S. Giuseppe, Mosè e l’autorità dei sopravvissuti


crocecavalca

Ieri la festa di S. Giuseppe e oggi la III Domenica di Quaresima creano, in tempo di guerra, una singolare harmonia discors. San Giuseppe e Mosè sono segni forti di una possibilità della fede di ripartire dai sopravvissuti, dagli scampati, dai graziati, dai profughi. La storia della salvezza parte da profughi. La cronaca che ci mostra il crollo di così tanti palazzi nelle città ucraine e la morte di tanti uomini, di povere donne, di bambini derubati di ogni cosa e anche della speranza. Il vangelo di oggi parla di Galilei uccisi da Pilato insieme ai loro sacrifici e delle persone uccise dal crollo della torre di Siloe. Impressionante coerenza tra vangelo e cronaca.

La fede di Giuseppe è la fede di un profugo. La fede di Mosè e anch’essa la fede di un profugo: il primo ha salvato il figlio dalla uccisione certa, il secondo è stato salvato dalla madre e affidato alla precarietà delle acque. La fede inizia dove l’uomo sfugge all’arbitrio della violenza, alla negazione della identità, al mancato riconoscimento e alla indifferenza che colpevolizza. Solo se trovi dei pastori e dei magi che ti custodiscono hai speranza di trovare la tua strada. Quando diventi “nemico” non scampi: forse anche di fronte a quelle povere vittime abbandonate sulle strade delle città ucraine qualcuno pensa (o scrive o grida): o hanno peccato loro o i loro genitori. E il gioco di dare la colpa alle vittime per assolvere i carnefici è antico quanto l’uomo.

Ma anche oggi, tra coloro che fuggono dalla operazione speciale ordinata dal faraone di Mosca, o dall’ Erode di Pietroburgo,  nasce la fede dei sopravvissuti, che cercano il bene e annunciano la pace.  Le chiese hanno proprio questo compito di custodia del mistero, della liberazione della vittima dalla violenza, dalla oppressione, ma anche dal risentimento e dall’odio: le chiese assumono e custodiscono il grande mistero della tradizione giudaico cristiana, che ha alla sua origine il grande capovolgimento: chi doveva morire guida il proprio popolo alla libertà e alla pace. Mosè e Gesù sono sopravvissuti e per questo disposti all’ ascolto della parola di Dio. Per questo sono autorità.

Il primato della resistenza alla violenza e dell’affidamento alla pace da nessun capo politico o religioso può essere contraddetto. In questo paradosso sta il mistero grande della possibile comunione tra Dio e gli uomini, che trova nell’atto politico il massimo della potenza e della tentazione.

Ma se tu alzi la corona del rosario in pubblico per perseguitare gli emigranti o se tu plaudi in pubblico all’esercito che schiaccia il povero e la vedova, tu alzi in cielo una bestemmia e applaudi un sacrilegio.  La parola di pace che ti attribuisce quella autorità che hai ricevuto come un servizio alla nazione o alla chiesa,  si trasforma, nelle tue mani, in veleno per tutti e dimostra che hai venduto il vangelo per un piatto di lenticchie. Ripugnante è la guerra, ripugnante è la ipocrisia: il presepe usato per diffamare gli stranieri,  le basiliche per benedire le guerre e maledire i diritti delle persone.

San Giuseppe, Mosè e Gesù: le storie di persecuzione sono atti di storia della salvezza. Il discrimine passa proprio su questa faglia drammatica della storia: se nella fede non provi irresistibile ripugnanza di fronte alla violenza sugli inermi, allora Dio non ha più nulla a che fare con te. La guerra sa rivelare i pensieri segreti di ogni cuore: tutti, i peggiori come i migliori. E può distinguere con cristallina chiarezza chi attinge con fatica e con stupore ad una parola più alta e più viva e chi, con indifferenza e interesse, parla solo da sé e di sé.

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