Saper vedere l’architettura, secondo Bruno Zevi


Anno del centenario della nascita di Bruno Zevi (1918-2000), il 2018 è contrassegnato da molti convegni, relativi atti e pubblicazioni, esposizioni che in vari modi ne ripercorrono personalità, produzione di libri e di architetture,  attività politica e di professore di storia dell’architettura, prima presso la facoltà di Architettura di Venezia poi alla Sapienza in Roma.

Vale la pena segnalare, ai non addetti in senso stretto a esercizio di critica e storia dell’architettura moderna, qualche aspetto del suo contributo di critico e di storico, che investe interrogativi di interesse generale. Essi risultano oggi più sentiti di quanto lo fossero negli anni nei quali Zevi se ne fece portavoce. Lo segnalano le due ultime Biennali internazionali d’architettura di Venezia che, come dichiara continuamente il Presidente Baratta, hanno mirato al duplice scopo di avvicinare il grande pubblico a temi architettonici e urbanistici e di stimolare gli architetti a farsi interpreti delle esigenze di tutti.

Tra 1945 e 1950 quattro pubblicazioni di Zevi presso Einaudi cambiarono la concezione dell’architettura moderna in Italia ma non solo, suscitando vivaci reazioni, in particolare a Milano dove esse vennero decisamente contrastate dal direttore di “Casabella”, architetto e professore nella facoltà di Architettura del Politecnico, Ernesto Nathan Rogers. Erano: Verso un’architettura organica (1945); Saper vedere l’architettura (1948); Storia dell’architettura moderna (1950; Architettura e storiografia (1950).

Il loro autore vi compose un’articolata costruzione della storia architettura occidentale, europea e americana del XX secolo con premesse nel XIX, in polemica con il fino ad allora prevalente razionalismo, radicato in un funzionalismo nord europeo del quale era protagonista incontrastato e maestro riconosciuto Walter Gropius, fondatore e primo direttore della celebre scuola della Bauhaus, con sede prima a Weimar e poi a Dessau, chiusa per imposizione dei nazisti nel 1933.

Il metodo storico critico zeviano non era frutto di improvvisazione; maturò da meditati confronti, in seguito continuamente alimentati, con il pensiero di filosofi, critici d’arte, architetti e urbanisti come, per fare qualche nome, Croce, De Sanctis, Argan, Longhi, Venturi, Mumford, Pane, Bettini, Ragghianti, Piccinato. Segnò una stagione interpretativa diffusa in varie parti del mondo.

Risultò immediatamente dirompente il primato dato da Zevi alla produzione dell’americano Frank Lloyd Wright, nello spostamento dell’asse critico sul tema della qualità organica dell’architettura moderna che obbligava, in qualche caso anche con ridimensionamenti, a una revisione delle esperienze europee. La sua proposta, che ebbe anche il merito di stimolare una più ricca espressività della razionalità costruttiva contemporanea, fu concomitante con l’affermazione della peculiarità dell’architettura, come arte il cui campo doveva essere nettamente distinto da quello proprio di altre arti figurative così da essere fondato sul primato dello spazio, vero centro della sua creatività non riducibile a qualità pittoriche o scultoree.

A questo proposito, fu fondamentale per lui mettere a punto cosa significasse ‘sapere vedere’ l’architettura; lo fece con la vis polemica che lo ha sempre caratterizzato, temperamentale ma anche per lui indispensabile per scuotere il mondo degli architetti allora in rapida crescita. Fu questo ‘saper vedere’ il perno cui è fondamentale ancora oggi tornare, per comprendere l’intreccio di riflessioni, interrogativi, propositi – fra progetto e storiografia d’architettura, tra storia e critica, tra interpretazioni di linguaggi in monumenti antichi e architettura moderna – che caratterizza il contesto degli architetti, in termini spesso non facilmente comprensibili per i non addetti ai lavori.

Così Zevi incalzò i lettori: “Avete mai pensato alla vostra casa, all’ufficio, alla scuola, al cinema, alla trattoria, ai negozi, alle strade e alle piazze che frequentate? Avete mai visto gli spazi entro i quali vivete? Avete riflettuto sul valore specifico dell’architettura, rispetto a quello delle altre arti figurative? Che differenza c’è tra la vostra abitazione e un tempio, o un arco di trionfo? L’architettura è un’arte ‘astratta’, oppure ha precisi contenuti? Saper vedere l’architettura risponde a questi interrogativi: il suo proposito è di rivelare il segreto, l’essenza spaziale dell’architettura, affinché anche voi sappiate vedere gli ambienti in cui spendete tanta parte della vostra esistenza”.

Passando in rassegna il valore esplorativo di disegni, fotografie, film, esaminando architetture antiche e nuove, Zevi affermò perentoriamente che il solo modo per comprendere un’architettura, per chi fosse specialista e per chi non lo fosse, era quello di muoversi all’interno di essa, di viverla nella sua spazio-temporalità, di formulare il proprio giudizio a partire dalla sua interna organizzazione.

Il suo messaggio fu importante, fece e fa ancora discutere, ma indicava una strada esperienziale, in linea di principio accessibile a tutti, e la possibilità di un riconoscimento, della qualità di bellezza di una costruzione, fondato sulla connessione tra spazio e vita.

Il problema così posto risultava affascinante e appariva persino democratico, ma sollevava anche molti interrogativi che più tradizionali definizioni avevano risolto. Si pensi a quella celebre di Vitruvio, vissuto nel I secolo dopo Cristo, che intese l’architettura come ratio o sintesi di ragioni che legano tra loro funzionalità, statica, bellezza. Ognuno di questi tre parametri può essere identificato in dati concreti di misura, di forma, di quantità, di fattura; inoltre la formula invita a mettere a fuoco le ragioni, e quindi i modi e termini, della loro modulazione reciproca, traducibili anche in una narrazione descrittiva e valutativa.

Lo spazio invece non è propriamente un linguaggio, prende certo forma da componenti materiali che lo delimitano, lo articolano e lo qualificano, ma lo si sperimenta solo in una immersione corporea, che mette in moto una gamma vastissima di esercizi dei sensi. Occorrono parole capaci di lirica celebrazione dell’esperienza che in esso si vive per descriverlo interpretandolo; la terminologia, il racconto, pertanto, deve assumere un carattere più evocativo che descrittivo, anche se potrà far tesoro di spunti presi dal metodo interpretativo vitruviano.

L’apparente maggiore semplicità di identificazione dell’architettura, che Zevi aveva saputo magistralmente proporre e difendere, mostrò presto una interna complessità, connessa peraltro a quanto scienze umane, come psicologia e prossemica, mettevano in evidenza. L’architetto parte solitamente, nel proprio progetto, da una pre-visione spaziale, visivamente anticipa nella propria mente lo spazio che intende definire perché possa essere costruito in un impatto corporeo immaginato; nel disegnarlo, però, procede secondo la logica sequenza vitruviana: deve individuare sia una corretta articolazione tra i vani interni sia un controllato rapporto tra interno e esterno della sua costruzione; deve darle sicura stabilità, deve renderla confortevole e gradevole, bella.

Si potrebbe pertanto persino dire che solo l’architetto progettista elabora creativamente lo spazio delimitandolo materialmente; il fruitore è piuttosto chiamato a viverlo assimilandolo in un certo senso a sé fino, nei casi di migliore riuscita, a riconoscervi una forma simbolica della propria condizione di vita. Nella realtà dei fatti, tuttavia, la suddivisione dei ruoli, tra abitante e progettista, non è mai così netta; abitare e costruire identificano, saldandosi in unità, ogni architettura, dal singolo edificio al sistema paesaggistico, come realtà relativamente durevole ma anche in continuo divenire, nel succedersi di diverse generazioni che la adattano a sé.

Le brevi considerazioni qui esposte consentono di formulare, come prima mossa di un possibile dibattito, una pur provvisoria sintesi propositiva: Zevi ha messo a disposizione di tutti un metodo, per comprendere l’architettura e per giudicarla a partire dal saperla vedere, che attende ancora di essere compreso a fondo e assimilato. Esso, mi pare, è di cruciale importanza, perché non ne fissa il primigenio valore nella sola forma costruita, ma lo porta a compimento, fino a renderlo simbolico, nel vissuto dei suoi abitanti. Quando e come questi ultimi possono o riescono a ‘dire’ quali spazi di vita, quali luoghi, quali architetture ritengono coerenti, significative, utili, facilitanti la propria vita?

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