Pandemia e indulgenze: se sappiamo davvero di che cosa si tratta, era proprio il caso?
Quali sono le priorità su cui la Chiesa cattolica può e deve prendere la parola, nel particolare contesto di questa Quaresima e Pasqua segnata così profondamente dalla pandemia? Gli ultimi documenti prodotti dalla Curia romana intervengono, come abbiamo visto nel post di ieri, con alcune evidenze chiare, ma anche con un problema nello stile, nel linguaggio e nelle opzioni, che merita attenta considerazione.
Vorrei soffermarmi qui sul punto delicato delle “indulgenze”, proposto dal recente Decreto della Penitenzieria Apostolica. Dopo aver rimandato ad una chiarificazione della “terminologia classica” con cui la Chiesa parla del tema, e che facilmente viene fraintesa, (mi limito a riproporre un post pubblicato nel 2015, in vista del Giubileo della Misericordia) occorre però esaminare con cura la pertinenza e la opportunità di un tale intervento. Che senso ha parlare di “indulgenze” in questo momento? Provo a rispondere, in modo critico, in una serie di punti-chiave.
– La evoluzione del termine indulgenza ha subito con Francesco una accelerazione: nella Bolla di indizione del Giubileo del 2015-216 si usa il termine solo al singolare ed esso perde le caratteristiche “contabili” che gli hanno guadagnato, anche a giusto titolo, una fama non precisamente brillante.
– Ma la caratteristica della “indulgenza” è di essere un “pesce” che può nuotare nell’acqua delle “pene temporali”. Qui, per evitare equivoci, bisogna spiegare bene la serietà del tema, almeno per come è stato pensato dalla tradizione medievale. Esso non riguarda il “perdono del peccato”, ma la “remissione della pena”.
– Infatti ogni assoluzione, che abbia materia “circa quam”, ossia che sia giustificata dal peccato grave, inteso come rottura della comunione ecclesiale, implica, secondo la tradizione, il superamento della “pena eterna”, ma non quello della “pena temporale”. Che cosa significa? Significa che il soggetto, che Dio ha perdonato, deve rispondere nel tempo, con la sua libertà, alla grazia del perdono. Deve “lavorare su di sé”.
– Ora, questo “compito penitenziale” – ossia le “opere di penitenza” che attendono chi ha ricevuto la grazia del perdono – implica un percorso di elaborazione con cui gli uomini e le donne rispondono con la loro vita alla vocazione all’amore e alla pace, che in Cristo hanno conosciuto e gustato. Comporta perciò una sofferenza di percorso e un doloroso apprendistato, pur scaturendo dalla gioia.
– Solo a questo punto le indulgenze possono apparire all’orizzonte e prendere il loro senso. Esse sono l’atto festivo, straordinario e eccezionale, con cui la Chiesa, con la sua preghiera, prende su di sé le fatiche di questo cambiamento e le “rimette”, cancellandole, in toto o in parte. E questo avviene nel tempo o nello spazio. Per questo le indulgenze si collegano a “tempi particolari” (giubilei, anni santi…) o a luoghi particolari (santuari).
– Ora a me pare, per quanto mi è dato di comprendere, che il contesto di una grave epidemia, che è certo un tempo eccezionale, abbia però caratteristiche tali da non richiedere tanto una “festiva remissione delle pene temporali”, quanto piuttosto una “feriale consolazione delle sofferenze”. Si tratta di “assumere un dolore e orientarlo”, non di “rimettere una pena”.
– Inoltre, e qui tocchiamo una questione ancora più delicata, come dicevo all’inizio, e come ho cercato di spiegare sopra, l’indulgenza ha senso per il soggetto che viva il compito di una “penitenza” da svolgere nel tempo e che invece scopre misericordiosamente condonata in corrispondenza di una atto simbolico. Il sacramento della penitenza determina una condizione di “pena temporale” solo se sa tematizzarla esplicitamente. Se noi celebriamo la confessione e come “penitenza” riceviamo “10 Avemarie”, non possiamo comprendere in alcun modo il valore della “indulgenza” come remissione festiva di un compito che non c’è, non per nostra cattiva volontà, ma perché così è oggi per lo più la prassi ecclesiale e la stessa interpretazione della Penitenzieria Apostolica legge il sacramento della penitenza come semplice unione di “confessione” e “assoluzione”. Io trovo molto curioso che i due documenti della Penitenzieria siano così contraddittori: uno parla della Indulgenze sulla base di “pene temporali”, di cui l’altro documento non si cura minimamente. Curiosa contraddizione all’interno del medesimo ufficio.
– Pertanto a me sembra che in questo momento il richiamo alla “indulgenza”, non come sinonimo di “misericordia”, ma quando intesa come istituto specifico esercitato dal Dicastero Penitenzieria Apostolica, appaia fuori luogo e, per certi versi, crei interferenze rischiose, tra cura dei malati, paura per la incertezza e condono della pena. Questo tempo non ha bisogno di “remissione di pene”, ma di accompagnamento nelle sofferenze, di orientamento nella confusione, di recupero di priorità elementari. Per parlare della Misericordia di Dio il tema “indulgenze” sembra qui, in tutta franchezza, una inutile forzatura.
– Infine, rispetto alla Bolla Misericordiae Vultus del 2015, il recente Decreto della Penitenzieria Apostolica costituisce una obiettiva involuzione nello stile e nel contenuto. La cosa è piuttosto evidente, poiché si torna a parlare con la terminologia di una “matematica delle remissioni” che fatica non solo ad essere compresa, ma ancor più ad essere giustificata o giustificabile. Non tutto ciò di cui un Dicastero di Curia è competente risulta perciò sempre anche opportuno o giusto.
Io ancora oggi non riesco a capire come mai per lunghissimo tempo la “penitenza” dopo una confessione sia consistita nella recita di alcune preghiere. Chi non ricorda le penitenze “tre Pater, Ave, Gloria”, e via dicendo?
Che senso ha una simile penitenza? Dire una o più preghiere dovrebbe essere considerata “penitenza”? Ovvero, rivolgersi a Dio o alla Madonna o al Santo preferito sarebbe una penitenza? Questa a me pare una contraddizione in termini.
Capirei, invece, un digiuno o un astenersi dal mangiare dei dolci che ci piacciono o magari far visita ad un malato… O, perché no?, leggere un libro-mattone dell’A.T.; uno di quelli che ti fanno addormentare per la loro pesantezza. Quale vera penitenza, questa!
Ma, sinceramente, dire tre o dieci “Ave,Pater, Gloria” non mi sembra una penitenza plausibile.
Perciò sono sommamente grata ad un prete che al termine della mia ultima confessione e dopo l’assoluzione di rito, mi disse con un bel sorriso: “la penitenza sceglitela tu”.
Io invece ricordo sempre (e con estrema gratitudina) quel prete che mi disse: “come penitenza fai che ogni volta che torni a casa, per la tua famiglia sia una festa”
E non specificò per quanto tempo dovevo farlo!