Secondo e contro natura: De Lubac e il responsum (di Riccardo Saccenti)


Saccenti

Si era segnalato, subito dopo il 15 marzo, che il Responsum della CDF sul tema della “benedizione delle persone dello stesso sesso” utilizzava argomenti piuttosto fragili e non riusciva a cogliere la complessità e la articolazione delle questioni in gioco. Riccardo Saccenti, che è uno dei massimi esperti sul tema della “legge naturale”, commenta in questo post alcuni aspetti della “risposta”, mettendoli a confronto con la decennale riflessione che H. De Lubac ha dedicato al rapporto tra natura e sopranatura, natura e grazia. Mi sembra un contributo alto ed importante allo sviluppo di un dibattito che trova nel “responsum” piuttosto uno stimolo che una parola definitiva. Lo ringrazio di cuore per questo suo testo, che ha voluto mettere a disposizione dei lettori di “Come se non”. (ag)

 

Nell’autonomia della natura la libertà della grazia.
Note su de Lubac (alla luce del responsum sulla benedizione di unioni fra persone dello stesso sesso)

di Riccardo Saccenti

Il recente responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso, solleva il tema del rapporto che lega, da un lato, l’ordine naturale – giudicato come espressione di una realtà oggettivamente e positivamente ordinata a ricevere la grazia – e, dall’altro, la prassi morale e l’operare della chiesa. Il cuore teologico dell’argomentazione utilizzata dalla Congregazione riposa nell’idea che sussista un rapporto non solo armonico ma consequenziale fra l’agire della grazia e la natura, in ragione dei «disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati in Cristo Signore». Alla radice di questa visione vi è una questione che si radica sul piano della metafisica e ha riflessi profondi sull’antropologia teologia. Si tratta dello snodo del nesso fra natura e soprannaturale, oggetto di serrata discussione teologica nei decenni centrali del Novecento, in particolare attorno allo sforzo di storicizzazione operato da Henri de Lubac. Quella discussione, riletta oggi, alla luce dei dubbi sollevati dal responsum, risulta ricca di opportunità di riflessione teologica e filosofica e di prospettive di ricerca, che obbligano a misurarsi con un’intelligenza della traditio che, in un circolo ermeneutico col presente e le sue istanze, ne rivela la strutturale pluralità e getta luce su opzioni possibili, oltre che su inattese linee di continuità.

Una ricerca ventennale

Il volume Surnaturel. Un étude historique esce nel 1946 e rappresenta una definita analisi storico-critica della nascita e dell’evoluzione della nozione di “natura pura”, condotta con gli strumenti della critica storica. È un testo a cui fa seguito il saggio Le mystére du Surnaturel (1949) e dopo un decennio di dure polemiche e censure ecclesiastiche il volume omonimo del 1964 e la monografia dedicato all’agostinismo nell’età moderna (1965). Questa ampia produzione che Lubac dedica alla questione del rapporto fra natura e soprannaturale, può essere considerata come un unico tentativo, dispiegato nell’arco di quasi venti anni e teso a ripensare il rapporto fra natura e soprannaturale riconsiderando la “natura pura” all’interno di una più ampia storia delle tradizioni teologiche del cristianesimo. Cuore di quella riflessione era l’esigenza di tornare a confrontarsi con il modo in cui i grandi teologi del XII-XIV secolo avevano affrontato il rapporto fra natura e supernaturalis, con particolare riguardo alla posizione di Tommaso d’Aquino, il cui “sistema” Lubac aveva esplicitamente contrapposto a quello della “natura pura” come alternativa concettualmente più semplice e solida. Al tempo stesso grande attenzione venne dedicata agli autori del XV-XVI secolo, nei cui scritti il padre gesuita aveva ravvisato la presenza in nuce del sistema della “natura pura”, poi tracciato nei suoi assi portanti sul crinale fra Cinquecento e Seicento, nel pieno delle controversie teologiche suscitate dalle opere di Baio e Giansenio.
Fondato sull’interpretazione degli scritti dell’Aquinate, il sistema della “natura pura” aveva alla base un’antropologia caratterizzata dalla presenza di una duplice finalità. Stando alla manualistica teologica, Tommaso d’Aquino avrebbe sostenuto l’esistenza di una duplice finalità per l’uomo: da un lato un fine naturale, legato alla natura pura, che consisterebbe nel guadagnare una condizione di felicità tutta mondana; dall’altro un fine soprannaturale, consistente nella visione beatifica, che è frutto dell’intervento della grazia di Dio che lo rende possibile. Fra i due fini non vi sarebbe alcun rapporto di necessità reciproca: il primo sarebbe commisurato alla natura dell’uomo, mentre il secondo sarebbe irraggiungibile dall’uomo con le sue sole forze e reso effettivo e possibile solo in ragione dell’agire del Creatore

Esiste una natura pura?
Per quanto riguarda il concetto di “natura pura” de Lubac sottolinea come questo sia stato trasformato nella base di un sistema di pensiero in risposta alle crisi prodotte dalle controversie baianista e giansenista fra XVI e XVII secolo. Secondo il padre gesuita la problematica della “natura pura” si gioca tutta all’interno dell’agostinismo moderno, come passaggio problematico di interpretazione dell’eredità di Agostino, alle cui dottrine sia Baio che Giansenio attingono con una certa fedeltà. Tale atteggiamento verso l’Ipponate, nota de Lubac, ha reso le posizioni dei due autori fra loro solidali, quasi le due parti di un unico blocco dottrinale eterodosso che considerava lo stato primitivo di Adamo come stato naturale, corrotto poi dal peccato e necessitante dell’intervento della grazia. La conseguenza di questa impostazione era l’impossibilità di una “gratuità” e “libertà” nell’opera della grazia divina, che era in un certo senso necessitata dallo stato corrotto dell’uomo postlapsario. L’elaborazione di una dottrina della “natura pura” si colloca in questo quadro storico, come parte di un processo culturale ben datato cronologicamente che ha certamente le sue fonti nella tradizione patristica e negli scritti di Tommaso d’Aquino, ma che non risale nella sua genesi concettuale né all’età di Agostino né alla scolastica medievale. L’idea di “natura pura” avrebbe trovato spazio per la prima volta nell’opera del cardinal Caietano, per poi essere assunta e sviluppata nei decenni successivi fino a diventare un vero e proprio sistema di relazioni fra natura e soprannaturale con i maggiori autori della seconda scolastica.
La riflessione teologica precedente il XVI secolo aveva invece affrontato la questione del rapporto fra i due ordini in modo diverso, come Lubac tenta di chiarire nella seconda parte del suo saggio. Attraverso una lunga e analitica carrellata attraverso i testi lo studioso gesuita tenta di tracciare il quadro del modo in cui il problema era discusso dagli autori cristiani a partire dall’età patristica e poi lungo tutto il periodo della scolastica medievale. Il tratto caratterizzante la posizione dei Padri, a giudizio di Lubac, è la consapevolezza che la natura umana creata da Dio è imperfetta e quindi ordinata al raggiungimento di una perfezione che ha il suo modello in Dio stesso. Si tratta di una impostazione di fondo che Lubac ritrova nei testi di Anselmo d’Aosta e Bernardo di Clairvaux così come nelle Sentenze di Pietro Lombardo e in generale in tutti i maggiori autori del XII secolo.
Rispetto alla tradizione patristica Lubac nota un momento di svolta con il passaggio al XIII secolo, cioè al momento in cui la riflessione teologica cristiana si trova a doversi confrontare con il delicato passaggio dell’introduzione dell’aristotelismo nel discorso teologico, causa di quella che lo studioso definisce nei termini di una “tentazione” che si misura in modo significativo sulla questione della possibile assimilazione delle intelligenze separate di Aristotele con le gerarchie angeliche descritte da Dionigi l’Areopagita.
Il problema specifico dello statuto delle sostanze angeliche, nota Lubac, poneva in questione, in modo più generale, la questione della possibilità di peccare. Se concepite nei termini delle intelligenze separate aristoteliche infatti, queste creature non avrebbero potuto peccare, perché necessitata nel loro agire. Lo studio dello statuto delle sostanze angeliche poneva quindi la più generale questione del rapporto fra libertà e impeccabilità. Il panorama dei dibattiti teologici che animano il XIII secolo è tracciato da Lubac come lo sfondo problematico su cui leggere il formarsi della posizione di Tommaso d’Aquino. Il teologo gesuita mette in luce una evoluzione nella posizione del domenicano, analizzando i suoi scritti secondo un ordine cronologico che dal commento alle Sentenze, passando per le Quaestiones disputatae de Veritate, la Summa contra Gentiles e il Compendium theologiae, arriva alle formulazioni più mature delle Quaestiones disputatae de Malo e della Summa Theologiae. Dalla ricostruzione storica offerta nella pagine centrali di Surnaturel emerge una visione del rapporto fra natura e soprannaturale segnata dall’idea che l’intera creazione sia naturalmente esposta al rischio del peccato e della colpa e che questo giustifichi la conversio in Deum, la conversio in id quod est supra naturam, come necessaria alla salvezza della creatura.

Un Tommaso diverso

Il quadro del rapporto fra i due ordini che Lubac individua negli scritti dell’Aquinate è quello nel quale vengono sistematizzati i frutti di una ricerca che, già a partire da Anselmo d’Aosta, aveva distinto fra atti naturali necessitati e atti non naturali e non necessitati, fra un appetitus naturalis e un appetitus liber della volontà. Come nota Lubac, Tommaso è in questo erede e continuatore della tradizione di pensiero che lo precede e di cui assume in pieno il linguaggio e i concetti fondamentali. Al tempo stesso l’Aquinate mostra però una piena originalità, nella misura in cui nel suo discorso i termini supra naturam e supernaturalis acquistano una posizione di rilievo rispetto a predecessori e contemporanei. La distinzione che questo comporta fra natura e soprannaturale ha nelle opere del teologo domenicano non comporta in alcun modo, nota il gesuita, l’idea di una sufficienza della natura e quindi una distinzione fra il Dio dell’ordine naturale e il Dio dell’ordine soprannaturale, cioè fra il Dio creatore e il Dio che opera mediante la grazia. Tale distinzione è piuttosto il frutto di una specifica contingenza storico-dottrinale risalente alla fine del XVI secolo, nella quale la distinzione fra natura e soprannaturale viene fissata con chiarezza in modo da rendere ragione della gratuità dell’intervento della grazia. Dagli scritti di Tommaso invece emerge invece la chiara e netta convinzione che ogni creatura spirituale, cioè dotata di ragione, è di per sé libera e soggetta al rischio di peccare.
Il quadro che viene così fissato è quello di una distinzione fra natura e soprannaturale che si gioca nei termini di una continuità fra i due piani. I termini naturalis e supernaturalis, si nota, non sono in contraddizione fra loro, come emerge dalla constatazione, propria dell’Aquinate, che la natura umana è caratterizzata da un naturale desiderium di vedere Dio. Questo crea una continuità fra i due piani che è fondata su una visione antropologica nella quale, nota Lubac, è centrale la saldatura fra aristotelismo e patristica, la natura pensata come espressione di proprietà e fonte di attività e la teologia dell’imago Dei dei Padri. La fusione di questi due elementi percorre l’intera opera di Tommaso ed è la cornice di una visione della natura umana come orientata alla visio beatifica quale suo fine proprio. E tale tensione dell’uomo, della creatura razionale, al proprio fine naturale è libero e autonomo, non necessitato. Non vi è quindi per l’uomo una doppia finalità, naturale e soprannaturale, ma un unico fine a cui egli tende in virtù di una inclinatio naturalis, di un desiderio naturale di vedere Dio.
Lo studioso gesuita inizia a precisare che all’interno della tradizione patristica, così come nei testi degli autori medievali e di Tommaso d’Aquino, non vi è quella distinzione e opposizione fra ordine “astratto” e ordine “storico” che invece viene posta nella modernità e che si traduce nella formulazione della nozione di “natura pura”. Al contrario, l’esistenza di una distinzione fra natura e soprannaturale è quella fra due sfere contigue in ragione dell’unica finalità degli esseri razionali: la visione beatifica che è finalità soprannaturale. L’esame dei testi e dei documenti, stando all’orizzonte storico ricostruito da Lubac, indica nel XVI secolo il momento in cui la dottrina della “natura pura” viene formulata e quindi sviluppata, in risposta ad una crisi contingente che la teologia cattolica si trova ad attraversare. Di per sé tuttavia la dottrina della “natura pura” non appare necessaria per spiegare le modalità del rapporto fra creatura e Creatore, nella misura in cui lo spirito creato dotato di ragione è naturalmente capax Dei, come suggerisce il pensiero dell’Aquinate nella ricostruzione di Lubac. Il rapporto fra natura e soprannaturale viene allora declinato dal teologo gesuita utilizzando la categoria del “mistero” che rende ragione di una tensione irriducibile fra i due termini costitutiva dell’essere umano.

Leggere Tommaso con gli occhi di Pico: la libertà dell’imago Dei

La ricerca di Lubac pone così l’accento sulla necessità, per il sapere teologico, di orientare il suo interrogarsi sull’essere umano a partire dalla Scrittura. Ed è questo che, all’inizio degli anni Settanta, il teologo francese sviluppa a partire dal contenuto della Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, dove il carattere razionale dell’essere umano viene sviluppato fino a spiegare che l’essere a immagine di Dio fa della natura umana una realtà in sé stessa indeterminata, che si definisce sulla base dell’operare della facoltà intellettiva e del suo accogliere o meno l’opera della grazia.
Il volume Pic de la Mirandole (1974) segna una ripresa e in un certo senso un ulteriore sviluppo della questione del rapporto fra natura e soprannaturale dal punto di vista della storia del pensiero teologico. Lubac vi traccia il perimetro di un Pico profondamente radicato nell’intelligenza della grande tradizione teologica scolastica, incluso l’Aquinate, al punto da innestare sulla nozione di uomo creato a immagine e somiglianza di Dio una vera e propria rilettura dell’antropologia e dei suoi fondamenti metafisici. L’imago Dei, nodo cruciale anche per Tommaso, viene qui letta come la chiave di lettura della natura umana, che emerge così svincolata dalla nozione di natura pura e dall’idea di un ordine fisico/biologico che la qualifica in modo compiuto. Piuttosto, l’essere umano, che si caratterizza in razione della sua razionalità e dunque anche per una vita morale che è l’esito di una determinazione razionale, è irriducibile al dato fisico, cioè alle sole caratteristiche che sono proprie della sfera corporea. Al contrario, il corpo diviene parte essenziale di un’integralità della persona nella quale la libertà – una libertà che è tale perché determinata dall’intelletto pratico – fa della natura qualcosa di aperto al mistero del soprannaturale. La natura umana è dunque qualcosa che in sé non è compiuto, ma al contrario può determinarsi in ragione dell’opzione per la trascendenza. Lo studio su Pico del 1974, dunque, completa il lungo itinerario di ricerca sul soprannaturale da parte di Lubac, aprendo l’orizzonte ad una visione del rapporto fra divino e umano nel quale la libertà del secondo assume un valore essenziale per l’operare del primo. È il fatto che la natura umana di determinare sé stessa mediante l’uso della razionalità, dunque al di fuori di schemi predeterminati, che la rende capax Dei e dunque “luogo teologico”, nel quale è possibile l’agire della grazia. Un agire che ha una duplice valenza: è certamente principio di umanizzazione di ciò che, nel creato, si dispone ad accogliere l’amore di Dio, ma è anche spazio in cui è possibile leggere e comprendere la fede creduta alla luce di quei segni dei tempi che fioriscono nella vicenda umana. Ed è forse questo il caso della grande attenzione di molti, giovani soprattutto, alla sfera dell’affettività e dell’amore relazionale che anima il dibattito di questi primi decenni del XXI secolo.

 

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