Perdono e penitenza: spunti sistematici da un libro di Stefano Biancu
Il testo di S. Biancu (“Il massimo necessario. L’etica alla prova dell’amore”, Mimesis, 2020), al quale ho dedicato attenzione alcuni giorni fa, contiene due capitoli in cui viene proposto il chiarimento del “perdono” e della “misericordia” come “casi seri” delle “azioni supererogatorie”, che nella loro qualità di “massimo necessario” delineano l’ambito della fraternità umana e delle rivelazione divina. Valorizzare alcune delle intuizioni fondamentali di questo testo filosofico diventa passaggio qualificante non solo per una buona “teologia della misericordia”, ma anche per rendere conto adeguatamente e davvero fedelmente del “sacramento della penitenza”. Vorrei provare a muovere qualche passo in questo direzione. Lo farò identificando anzitutto alcune delle “questioni brucianti” che riguardano oggi la penitenza e il sacramento della penitenza (1); trarrò poi dal volume di S. Biancu alcune delle “idee forza” che presenta alla nostra attenzione (2), per poi elaborare alcune prospettive di sviluppo della coscienza penitenziale della Chiesa, anche alla luce degli sviluppi recenti, legati alla “fase pandemica”, con i suoi pro e in suoi contra (3).
1. Misericordia, perdono e penitenza
E’ noto che con papa Francesco la categoria di misericordia ha assunto un ruolo centrale e per certi versi nuovo, almeno nella tradizione degli ultimi secoli. E’ giusto riconoscere, però, che questa categorie non è semplicemente una “parte” della dottrina cristiana, ma ne costituisce in certo modo il centro e la fonte, come sottolinea bene il testo di Biancu e già aveva fatto, alcuni anni fa, Stella Morra nel suo “Dio non si stanca“.
Ma, forse non troppo curiosamente, questa “categoria” trova difficoltà a “rigenerare” una esperienza più articolata e più strutturale del “fare penitenza” ecclesiale. Misericordia e perdono non sono infatti semplicemente “nomi di Dio”, ma processi umani e cristiani di “cambiamento di vita”, che implicano complesse mediazioni, articolati discorsi, lenti percorsi, che sembrano oggi sfuggire tanto alla teoria quanto alla prassi. Essere perdonati ed essere capaci di perdono costituisce il cuore della fede in Cristo Signore. La qualità “generativa” della categoria di misericordia dovrebbe determinare, sul piano liturgico-sacramentale, almeno tre conseguenze, che appaiono oggi assai ardue:
– recuperare una nozione di “perdono dei peccati” che attinga anzitutto alla esperienza dei “sacramenti della iniziazione cristiana” (battesimo, cresima e eucaristia). Solo in seconda battuta essa riguarda i sacramenti di guarigione, di cui fa parte il “sacramento della penitenza”;
– lo stesso “fare penitenza” costituisce una esperienza di “perdono ricevuto e offerto” che attraversa l’intera vicenda umana e cristiana. Se non si guadagna questa esperienza “larga” del fare penitenza, il sacramento della penitenza inclina inevitabilmente ad un automatismo oggettivante troppo secco e poco evangelico;
– il Concilio di Trento ha utilizzato una espressione dell’epoca antica (“battesimo laborioso”) che bene chiarisce lo specifico del sacramento della penitenza, ossia il “lavoro”, un processo di “elaborazione della identità” da parte del soggetto penitente.
2. La provocazione di S. Biancu: perdono come “atto complesso”
Di fronte a queste sfide, che entrano in profonda tensione con le abitudini e le inclinazioni ecclesiali degli ultimi due secoli, è di grande utilità recuperare nel libro di Biancu alcune idee-forza del tutte decisive per il rinnovamento del “pensiero sistematico” sul sacramento della penitenza.
a) Anzitutto una ricollocazione del “perdono” al centro della esperienza etica. Non “al di qua” né “al di là”, ma proprio al suo centro. Il darsi di una idea credibile di “fratellanza” procede da questa riassunzione del perdono come “centro” della esperienza di dignità e di identità personale.
b) Per attingere a questo centro, tuttavia, si deve superare una “antropologia dualista” nella quale l’uomo sia essenzialmente la sua interiorità. Un rimando privilegiato alla interiorità – ci dice Biancu – anziché potenziare il “senso del peccato”, tende ad annullarlo.
c) Di qui una terza esigenza: che la ricomprensione della centralità della misericordia esiga il superamento di quelle antitesi fondamentali – tra interiore ed esteriore, tra pubblico e privato, tra immanente e trascendente – su cui si è costruita gran parte della cultura filosofica e teologica degli ultimi secoli.
Il “ripensamento sistematico della penitenza” implica, perciò, una uscita da luoghi comuni della cultura moderna, che possono essere superati sia con il recupero di categorie “più antiche”, sia mediante l’adozione di nozioni nuove. Ad es. riprendendo, da S. Tommaso d’Aquino, una nozione “quadruplice” di penitenza, intesa non solo come sacramento,ma anche come passione, come azione e come virtù. Il recupero della processualità teologica e antropologica del fare penitenza è una condicio sine qua non per recuperare il senso della penitenza ecclesiale e sacramentale. D’altra parte è altrettanto urgente mettere alla prova il concetto di perdono e di misericordia con la lettura “immediata” del soggetto umano, elaborata dal pensiero moderno e con il concetto stesso di “soggetto di diritto”, come astrazione preziosa ma condizionata da “presupposti materiali”, indisponibili e del tutto decisivi.
3. Mediazioni ecclesiali e sacramentali di misericordia
Il contesto ecclesiale non sembra ancora sufficientemente disposto a lasciarsi davvero persuadere circa la necessità di questo profondo ripensamento. Faccio solo alcuni esempi di resistenza:
a) diritto canonico e immediatezza del perdono
la figura del sacramento della penitenza che il diritto canonico tende ad avvalorare, con i canoni del codice ad esso dedicati, contribuisce in modo estremo alla “formalizzazione” di un perdono immediato, del quale vengono di fatto considerati centrali soltanto confessione e assoluzione. Ogni processo, ogni elaborazione, ogni trasformazione delle coscienze e dei corpi vengono o presupposte o rimosse. Proprio a livello istituzionale, quasi senza che ce ne accorgiamo, la “banalizzazione del perdono” rischia di essere gravemente sostenuta, addirittura come se fosse proprio questa formalizzazione banalizzante la garanzia della tradizione;
b) la custodia difficile della “pena temporale”
Forse a causa delle polemiche anche giustificate intorno al tema delle “indulgenze” non sembra veramente maturato, nel corpo ecclesiale cattolico, il senso del “processo temporale” che accompagna ogni vissuto di “peccato perdonato”. Che ogni perdono determini di per sé una “elaborazione sofferta” resta vero per quasi tutti gli ambiti della esperienza, meno che per la vita ecclesiale. La risposta della libertà distorta alla grazia rinnovata è sempre lunga e articolata, merita accompagnamento, disciplina e dottrina, in forma mai rigida ma sempre accurata;
c) L’arduo recupero degli itinerari penitenziali
Ogni perdono è anzitutto “inizio di itinerario”, non solo e non anzitutto fine di una “scomunica”. Che il sacramento della penitenza non sia “immediato atto giuridico”, ma “mediazione ecclesiale di cambiamento di vita” è una coscienza che nella Chiesa non riesce a maturare anche a causa di nozioni, immaginari e convenzioni che inclinano a letture meccaniche, automatiche, in cui il soggetto umano (e il soggetto divino) sono sostanzialmente aggirati, strumentalizzati e svuotati. Una vera fraternità scaturisce da una esperienza di perdono che mette in modo le vite, non che le rassicura formalisticamente. Il formalismo penitenziale resta perciò uno dei peggiori nemici di ogni autentica prassi di perdono.
Così il libro di S. Biancu, soprattutto nel suo IV e V capitolo, sollecita anche i teologi ad un profondo lavoro di ripensamento delle categorie fondamentali con cui misericordia, perdono e penitenza vengono pensate e praticate. Se non provvediamo a questa elaborazione, la “generatività” della misericordia resterà una affermazione di principio, da cui non sapremo trarre non solo scelte vitali davvero convincenti, ma neppure liturgie simbolicamente persuasive ed efficaci.