Quattro piccoli professori contro un grande papa per amor del VO



La notizia è di oggi: quattro professori, non noti per una particolare attenzione alle periferie, che si mostrano preoccupati solo di secondari cavilli giuridici e palpitanti per la Chiesa che fu, hanno scritto il giorno 14 settembre (anniversario della entrata in vigore del MP Summorum Pontificum) un “esposto” a papa Francesco perché intervenga a favore dei Frati della Immacolata, colpiti nella loro “libertà” di celebrare secondo il VO.

A dare la notizia oggi, con la comprensibile enfasi, è stato Sandro Magister, che non nasconde l’entusiasmo verso questo genere di iniziative. Nel presentare il testo, di cui qui sotto riporto soltanto l’inizio (più che sufficiente a misurarne l’inconsistenza argomentativa) Magister commette tuttavia un grave errore. Egli scrive, infatti, che papa Francesco avrebbe limitato
la “libertà di celebrare la messa in rito antico che papa Joseph Ratzinger aveva assicurato a tutti col motu proprio ‘Summorum pontificum'”.

Qui sta l’errore, che Magister condivide con De Mattei, Palmaro, Sandri e Turco. Esso dipende da una lettura profondamente unilaterale e del tutto fantasiosa del Motu Proprio, che non determina alcuna “libertà” di celebrare il rito romano nella forma antica, ma stabilisce accuratamente le condizioni necessarie perché ciò sia possibile. Solo “ogni singolo presbitero”, e solo quando celebra “sine populo”, può essere libero di farlo indifferentemente con VO o NO, ma questo non vale mai per una comunità (parrocchiale o religiosa che sia).

La pretesa dei 4 professori, supportati dal giornalista, è di configurare una sorta di “terra/chiesa di nessuno”, corrispondente ai luoghi di influenza dei Frati, nella quale poter ricreare le condizioni per una Chiesa separata, aristocratica, tradizionalista, disinteressata alle periferie, autoreferenziale, arrogante e priva di legami con il mondo (tranne, evidentemente, qualche suo fugace riflesso economico). Non stupisce che i 4 firmatari, nel difendere una posizione indifendibile, argomentino solo sulla base di una lettura del MP del tutto astratta dalle concrete condizioni di esercizio di una normale vita pastorale o religiosa. Che a loro naturalmente non interessa, anzi disturba.

Si tratta di un tentativo del tutto marginale, caratterizzato però dalla forma di un “esposto” al S. Padre, che rivela l’intenzione di amplificare e di universalizzare ad arte una questione del tutto secondaria e particolare. Ai 4 professori fa eco Magister, che apre il suo articolo con le parole: “Il divieto imposto da papa Francesco ai frati francescani dell’Immacolata di celebrare la messa in rito antico continua a suscitare vivaci e diffuse reazioni”. Le “vivaci e diffuse reazioni” sono soltanto il colpo di coda di quei pochi che si erano illusi che la Chiesa, 50 anni dopo il Concilo Vaticano II, potesse vivere di nostalgia, di pizzi, di mozzette, di separatezza e di paura.

Un papa che vive di speranza, di sobrietà, di povertà, di relazioni calde e di coraggio saprà bene che cosa fare di un tale esposto.

Al lettore è sufficiente leggere l’inizio del testo per comprendere la povertà teologica, liturgica ed ecclesiale di questo maldestro tentativo di condizionare papa Francesco. Per chi volesse leggere il testo integrale, rinvio a: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350603

ANALISI DEL DECRETO DI COMMISSARIAMENTO DEI FRANCESCANI DELL’IMMACOLATA 
di Roberto de Mattei, Mario Palmaro, Andrea Sandri, Giovanni Turco

Il decreto della congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica dell’11 luglio 2013 […] è un atto di gravità tale da non potere essere considerato di mera rilevanza interna per i soli destinatari. […]

Il decreto impone ai frati francescani dell’Immacolata – contrariamente a quanto disposto dalla bolla “Quo primum” di san Pio V e dal motu proprio “Summorum pontificum” di Benedetto XVI – il divieto di celebrare la messa tradizionale.

Ciò facendo priva di un bene di valore incommensurabile – la messa (celebrata in rito romano antico) – sia i frati, sia i fedeli che attraverso il ministero dei frati hanno potuto partecipare alla messa tridentina, sia tutti coloro i quali avrebbero potuto, in futuro, eventualmente parteciparvi.

Il decreto, perciò, non riguarda solo un bene – e con ciò, “il” bene – di cui sono privati (salvo espressa autorizzazione) i frati, ma anche un bene – e con ciò, “il” bene – spirituale dei fedeli, che mediante il ministero dei frati desideravano e desiderano accedere alla messa tradizionale.

Essi si trovano a subire – loro malgrado ed al di là di qualsivoglia colpa, quindi senza ragione – una sanzione in palese contrasto con lo spirito e con la lettera sia dell’indulto “Quattuor abhinc annos”, sia della lettera apostolica “Ecclesia Dei”, di Giovanni Paolo II, sia del motu proprio “Summorum pontificum” di Benedetto XVI. Tali documenti, infatti, sono palesemente mossi dalla finalità di soddisfare l’esigenza di partecipazione alla messa secondo il rito romano classico, da parte di tutti i fedeli che ne abbiano desiderio.

Pertanto il decreto evidenzia una obiettiva rilevanza per tutti coloro i quali – per le ragioni più diverse – apprezzano ed amano la messa latino-gregoriana. Tali fedeli attualmente costituiscono una parte cospicua, e certamente non trascurabile, dei cattolici, sparsi in tutto il mondo. Potenzialmente essi potrebbero coincidere con la totalità stessa dei membri della Chiesa. Il decreto colpisce obiettivamente anch’essi.

Parimenti colpisce tutti coloro i quali, anche acattolici – per diverse ragioni, come storicamente già emerso in occasione dell’appello presentato a Paolo VI nel 1971 – avessero a cuore la continuità della messa tradizionale. Il decreto (ben al di là, quindi, della vicenda relativa ad un Istituto religioso) palesa una rilevanza universale anche sotto questo profilo. […]

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