Sentieri interrotti e “dispositivo Ratzinger”: considerazioni sulle orme di M. Neri e R. Ferrone


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A pochi giorni di distanza uno dall’altro, due articoli rispettivamente di Marcello Neri  sulla rivista italiana SettimanaNews (che si può leggere qui) e di Rita Ferrone  sul blog americano PrayTell (che si può leggere qui) sono intervenuti su questioni generali e particolari con una diagnosi molto simile. Discutendo sui “sentieri interrotti” della Chiesa contemporanea e sulle questioni intorno al “diaconato femminile”, questi due teologi elaborano una serie di riflessioni di grande interesse. Vorrei provare a mettere in luce alcuni aspetti di questi due testi, mettendoli in relazione con una “dinamica magisteriale” dalla quale dobbiamo tentare di uscire e che ho chiamato, in un mio precedente post, “dispositivo Ratzinger”. Ma inizio con il presentare brevemente i due ragionamenti. Poi li confronto con lo “stile magisteriale” degli ultimi 40 anni, per trarne infine alcune conclusioni intorno all’attuale condizione teologica e magisteriale.

1. M. Neri e le occasioni perdute

L’analisi proposta dall’autore sulla crisi teologica della Chiesa cattolica può apparire molto, persino troppo severa. Egli tuttavia ha buon gioco nel riconoscere tutto ciò che la Chiesa avrebbe potuto essere, e non è stata. Ciò accade, oggi, quando leggiamo di rivalutazioni della “teologia della liberazione” o di riabilitazioni di teologi come Drewermann. Queste riabilitazioni tardive, rilette 30 anni dopo, esigono una diagnosi chiara: abbiamo buttato via possibilità di Chiesa che oggi diventano molto difficili, per non dire impossibili. Con la presunzione di un “sapere superiore” abbiamo tagliato il ramo su cui tutti sedevamo. Di qui l’istanza verso una grande riconciliazione, che sappia tener insieme ciò che invece, in questi ultimi 40, abbiamo facilmente contrapposto ed escluso. Aver fatto morire pezzi di Chiesa possibile rende oggi tutti responsabili di una minore libertà e di un impaccio maggiore, di fronte alla freschezza con cui lo Spirito soffia e dovrebbe essere ascoltato e corrisposto.

2. R. Ferrone e le nuove possibilità

In un semplice resoconto di un Simposio tenuto negli USA e dedicato al “diaconato femminile”, R. Ferrone ricorda due elementi importanti, che possono integrare il testo di M. Neri. Entrambe vengono dall’intervento che P. Pottier, uno dei componenti della Commissione papale di studio sul diaconato femminile, ha svolto nel corso del Simposio. Da un lato egli ha ricordato che alle tre richieste dell’episcopato tedesco a papa Giovanni Paolo II per il diaconato femminile, si rispose drasticamente (ma evasivamente) ribadendo semplicemente che le donne “non potevano essere ordinate preti”; d’altra parte lo stesso Pottier proponeva una rilettura del rapporto tra “maschile e femminile” nell’ambito del ministero ecclesiale, basato non sul principio di “complementarietà”, ma su quello della “promozione”: il rapporto tra maschile e femminile non funziona sulla base delle “reciproche lacune”, bensì piuttosto sul potenziamento delle caratteristiche di ciascuno attraverso la presenza e la azione dell’altro.

3. Il “dispositivo Ratzinger” come criterio di interpretazione

Ciò che entrambi gli autori segnalano, per quanto in ambiti disciplinari e in culture ecclesiali assai diverse, costituisce un problema comune alla Chiesa universale. Esso discende, io credo, da una semplificazione indebita del rapporto con la storia e da un irrigidimento dottrinale del rapporto con la pastorale. La radice di questo atteggiamento consiste in una “strategia” che J. Ratzinger ha introdotto nella Congregazione per la Dottrina della fede, a partire dagli anni ’80. Esso comporta una riduzione della autorità alla “rinuncia alla autorità”.  Si tratta di un luogo comune molto affascinante, che assume talvolta una notevole rilevanza nella esperienza ecclesiale e che il magistero può e deve utilizzare in passaggi complessi. Si traduce, formalmente, in una dichiarazione di “non possumus”, dalla quale deriva, però, non una perdita di potere, bensì una vera “blindatura” del potere.

Poiché ho già presentato in un post precedente questo modello di magistero (cfr. qui), mi limito qui a richiamarne il centro vitale in pochi punti qualificanti. Vorrei identificare con maggior chiarezza il cuore di tale argomentazione in un ragionamento artificioso – che per certi versi appare come una sorta di “sofisma” – e che non è difficile attribuire a J. Ratzinger, in una parabola temporale di almeno 35 anni, che va dal 1977 al 2013. Si tratta di un “dispositivo teorico” che realizza, mediante una indiscutibile finezza retorica, un risultato prestabilito: bloccare ogni cambiamento e far prevale, affettivamente prima che concettualmente, un primato dell’antico sul moderno. E’ un “dispositivo di blocco”, che blocca affettivamente, “per attaccamento”, ogni progetto di riforma. Eccone le caratteristiche:

a) L’apporto di questo “modello di pensiero” è assai significativo poiché riguarda prima il Ratzinger Arcivescovo, poi il Ratzinger Prefetto e infine il Ratzinger papa: è cioè il frutto non del “primo Ratzinger”, libero da impegni pastorali, ma del “secondo e ultimo Ratzinger”, impegnato con responsabilità crescenti a livello diocesano e poi, ben presto, di Chiesa universale.

b) Il cuore della argomentazione è il frutto non soltanto di una indiscutibile competenza teologica, ma anche della abdicazione alla ragione, in una forma piuttosto marcata, per dar spazio ad un “affetto”, o, ancora meglio, ad un “attachement”, ad una “attaccamento” irrinunciabile e assunto come auctoritas indiscutibile: la ratio cede ad una auctoritas affettivamente sovradeterminata, e per questo incontrollabile.

c) Per tale motivo oso attribuire al ragionamento la qualificazione di “dispositivo”: esso non spiega razionalmente, ma avvalora retoricamente e impone giuridicamente una soluzione che non ha solide basi se non in un affetto. Ciò determina l’effetto di far “evaporare” ogni legittima istanza di cambiamento, che trasforma immediatamente, e direi quasi forzosamente, in una contraddizione con gli affetti più cari e perciò in una negazione e in una minaccia della tradizione.

d) Funziona, infine o forse anzitutto, da supporto teorico perfetto, quasi da assioma indiscutibile, per affermare un assetto resistente e immobile della Chiesa, di fronte ad un mondo minaccioso ed infido, al quale la Chiesa non deve piegarsi. Recuperando temi e motivi dell’antimodernismo di un secolo prima, il “dispositivo” opera perfettamente da “blocco” contro il disegno riformatore del Concilio Vaticano II, percepito sempre meno come risorsa e sempre più come “deriva”.

4. La traduzione della tradizione di papa Francesco

Se la Chiesa pensa che l’unico modo di essere fedele al Vangelo sia continuare in tutto e per tutto come prima – sia dottrinalmente sia disciplinarmente – si convincerà subito di dover restare assolutamente immobile per essere pienamente se stessa. Farà dell’immobilismo la sua ossessione. A questa tentazione Francesco ha voluto rispondere con una parola profetica, ripresa letteralmente dal Concilio Vaticano II, che vuole anzitutto persuadere la Chiesa e il mondo di due cose:

– che la fedeltà è mediata dal movimento, dalla conversione, dall’uscire per strada, non dalla stasi, dalla paura e dal chiudersi tra le mura;

– che per muoversi occorre riconoscersi la autorità di stare nella storia della Chiesa e della salvezza in modo partecipe e attivo, non come spettatori muti e passivi o come semplici “notai”.

Tale considerazione trova più di una resistenza non soltanto nella inevitabile inerzia del modello da superare, ma anche in alcuni “luoghi comuni”, autorevolmente sostenuti.  Questo è uno dei punti chiave del “magistero negativo”, che la tradizione antica, medievale e moderna ha coltivato con attenzione e con cura. Si tratta, in ultima analisi, di una “autolimitazione del magistero”. Ma tale autolimitazione, che di per sé è a garanzia di “altro”, e che dunque dovrebbe arginare e ostacolare le forme della autoreferenzialità ecclesiale, è entrata con grande forza nella esperienza ecclesiale degli ultimi decenni, in particolare a partire dalla fine degli anni 70. E ha progressivamente escluso possibilità ecclesiali e semplificato o rimosso le questioni. Accettare che la storia abbia qualcosa da insegnare: questa è la speranza del Concilio Vaticano II. Nel disperare della storia è la tentazione più insidiosa del “dispositivo-Ratzinger”, che ancora pesa non poco sia sul nostro modo di considerare le questioni, sia sul nostro rifiuto di riconoscerci una vera autorità per decidere responsabilmente di esse.

 

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