, qui est sede animæ » (ibid., 2).
Una fenomenologia della carità.
Il corpo di cui parliamo, ovviamente, è la Chiesa. Pensando che, per i Dottori scolastici, la transustanziazione fosse un affare di cambiamento della “cosa-posta-là”, il pane in carne, il vino in sangue, si interpreta in modo erroneo ciò che era stato inizialmente pensato come un’immagine eloquente della vitalità del corpo ecclesiale. Se la Chiesa è viva, e se la Chiesa è organica (cioè strutturata in comunione gerarchica ove l’unità di missione suppone la diversità dei ministeri) – in una parola : se la Chiesa è un corpo, trae la sua vitalità, la sua crescita, la sua coesione, da alimenti che essa transustanzia e che diventano lei. Giacché la Chiesa è corpo “di Cristo”, ciò che essa transustanzia diviene appunto corpo di Cristo. Cosa dunque viene così transustanziato da questa materia del pane? Non sono certamente gli atomi di carbonio né le molecole d’acqua che, fisicamente, restano nello stesso stato prima e dopo della consacrazione. È piuttosto « il frutto della terra e del lavoro dell’uomo », questa convergenza di un’abbondanza della natura e di uno sforzo agricolo, la collaborazione del mondo puramente creato in una logica di fecondità naturale e di un uomo, operaio nella creazione, che dà a sé stesso i mezzi della sua sussistenza e della sazietà della sua famiglia, laddove il pasto è luogo di piacere e di parola, di convivialità e di rendimento di grazie. Se la nostra società del consumismo ha rimosso questa dimensione festosa, se la gioia del pasto e dell’amicizia è in gran parte scomparsa dalla nostra epoca individualistica, sembra opportuno che il rito eucaristico ne rimanga come un segno esistenziale e vivo, più di un mero vestigio : un “memoriale”. In cosa viene transustanziata quest’opera comune del mondo e dell’uomo ? Le definizioni dogmatiche del Concilio di Trento, cosí riprese da Paolo VI in Mysterium fidei, forniscono su questo argomento una vera chiarezza :
“corpo, sangue, anima e divinità” di Cristo sono presenti nel sacramento. « il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità, e, quindi, il Cristo tutto intero ». « corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Iesu Christi ac proinde totum Christum ». Concilio di Trento, Decreto sull’eucaristia [11 ottobre 1551] ; can. 1 ; C.O.D. 697. « Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente ». « totus atque integer Christus, Deus et homo, fit præsens ». Paolo VI, Mysterium fidei [3 settembre 1965] ; EE – 7, 883.
Nel passare attraverso la preghiera della Chiesa, l’abbondanza di questo mondo e gli sforzi degli uomini diventano Dio. Di nuovo, uno potrebbe stupirsi in perpetuum su questo miracolo metafisico : una sostanza inanimata e minimale che diventa l’atto puro stesso, che materializza in se il Dio-Spirito… Risulta ovvio che tale fascino per l’oggetto eucaristico fa perdere di vista la realtà stessa. La transustanziazione non produce nel nostro mondo “una-cosa-che-è-Dio-increato”. Instaura piuttosto nel corpo della Chiesa questa coerenza armoniosa, questa relazione reciproca che è la carità – e Dio è carità. Una parola di sant’Agostino lo spiega con un’eloquenza breve che sembra meglio di ogni discorso :
« “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, poiché l’amore è da Dio e chi ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, poiché Dio è carità”(1Gv 4,7-8). Questo modo di parlare è abbastanza chiaro, che mostra, con tale autorità, che questa carità fraterna (poiché la carità fraterna è questa con cui ci amiamo l’un l’altro) non soltanto viene da Dio, ma che è Dio ».
« “Dilectissimi, diligamus invicem, quia dilectio ex Deo est ; et omnis qui diligit, ex Deo natus est, et cognoscit Deum. Qui non diligit, non cognovit Deum ; quia Deus dilectio est”. Ista contextio satis aperteque declarat, eadem ipsam fraternam dilectionem (nam fraterna dilectio est, qua diligamus invicem) non solum ex Deo, sed etiam Deum esse tanta auctoritate prædicari ». Agostino, De Trinitate, VIII, viii, 12.
Si può ancora fare finta di dimenticare che Tommaso d’Aquino se ne ricordava, e cercare in lui una metafisica della transustanziazione, che, in verità, sembra molto vicina ad un’idolatria della presenza. Ma si può riconoscere anche che, nella riflessione immensa e geniale sistemata da lui per provare a spiegare razionalmente l’azione sacramentale, non ha mai trascurato che la “res” dell’eucaristia, cioè la sua realtà più significativa, è l’unità della Chiesa nella carità. Ghislain Lafont commenta così un brano della Summa Theologiæ (III Q. 67 a. 2) :
« Vi troviamo all’inizio una definizione dell’eucaristia nella sua relazione alla Chiesa : “sacramentum ecclesiasticæ unitatis” ; ed il testo ci indica poi in quale senso reale, intenso, bisogna intendere quest’espressione : della celebrazione eucaristica viene detta “operari totum”. In altri termini, se l’eucaristia significa l’unità della Chiesa, ne è anchè la causa, ciò essendo del tutto conforme alla teologia sacramentaria di san Tommaso. L’unità della Chiesa è il frutto della celebrazione eucaristica, o anche : l’eucaristia fa la Chiesa nella sua unità. Tutte quest’espressioni indicano una dottrina costante presso l’Angelico : la “res” dell’eucaristia non è nient’altro dall’unità della Chiesa ». G. Lafont, Structures et méthode dans la « Somme Théologique » de saint Thomas d’Aquin ; (1961), Cogitatio Fidei n° 193, le Cerf, Paris, 1996 ; p. 457 ; cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiæ, III Q. 67 a. 2 ; Q. 73 a. 2-5 ; 74, 1…
Non si tratta dunque di vedere solo che cosa opera la sussistenza vitale della Chiesa ; occorre piuttosto riconoscere, con uno stupore molto più lucido e profondo di un mero prodigio della materia, che l’unità della Chiesa è, per il mondo e nel mondo, una grazia di presenza. La teologia eucaristica ha così compiuto un passaggio, un “transitus” ammirevole che ha rilievo per la definizione della teologia “tout court”. Si può dire, in un certo senso, che la teologia è un’indagine sul credere, un’introspezione del credente (un’ « analysis fidei », come diceva Gregorio di Valenza). In questa prospettiva, ci si può chiedere : “cos’è credere nella presenza di Cristo nell’eucaristia ?” ; si può trarre da tale domanda una conoscenza adeguata, scientifica, del dogma eucaristico. Vengono esaminati allora i testi ; ci si interroga sul significato preciso di questo « est », così misterioso nell’asserire che « questo è il mio corpo » e nel realizzare allo stesso tempo che questo sia il corpo di Cristo. Ma sarebbe assai insufficiente. Poiché la teologia è più ancora una fenomenologia della carità e l’atteggiamento primordiale del teologo è questo meravigliarsi, ancor più esclamativo che interrogativo. In un mondo così violento ove la costatazione dell’amore non può passare se non per lo stupore, « da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). La teologia si fa così.
P.A. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di Teologia fondamentale, BTC85, Queriniana, Brescia, 2000 ; p. 70-77 ; su Gregorio da Valenza, p. 72 ; n 24) Id., « L’affidabilità dell’amore », Anthropotes 33 (2017) ; p. 25-43.
[…] “La questione successiva appare assai prevedibile : che cosa può cambiare del pane in corpo, del vino in sangue ? Esiste forse un fenomeno naturale, ordinario, che realizza ciò ? Così formulata, l’enigma diventa semplicissimo : ciò che cambia il pane in corpo ed il vino in sangue è ovviamente questo processo vitale che assimila i prodotti alimentari che mangio per farli – non soltanto “miei” – ma per farli “io”. Ciò che si chiama il “metabolismo” (cioè : ultra-cambiamento) può molto bene dirsi anche transustanziazione. Tutta la sostanza del pane che mangio è cambiata nella sostanza del mio corpo ; e tutta la sostanza del vino che bevo è cambiata nella sostanza del mio sangue. Parlare così sembra una astuzia ; ma bisogna chiedersi se tale linguaggio sia realmente tradizionale. Veramente i teologi hanno riflesso in questa direzione sull’eucaristia e su questa conversione stupefacente di sostanze ? – oppure è soltanto uno gioco sottile ma così innovativo da non poter pretendere di spiegare nulla della storia dell’eucaristia ? Lo sappiamo bene, l’eucaristia è, nella Chiesa, una realtà del tutto tradizionale : Paolo ci ha trasmesso ciò che lui aveva ricevuto (cf. 1Cor 11,23), ed occorre dunque in sommo grado collegare anche il pensiero eucaristico, il discorso eucaristico, la spiritualità eucaristica ad una continuità di interpretazioni, a rischio di vedere ridotta tutta la teologia del sacramento che costituisce (secondo la parola di Ireneo, IV, 18,5 ; cf. C.C.C. 1327) la norma della nostra dottrina, ad una pericolosa leggerezza. No, mio compito è illustrare tutte le conseguenze patristiche e scolastiche delle immagini e dei simboli. Vorrei tuttavia indicare alcune pietre miliari, descrivere così la logica di tale tradizione che parte dal metabolismo per arrivare alla transustanziazione” (l’articolo intero lo trovate qui http://www.cittadellaeditrice.com/munera/nuova-teologia-eucaristica-3-il-miracolo-e-la-parabola-m-ro…). […]
Gent.mo dott. Grillo,
ormai davvero non basta più il tempo per rincorrere le continue interpretazioni e sovrainterpretazioni del Mistero Eucaristico che Lei ci propone.
Mi permetto di comunicarLe che questo profluvio, se da un lato mi sconcerta e mi lascia perplesso, dall’altro mi conforta: stanno uscendo alla luce tutte le contraddizioni di una teologia che, almeno da un secolo, tenta di ridurre a mero simbolismo il Sacramento, con la scusa della comprensibilità, dell’avvicinamento al popolo, della sponsalità, della convivialità e dell’unità.
Unità che viene sventolata ormai, in ambito teologico ed ecclesiale, come un mantra da obiettivo politico, il cui ultimo fine è stato ben descritto già nella profetica enciclica Humanum Genus del 1884.
Non mi interessa emanare anatemi, quanto rilevare come certi germi maligni, che oggi un certo tradizionalismo ascrive al CVII, in realtà erano presenti molto tempo prima. Lei stesso, indirettamente, lo ha ammesso, nell’accurata interpretazione dei fondamenti giuridico-teologici dell’esortazione AL.
Un solo appunto: è vero che l’Eucarestia (interessante notare come negli articoli dei suoi corrispondenti sia spesso con iniziale minuscola…) è Sacramento di Unità, ma questo appare come conseguenza del Fatto primordiale, il suo proporsi come vero Corpo e vero Sangue di Cristo.
Partire dalle conseguenze (pur importanti) per farne nuova causa di rifondazione del Sacramento in senso sostanzialmente simbolico (mangiare lo stesso pane significa dire che ci vogliamo tutti bene), non mi sembra un’operazione giusta, ma solo un tentativo pretestuoso di distrarre il sensus fidelium con battute accattivanti.
Con i migliori auguri,
Matteo Benedetti
Caro Matteo
Questa rassegna mostra la vitalità del pensiero cattolico sull’eucaristia. Gli autori sono ottimi docenti. I suoi giudizi si spiegano solo con una grave incomprensione della tradizione eucaristica da parte sua. Legga senza pregiudizi. Altrimenti nei diversi autori trova solo le sue paure.
Care cose
AG
Mi sia consentito un solo appunto per diramare una questione. Chi di professione è teologo dovrebbe conoscere alcuni criteri scientifici di composizione dei testi. Le iniziali maiuscole o minuscole non sono legate al sentire emotivo del singolo teologo, ma rispondono a criteri precisi. Vero è che sulle maiuscole e minuscole i linguisti non sono così in accordo, tuttavia l’Accademia della Crusca raccomanda un uso limitato delle maiuscole, soprattutto quando si tratta di parole ricorrenti (http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/uso-maiuscole-minuscole). Analogamente i criteri internazionali per la composizione di testi scientifici raccomandano lo stesso uso (http://publications.europa.eu/code/it/it-4100200.htm). Nelle case editrici cattoliche sono stati dati alcuni criteri. Le edizioni Dehoniane raccomandano l’uso del minuscolo per i misteri cristiani come l’eucaristia (http://www.associazionebiblica.it/materiale/NORME%20GRAFICHE%20RIVB%20_%20EDB.pdf). Stessa indicazione viene data dall’editrice Queriniana e da molte facoltà teologiche (es: http://www.fter.org/go/images/documenti/pdf/norme_x_elaborato_fter_versioneii.pdf). Io non sono un esempio di rigore sulla precisione nelle norme grafiche, ma posso assicurare che le conosco.
Dico questo perché l’accusa di usare la minuscola al posto della maiuscola è un’osservazione piuttosto ricorrente nelle critiche ricevute a diversi contributi in questa sezione. Da questo minuscolo dettaglio ne traggo una riflessione: la teologia non è il regno dell’emotività o delle convinzioni personali. La teologia ha un profilo scientifico che mi sento in dovere di salvaguardare. E’ un servizio ecclesiale, un ministero che richiede una sua iniziazione. Per fare teologia in modo professionale a oggi è richiesto un dottorato. Questo non significa che il teologo di professione debba vivere nella sua torre d’avorio con un certo gusto snob: gli è richiesto un serio lavoro di studio, la capacità di collaborare con colleghi nelle convenzioni dell’accademia, un ascolto profondo delle domande del popolo di Dio e una competenza divulgativa. Il teologo di professione ha tante terre sante, che richiedono che lui tolga i sandali e sappia che si avventura in luoghi dove la grazia di Dio agisce prima di lui: deve passare tempo in ginocchio di fronte all’eucaristia e alla Scrittura (in questo caso va maiuscolo, perché si usa una parola per antonomasia, mentre eucaristia non va maiuscolo perché è chiaro a cosa ci si riferisce!), ma anche tempo in ginocchio di fronte alle persone per le quali è chiamato a svolgere il suo compito, scoprendosi parte dell’agire dello Spirito. Per scrivere tre pagine un teologo dovrebbe aver letto diverse migliaia di pagine, aver ascoltato tante persone, essere inserito nella tradizione della Chiesa e… ricordare con umiltà che solo le parole del Signore non passano, le sue sì.
L’umiltà richiesta al teologo dovrebbe almeno andare di pari passo con quella di chi prova a leggere un testo di teologia. L’esempio della maiuscola e della minuscola è piccola cosa, ma dimostra come non riconoscere una “professionalità teologica” fa rischiare al minimo una figuraccia, fino a giungere a distribuire titoli e accuse infamanti senza alcun criterio di carità e con affermazioni davvero talvolta imbarazzanti.
Nell’articolo che ho proposto qualche giorno fa e che il prof. Grillo ha pubblicato non ho messo le note (che invece saranno disponibili nella versione definitiva in un libro): probabilmente questo ha indotto in confusione. Ma ogni singola affermazione può contare su una discreta bibliografia consultata. Mi permetto di rinviare ad essa:
– su un trattato sull’eucaristia un po’ “esausto” e sulle sue opzioni teoriche si veda G. Colombo, Teologia Sacramentaria, Glossa, Milano 1997 (regnante Giovanni Paolo II; postilla necessaria a dimostrare che non è così vero che certe cose “si ha il coraggio i dirle solo con papa Francesco”). Si veda anche S. Ubbiali, Il sacramento cristiano. Sul simbolo rituale, Cittadella, Assisi 2008 sulla “vitalità” del trattato sul sacramento.
– sulla nozione di simbolo, i critici degli articoli proposti usano la nozione come se fosse data per assodata. Sarei molto più prudente: il dibattito sulla nozione di simbolo è straordinariamente ricco. E, da quello che comprendo, noto molte convergenze che tendono a ritrattare l’idea che tra “simbolo” e “realtà” occorra istituire una dicotomia. E’ noto che in Agostino la nozione avesse una maggiore complessità (a chi non fosse noto consiglio la lettura di A. GERKEN, Teologia dell’eucaristia, Paoline, Alba 1977). Il prof. Grillo ha già fatto notare come le letture agostiniane e ambrosiane “classiche” richiedano diverse sfumature suggerendo il testo di E MAZZA, Continuità e discontinuità. Concezioni medievali dell’eucaristia a confronto con la tradizione dei Padri e della liturgia, CLV, Roma 2001. Sempre sulla nozione di simbolo, trovo illuminante il testo di P. Sequeri, Ritrattazioni del simbolico. Logica dell’essere performativo, Cittadella, Assisi 2012. Molto utile A. Grillo – S. Biancu, Il simbolo. Una sfida per la teologia e la filosofia, San Paolo, Milano 2013. Evito di addentrarmi in tutta la riflessione fenomenologia sul tema del simbolo perché sterminata, solo un classico: P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002.
– Sul fenomeno erotico si sono lette accuse davvero imbarazzanti. Invito a riflettere sulla differenza tra “eros” ed “erotismo”. Sull’uso della semantica erotica nelle pagine mistiche si può leggere il testo di A. Grun, Mistica ed eros, Ed. Berti, Piacenza 2012. Sull’uso nella tradizione del linguaggio dell’eros ho trovato utile C. Nardi, L’eros nei Padri della Chiesa, Adelphi, Firenze 2000. Molti studi contemporanei, con valide ragioni, ridiscutono la distinzione troppo marcata tra Eros, Agape e Philia. Forse il più noto, ormai un classico della fenomenologia, è J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, ed. Cantagalli, Siena 2007. L’accostamento delle semantiche del corpo e dell’eros (si badi, non dell’erotismo) non è una mia intuizione. A tal proposito si legga T. Radcliffe, Amare nella libertà. Sessualità e castità, ed. Qiqajon, Magnano 2007. Se il testo di Radcliffe ha un carattere più intuitivo, l’argomentazione è sviluppata in modo puntuale in E. Falque, Les Noces de l’Agneau. Essai philosophique sue le corps et l’euchaistie, Cerf, Parigi 2011.
– Sulla riflessione circa la corporeità, a partire da Husserl la bibliografia è sterminata. Si pensi a Lèvinas, a M. Henry, a Heidegger. E. Falque suggerisce la suggestiva immagine di “corpo espanso”che trovo molto interessante: essa integra le nozioni di korper, leib, chair (su cui la fenomenologia si è intrattenuta) nella nozione sintetica di un’esperienza multidimensionale della corporeità.
Il prof. M. Rouillé d’Orfeuil, a differenza mia, è stato molto preciso nel citare le fonti commentate. E vorrei ringraziarlo per la profondità del suo scritto, davvero illuminante.
Questo, sia detto, non aggiunge nulla alla bontà o alla poca bontà delle cose scritte. Solo spero possa rassicurare sul fatto che si prova a fare un lavoro serio. Con tanti limiti di cui sono consapevole. Questi temi vanno affrontati con grande umiltà, che si deve tradurre nelle ore di studio necessarie per orientarsi in problemi così complessi. E nel rendere ragione di ciò che si crede e si comprende. Ma assieme la professionalità del teologo impone il più fermo rifiuto di ogni fondamentalismo e di ogni semplificazione. E la carità impone il silenzio a fronte dell’arroganza di chi ha letto un libro o una pagina del Catechismo della Chiesa Cattolica e, invece che cercare confronto, riesce solo a partorire un attacco, che per definizione non intende udire risposta. Non basta aver letto il Catechismo per poter essere teologi di professione. E sarebbe auspicabile, per quanto non esigibile, che chi teologo non è abbia almeno la delicatezza di rispettare chi invece si sforza di vivere questo ministero. Chiedendo anche mille spiegazioni: il teologo gliele deve. Ispirando mille ricerche, a cui il teologo non si deve sottrarre. Non risparmiando obiezioni, che il teologo deve accogliere. Ma riconoscendo una competenza che, non per merito, ma appartiene a chi nella vita il teologo lo fa. Così come il teologo deve avere l’umiltà di sapere che è teologo, non tuttologo.
Mi sia consentito chiudere con un testo a cui sono molto affezionato:
«Quanto a noi, vorremmo poter senz’altro professare un amore incondizionato della verità. Vorremmo poter dire che miriamo a essa soltanto, che non esiteremmo a correrle incontro dovunque apparisse. Se osassimo farlo, vorremmo potere aggiungere che ci teniamo a farlo senza vanterie né precipitazione, con un vivo sentimento di tutte le difficoltà che la ricerca della verità comporta e con la coscienza dell’immenso valore delle convinzioni profonde di cui si può vivere. Per una gran parte, questa sottomissione al vero implica l’accettazione della critica, in tutte le sue forme, come dell’unica prova che si sta avanzando. Ma si accompagna anche a un’indifferenza completa per il terrorismo e tutti i semplicismi riduttivi attualmente trionfanti, in cui essa vede una forma rovesciata della deformazione che si sforza di evitare» (P. JACQUEMONT – J. P. JOSSUA – B. QUELQUEJEU, Esperienza di fede, Assisi 1974).
Gent.mo don Belli,
benissimo, ricevuto. Intervento risolutore, della serie: “Non disturbate il manovratore”.
Non si preoccupi, non la disturberò più con obiezioni scientificamente poco strutturate e retoricamente poco argomentate, nelle quali sia doveroso almeno citare una cinquantina di tomi sesquipedali rigorosamente post 1968.
Solo permetterà se continuerò a scrivere Eucarestia con la maiuscola. Per quanto personalmente mi riguarda, l’Eucarestia è e resta un grande mistero che le fumose circumlocuzioni in cui tanto Lei si allieta non riescono né ad offuscare né a dissolvere.
Con i migliori auguri.
Matteo Benedetti
Caro Matteo
Non credo che lei dimostri di aver compreso i testi se si ostina a chiamare fumose circonlocuzioni le belle pagine di Belli o di Rouille d Orfeuil. Il mio sospetto è che lei non abbia mai studiato veramente la tradizione eucaristica. E che si permetta di ironizzare su ciò che non conosce. E non chieda libertà di scrittura con le maiuscole se nessuno gliela ha mai negata. Piuttosto è vero il contrario. Si è fatto delle minuscole un caso di lesa maestà. Sono artifici retorici che non le fanno onore.