Senza discriminazioni, ma non senza differenze: una bella sfida


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Come si fa a non discriminare? Il linguaggio, pur con i suoi limiti, può fare molto. Una società che si orienti alla tolleranza, deve portarla anzitutto nelle parole e nei pensieri. Così può esprimere una esperienza di accoglienza più universale e assumere forme espressive più attente a come suonano le parole non solo nelle orecchie proprie, ma anche in quelle altrui. Però c’è anche una “usura della tolleranza” (Ricoeur). La tolleranza si “usura” nel momento in cui perde le differenze da cui nasce e così inizia a generare indifferenza. Le differenze possono fare molto male, ma la indifferenza può essere il male peggiore.

La piccola discussione che si è aperta intorno al documento della Equality Commission deve essere ricondotta alla sua vera dimensione. Che non può essere travisata con titoli esagerati e con vere e proprie menzogne. Nessuno si è sognato di “vietare” né la parola Natale né il nome Maria.  Piuttosto si tratterebbe di sostituire ai nomi “qualificati da una differenza”, appellativi più “indifferenti”.

Proprio qui, però, sta il punto. Capisco bene che, in determinate circostanze, sia preferibile utilizzare terminologie più “neutre”. Lo facciamo tutti, a seconda dei contesti e delle circostanze. Ciò che deve essere invece discusso è l’obiettivo fondamentale: come creare una società davvero pacificata e non discriminante?

Qui le strategie sono due: siamo più rispettosi e meno discriminatori se eliminiamo dal linguaggio tutte le differenze? Oppure se manteniamo le differenze, ma sappiamo rispettarle e onorarle come un arricchimento comune? In effetti le “feste” e i “nomi” nascono solo da differenze di storia, di fondazioni, di miti e di riti, di cui la società vive.

Quando le “feste religiose” diventano “feste civili” – il Natale, la Pasqua, la Pentecoste (che a loro volta sono diventate feste religiose da adattamenti precedenti) – la terminologia con cui vengono chiamate risulta inevitabilmente differenziata. E le lingue elaborano queste esperienze in modo a loro volta differenziato. In Italia chiamiamo “Domenica” ciò che gli inglesi chiamano “Sunday”, ma loro chiamano “Christmas” ciò che noi chiamiamo “Natale”. Così si potrebbe astrattamente avere un problema con “giorno del Signore”, ma non con “giorno del Sole”, con “Christmas” ma non con “Natale”. Le lingue sono imprevedibili almeno quanto i progetti degli umani. Le diverse parole possono avere un peso variabile impattando su altre sensibilità e altre confessioni. Ma il punto decisivo è questo: la tolleranza viene favorita dalla indifferenza di un linguaggio “neutro”, o dall’acquisito rispetto verso “linguaggi qualificati”? Come si costruisce la convivenza pacifica? Eliminando le differenze come minacce alla pacifica convivenza o rafforzando il rispetto per le differenze da intendersi come ricchezze comuni?

Possiamo dire “buon Ferragosto” o “buona Assunta”, ma non sono certo che il primo augurio sia più tollerante del secondo.  La ostentazione di una differenza che emargina resta problematica e deve essere sempre evitata. Ma la sottomissione ad una indifferenza che non capisce più le ragioni della festa è altrettanto discutibile. La prima può generare una imposizione violenta, ma la seconda può aprire ad una disorientata indolenza.

Il tempo assume un senso se è segnato da differenze: belle cose di cui far memoria e grandi eventi da attendere ancora. Le “feste” hanno tutte questa logica “diversa”, che irrompe e che sorprende. Una festa “programmata” è una festa senza fuoco, senza luce, senza racconto, senza vita. Dire “buone feste” è possibile e non sarà mai un reato, ma solo perché non dice quasi niente. Ma se la festa è vuota, se diventa solo “vacanza”, se è acquisita solo per differenza dal lavoro, se è solo “non lavoro”, è troppo poco. Per festeggiare ci vuole un fuoco vivo, una promessa non infranta, un perdono che si rinnova, una liberazione inattesa. E ogni tradizione ha i suoi eventi e le sue narrazioni. La società tollerante, se non vuole usurare la tolleranza, e mutarla in indifferenza, deve custodire i diversi nomi propri, e non lasciarli cadere in un generico neutro festivo.

Per dire la eguaglianza fino in fondo possiamo usare solo parole della differenza. Le formule di saluto, come si sa, possono variare. Molto corretto e senza problemi è “Buon giorno”: espressione pulita ed elegante, ma nulla più. Se però vogliamo gustare di una bella confidenza, rompiamo l’equilibrio paritario e diciamo “Ciao”. Dire “sono tuo schiavo” non è il massimo della equality, ma è l’unico modo per essere davvero in un rapporto senza discriminazioni. Mi discrimino per te: quale migliore eguaglianza? Tra la forma e la sostanza del linguaggio inclusivo resta sempre un divario non anticipabile, che ogni lingua elabora in modo diverso, e che la sorveglianza puramente formale rischia di mancare nel suo bersaglio sostanziale: quello di poter essere universalmente riconosciuti in una storia particolare, contingente, non necessaria e per questo degna del massimo rispetto.

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