Preistoria del Sinodo: sulla donna e sul rito ogni riforma deve essere sospetta?


Vorrei sostare brevemente alla scuola di un grande maestro come Gh. Lafont, che nel suo libro “Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco” ha riconosciuto molto lucidamente che “non è stato papa Francesco a rovesciare la piramide, ma piuttosto il concilio Vaticano II” (Bologna, EDB, 2017, p.81). Perché è importante questa osservazione? Perché permette di comprendere quel fenomeno che si può chiamare “dispositivo di blocco” e che ha caratterizzato una lunga fase di produzione magisteriale, lunga circa un trentennio, dagli anni 80 fino al primo decennio del nuovo millennio. In che cosa consiste il “dispositivo di blocco”? Potremmo dire nel fermare e nell’ostacolare il percorso di “rovesciamento della piramide” che il Vaticano II aveva inaugurato. I segni tangibili di questo tentativo sono evidenti e riguardano sempre dimensioni legate alle “nuove liturgie”: ad es. si consiglia di evitare l’uso della espressione “assemblea celebrante”, si pensa il ruolo delle lingue parlate come letterale trasposizione dal latino e si controlla dal centro la applicazione di questo principio, si afferma recisamente la riserva maschile della ordinazione al sacerdozio, si salvaguarda l’uso del rito preconciliare accanto al rito scaturito dalla riforma liturgica. Tutti questi interventi, che coprono gli anni dal 1994 al 2007, sono accomunati dal medesimo intento: ridurre al minimo, tendenzialmente emarginare, la forza “capovolgente” della riforma liturgica. In questa vicenda vorrei mettere in luce alcune assonanze tra “discorso sul rito” e “discorso sulla donna”.

a) Due testi del 1963, anno “assiale” per la riforma della Chiesa

Il 1963 è un anno centrale per la chiesa cattolica del ‘900. Giovanni XXIII, che aveva appena aperto il Concilio, vive i suoi ultimi mesi di vita e pubblica l’ultima sua enciclica, Pacem in terris. Dopo la sua morte il nuovo papa Paolo VI convoca la II sessione del Concilio, che prima della fine dell’anno arriva a pubblicare il primo grande documento, la Costituzione Sacrosanctum Concilium, da cui inizia il lungo iter di riforma della liturgia. Tutto in un solo anno! Vorrei annotare che questi due testi, con tutte le loro differenze, introducono due “discontinuità” al servizio della continuità della tradizione. La discontinuità di una nuova nozione di liturgia e la discontinuità di una nuova nozione di donna. Tanto la prima, quanto la seconda venivano sottratte alla riduzione dottrinalistica e disciplinare che le aveva abbassate a “cerimonia esterna e formale” la prima e a “soggetto subordinato e privatizzato” la seconda. Si scopre così la dignità di una liturgia che ha per soggetto Cristo e la Chiesa tutta, si scopre la dignità di una donna sottratta al “complesso di inferiorità” che la cultura umana e cristiana le aveva imposto per secoli. Come è evidente, il primo testo conciliare di Paolo VI e l’ultimo testo papale di Giovanni XXIII hanno subito una recezione assai diversa. Il primo si è tradotto, nel giro di pochi anni, in un nuovo corpus di “ordines”, mentre il secondo restava quasi isolato, anche se segnava progressivamente la cultura comune più che quella ecclesiale.

b) Dopo il 1968, la rilettura traumatizzata dei due testi

Solo 5 anni dopo, a Concilio ormai concluso, a partire dal 1968 si manifestano i primi segni di disagio e inizia ad essere percepito il “capovolgimento conciliare” come un pericolo. Anche in ambienti assai centrali tanto la liturgia riformata quanto la donna emancipata iniziano ad essere percepiti come pericoli da arginare e da contrastare. Dopo qualche anno si parlerà della riforma liturgica come “catastrofe” e della autorità femminile come di una “contraddizione con la tradizione”. E’ significativo che nel 1976 il titolo di “Inter Insigniores” sia tratto proprio dal riferimento al “segno dei tempi” della donna che “in re publica interest”, senza tuttavia considerarne la novità all’interno del testo. Lo stesso potremmo dire si annuncia nel giudizio lapidario con cui J. Ratzinger colpevolizza Paolo VI per aver voluto sostituire al Vetus Ordo il Novus Ordo. Si tratta dei primi segni di uno stile che non arbitrariamente potremmo definire “dispositivo di blocco”.

c) La tradizione vive solo del passato?

Due tra gli interventi più significativi in questo ambito sono certamente da un lato “Ordinatio Sacerdotalis” (1994), dall’altro “Summorum Pontificum” (2007). Non è difficile scorgere, dietro ai due testi, la medesima mano e la medesima intenzione. Ovviamente si tratta di testi diversi, sia per tenore sia per contenuto. Ma entrambi procedono sulla base di una argomentazione assai fragile, perché sono orientati strutturalmente a contenere ogni novità, possibile o reale. Esaminiamo brevemente la forma della argomentazione, che è molto simile. Si dice in entrambi: la chiesa non ha la facoltà di modificare né la riserva maschile a proposito della ordinazione sacerdotale, né la vigenza del rito preconciliare accanto al rito post-conciliare. Si deve notare come in entrambi i testi la evidenza di una nuova comprensione della donna (come “segno” da cui la Chiesa dovrebbe imparare) e la evidenza di una nuova comprensione della liturgia ( che ha reso necessaria la riforma) tendono a scomparire rispetto al diritto della tradizione di porre se stessa esattamente come prima. Va aggiunto che la pretesa magisteriale di riconoscere e stabilire una dottrina di carattere definitivo su una materia storica come la “identità femminile” appare singolarmente azzardata rispetto a tutta la tradizione. Esattamente come “Summorum Pontificum” riteneva di poter fondare la unità della chiesa su un parallelismo rituale tra riti storicamente contraddittori, al cui centro stava un sofisma come quello della “perenne vigenza di ciò che è stato considerato sacro”, così “Ordinatio sacerdotalis” ha potuto presumere di riconoscere una uniformità di giudizio sulla ordinazione riservata ai maschi senza considerare la nuova lettura della donna, emersa solo nell’ultimo secolo, e che rende assai fragile la uniformità storica precedente. Questo aspetto della questione merita un approfondimento nell’ultimo testo pubblicato da Gh. Lafont.

d) La rilettura di Lafont e perplessità della argomentazione di OS

Il cuore della Lettera “Ordinatio sacerdotalis” consiste nella ripetizione di una espressione di Inter Insigniores, secondo cui “Ecclesiam, quae Domini exemplo fidelis manere intendit, auctoritatem sibi non agnoscere admittendi mulieres ad sacerdotalem ordinationem“. Questa espressione viene assunta da Giovanni Paolo II come una dichiarazione definitiva, con la seguente formula:

“Pertanto, al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa.”

La domanda che viene sollevata da Gh. Lafont, nell’ultimo piccolo capolavoro Un cattolicesimo diverso, Bologna, EDB, 2019 dove dedica una “Nota sulla chiamata delle donne al carisma del governo” (63-67), suona prima di tutto sul piano della forma: se il papa voleva pronunciare una sentenza infallibile, perché non lo ha fatto? In secondo luogo, in modo ancora più incisivo, la obiezione più forte riguarda il merito della dichiarazione: “è possibile, in una materia nella quale è coinvolta la storia, giungere ad una verità infallibile?” (65). Nella affermazione della “riserva maschile” – e quindi della esclusione femminile – non si è mai semplicemente di fronte ad un “fatto”. Si tratta sempre anche di una interpretazione della polarità in gioco (maschio e femmina) che non è fissata una volta per tutte, né dal creatore né dal redentore. Sarebbe ingenuo pensare che “non avere la autorità di ammettere” non significhi “avere la facoltà di escludere”. Ancora più ingenuo sarebbe pensare che se questo resta “senza ragioni”, ma viene rubricato come semplice “fedeltà ad un fatto”, solleva perplessità crescenti e non può far tacere non solo il pensiero, ma anche le emozioni, anzitutto di coloro che sono escluse senza ragione. D’altra parte è evidente che, se da un lato Inter Insigniores aveva tentato di proporre spiegazioni (pur rivelandosi esse piuttosto fragili e contraddittorie), OS preferisce affidarsi soltanto al “fatto” (per il passato) e alla “autorità” (per il futuro): ma se Inter Insigniores almeno ammetteva che la questione era stata aperta da “Pacem in terris”, in OS di questo fenomeno di capovolgimento positivo della piramide e dell’apparire si una nuova dignità femminile sull’orizzonte ecclesiale non resta traccia alcuna. Confermare si identifica con fermare ogni novità. Al punto da far dipendere la stessa “divina costituzione della Chiesa” dalla riserva maschile! Forse qui un eccesso di paura ha spinto ad un eccesso di autorità, che traduce la esclusione della donna in una questione di fede. Forse il Sinodo sulla sinodalità può rimediare parzialmente a questa obiettiva forzatura.

e) Una rilettura della questione del diaconato in vista del Sinodo sulla sinodalità

Nel percorso che anima il cammino sinodale, e che ora ha preso forma di “Instrumentum laboris”, si tratta dell’accesso della donna al ministero ordinato, nel grado del diaconato. Non è dunque in gioco la proibizione che abbiamo discusso fino a qui. D’altra parte il superamento della “riserva maschile” per i ministeri istituiti costituisce un precedente non trascurabile. Tuttavia nelle anticipazioni che hanno caratterizzato questi anni di lavoro delle due Commissioni sul Diaconato, sono nate almeno due posizioni discutibili: da un lato la pretesa che sia la “storia” a giustificare la decisione attuale della Chiesa; dall’altro la estensione al diaconato della “riserva maschile” pensata e affermata per il sacerdozio, fino al punto di immaginare, direi in modo quasi fantascientifico, un “diaconato diverso e non ordinato”, riservato solo alle donne, da non confondere con il “vero diaconato ordinato”, riservato ai maschi. Chiediamoci, apertamente: appartiene alla “divina costituzione della Chiesa” la riserva maschile del diaconato? A questa domanda la risposta può venire soltanto se si pone contemporaneamente una domanda diversa, e molto meno formale: è possibile per la Chiesa cattolica continuare a considerare la donna come costitutivamente esterna all’esercizio della autorità ministeriale ordinata? Solo mediante una seria risposta alla seconda domanda, che non si nasconda solo nelle prassi del passato o che non sposti la risposta sulla “libertà del Signore”, sarà possibile onorare il segno dei tempi della “mulier quae in re publica interest” e così assicurare alla Chiesa la possibilità di avvalersi anche della autorità pastorale di donne diacono.

Share