Segreto, confessione e abusi: il cardinal Federigo, l’Innominato e Lucia


innominato

La tradizione del sacramento della penitenza deve restare vigilante su alcuni snodi fondamentali della sua evoluzione storica. La pressione degli eventi può certo portare ad esagerazioni, che spesso condividono, sorprendentemente, alcuni “luoghi comuni” fondati, che però facilmente diventano unilaterali. Così a verità che si possono dimenticare, e devono essere invece ricordate, corrispondono evidenze sospette, perché non fondate, tendenziose e svianti. Il card. Piacenza ha ricordato proprio oggi una verità che ha fatto parte della tradizione sacramentale in modo profondo e che deve essere accuratamente difesa: ossia il segreto del confessionale. Colui che riceve la confessione sacramentale è tenuto al segreto più rigoroso. Tale segreto non può essere equiparato né al segreto professionale né a forme parallele di “copertura” o di “anonimato”. Il segreto è una delle condizioni fondamentali della confessione, almeno per la forma che essa ha assunto a partire dal II millennio nella tradizione latina.

Ma questa ammissione, che merita tutto il rispetto, non permette di risolvere con disinvoltura la questione della “confessione di abuso verso terzi” che un soggetto battezzato faccia al proprio confessore. Le parole del Cardinale, infatti, dicono una verità che non può essere messa in discussione. Ma non dicono tutta la verità. Non possiamo trarre, da questa affermazione, una serie di conseguenze che sembrano “ovvie”, ma che ovvie non sono. Voglio qui soltanto presentare le “altre verità” che occorre ricordare, perché la affermazione del Prefetto della Penitenzieria apostolica non diventi una affermazione ambigua.

a) Non sorprende che il discorso sul “segreto” possa apparire nel testo della intervista piuttosto ultimativo. Perché le fonti di questo ragionamento sono alterate da una nozione limitata e sistematicamente incompleta del sacramento della penitenza. Non a caso il Cardinale Piacenza cita tra le sue fonti il “codice di diritto canonico” e la definizione del canone 959-960. Proprio il codice ha diffuso, a partire dal 1917, una concezione formalistica del sacramento. Seguendo il codice, si potrebbe pensare che la confessione consista semplicemente nel confessare il peccato e ricevere il perdono. Ma qui manca tanto la interiorità quanto la esteriorità. La forma burocratica del sacramento non restituisce la ricchezza della tradizione.

b) Se si resta in questo modello si fa della penitenza una specie di “nuovo battesimo”, per il quale non è necessaria alcuna penitenza. Una specie di “azzeramento della esperienza” che si realizza ogni volta in cui un battezzato si confessa. Ma anche questa è una forma di grave dimenticanza. Uno dei nomi più interessanti con cui il Concilio di Trento definisce la confessione è invece “battesimo laborioso”. Qui troviamo una linea viva della tradizione. Fare della confessione una sorta di “secondo battesimo non laborioso” è un errore sistematico molto grave e che si paga caro.

c) Che cosa significa che il sacramento della riconciliazione deve riscoprire il suo carattere “laborioso”? Significa che non può ridurre il “dolore interiore” all’atto di dolore e le opere penitenziali a 10 Ave Maria! Questa differenza diventa assolutamente decisiva quando il sacramento della riconciliazione elabora effettivamente una “condizione di scomunica” come quella in cui cade chi si sia macchiato del peccato (e del crimine) di abuso.

d) La rilevanza “interiore” ed “esteriore” del sacramento implica la rilevanza interiore ed esteriore degli atti del penitente. Chi confessa una colpa grave entra in un percorso di trasformazione che è tanto interiore quanto esteriore. Questo non è un “surplus”, ma costituisce la ragione sistematica del sacramento. Che ha in comune con il battesimo l’atto del perdono, ma ha di specifico di chiedere la risposta del soggetto peccatore sulla bocca, nel cuore e nel corpo.

e) Pertanto al “segreto” del confessore non corrisponde il segreto del penitente. Anzi, una delle ragioni del sacramento è proprio quella di far uscire il penitente dal segreto. Al limite di chiedergli formalmente, come atto penitenziale, di parlare del proprio crimine con le autorità competenti. Questa non di rado è l’unica via per fare i conti davvero con il peccato.

f) Vi è però una ulteriore ragione. La Chiesa non può dimenticare che il sacramento non ha la sua giustificazione solo nella logica individuale del peccatore, ma trova il suo senso in una logica ecclesiale e anche sociale. Riparare al male compiuto è parte della tradizione che non può essere messa a tacere, come se fosse secondaria o addirittura deviante.

g)  Chi confessa il peccato di abuso trova un ministro che gli annuncia il perdono gratuito di Dio e la pena che questo perdono comporta. Tale pena può identificarsi con la disponibilità a scontare la pena prevista dall’ordinamento civile. Mostrare il legame della assoluzione ecclesiale con la condanna civile è uno dei compiti di confessori che abbiano a cuore il bene non solo del penitente, ma anche dei terzi che sono stati lesi dal peccato/crimine del penitente.

Un altro Cardinale torna qui molto utile. Infatti, se il Cardinal Federigo, nel famoso cap. XXIII dei Promessi sposi, avesse semplicemente assolto l’Innominato, chiedendogli soltanto di dire 10 Ave Maria, il romanzo del Manzoni si sarebbe inceppato. E Lucia, come “terza lesa”, sarebbe rimasta fuori gioco. Il card. Federigo ha rispettato il segreto, scrupolosamente, ma ha indotto il penitente a riparare, senza nascondergli che avrebbe avuto “tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!”

Se oggi ripetiamo soltanto la giusta affermazione sul segreto del confessionale e non sappiamo più parlare del suo lato esteriore, manifesto e pubblico, della gioia e delle pene che ad esso si legano, esibiamo evidenze sospette e dimentichiamo verità decisive. E questi non sono tempi per smemorati.

Share