Severino, metafisica neoclassica e metafisica classica (di Marco Cavaioni)


Dopo il dialogo tra Marco Cavaioni e me, con il successivo intervento di Nicola Garau, ora Cavaioni interviene con un testo molto più ampio e impegnativo, che ha il merito di presentare le differenze tra due scuole italiane di metafisica. Si tratta di un contributo molto accurato e chiarificatore del dibattito tra Bontadini-Severino e Bacchin-Stella, che Cavaioni restituisce con rara limpidezza. (ag)

L’essere e il pensare secondo due “scuole metafisiche”

di Marco Cavaioni

Sono davvero grato al Prof. Grillo e al Prof. Garau per la disponibilità al dialogo e per le importanti osservazioni proposte nei loro precedenti interventi che, in qualche modo, mi riguardano e che, soprattutto, considero preziose per un autentico confronto nel merito delle questioni che, pur da prospettive differenti, ci accomunano.

Dialogare non significa, come si sa, giustapporre diversi monologhi ma non significa nemmeno doversi trovare d’accordo tra discutenti. L’accordo vero si dovrà trovare, mediante il dialogo, con la verità stessa, per quanto possibile.

Cercherò, nella presente replica, di essere breve, dal momento che in questa sede ci dobbiamo, credo, limitare ad indicare linee portanti, delineando le questioni nei loro contorni fondamentali (eventualmente entrando, poi, un po’ più nel dettaglio delle tematiche).

Premetto che, per quanto mi ritrovi pienamente, anche per ragioni biografiche, nella Scuola padovana di Metafisica classica (le cui punte di diamante speculative sono effettivamente da individuarsi in Bacchin e Stella, come riconosce lo stesso Garau), non ho certo la pretesa di restituirne la “autentica interpretazione”. Nondimeno, cercherò di dire qualcosa a riguardo, per come ho potuto recepirne le istanze, facendole mie.

Sarò, per tali ragioni, piuttosto schematico, auspicando di risultare comunque perspicuo.

Anzitutto, noterei che vi è un abisso – certo sottile, ma profondo – tra la Metafisica neoclassica (Bontadini, Severino) e la Metafisica classica (M. Gentile, Berti, Bacchin e Stella).

La differenza fondamentale si incentra proprio sulla questione della “semantizzazione” dell’essere.

Per la Scuola patavina l’essere è insemantizzabile e lo si dimostra mediante la riduzione a contraddizione del tentativo, fatto valere dalla Neoclassica, di semantizzarlo, giocoforza in virtù del pensiero del nulla (nonostante che il nulla sia l’impensabile stesso). È da chiedersi se sia effettivamente “pensiero” il “pensiero dell’impensabile”, ovvero come possa l’impensabile, se è tale, lasciarsi pensare, ma restando impensabile.

Devo tralasciare, qui, la cosa più importante ossia la dimostrazione, con cui, nei rispettivi lavori, Bacchin e Stella criticano con forza e con argomentazioni sottili nonché a mio avviso inaggirabili, tale movenza, della quale, anzi, vengono esplicitati i presupposti impliciti, rivelandone non solo il carattere presuppositivo, dunque non propriamente teoretico (nessun presupposto è teoretico, essendo subìto dal pensiero), ma anche e soprattutto il carattere aporetico se non contraddittorio. Faccio un solo esempio, per cenni brevissimi.

La risoluzione, sedicente, dell’aporetica del nulla da parte di Severino (soprattutto in La struttura originaria, cap. IV) assume il “nulla” come un significato autocontraddittorio, che si strutturerebbe di due momenti: il nulla vero e proprio cioè l’assoluto negativo (ma il negativo può essere assoluto?) detto anche “nulla-momento” (il “mero non essere”, diceva Bontadini in Per una teoria del fondamento) che costituirebbe uno dei due termini tra loro opposti per contraddizione, mentre l’altro termine sarebbe rappresentato dal “suo” [del nihil absolutum] positivo significare.

Ebbene, tale strutturazione, che ho per sommi capi richiamato, funziona soltanto se si postula (ma non mi consta lo si dimostri) che il mero nulla non sia contraddizione e, solo così, potrà fungere da termine (incontraddittorio) di quella contraddizione tra pura negatività del nihil e positività del “suo” significare.

Insomma, ciò che costituisce l’assunto surrettiziamente fatto valere affinché si compia la “risoluzione” dell’aporetica del nulla è che sia intelligibile la distinzione, meramente postulata nel discorso severiniano, tra nulla (nihil, nulla-momento, puro negativo) e contraddizione (che è, peraltro, sempre auto-contraddizione, in quanto, mancando il riferimento ad un autò, senza cioè un medesimo respectus, non si potrebbe parlare di “contraddizione”): tale distinzione tra nulla e contraddizione ci sembra impossibile, nulla essa stessa.

Se, di contro, come osservano i metafisici autenticamente classici, il nulla (nihil absolutum) è già per se stesso una, anzi la contraddizione (di ciò che “non è, essendo” o – ed è lo stesso – di un “non essere che è” od ancora – in altri termini – di una negazione che, dovendo negare l’essere, dovrebbe negare il proprio stesso essere “negazione”), ebbene, allora il mero nulla cioè il puro negativo, essendo contraddizione, si oppone a sé ( = non è “sé” affatto né può venire assunto come se fosse incontraddittoriamente “termine”) e non si oppone affatto al positivo, tantomeno il positivo si oppone al negativo (il positivo verrebbe negativizzato a sua volta, come non-negativo, in tale opposizione).

Con questa conclusione, che fa strame della cosiddetta “opposizione originaria” di positivo e negativo (di essere e nulla), pilastro portante dell’intero impianto severiniano: che opposizione e negativo sono la stessa cosa, la medesima inessenza. Il negativo è, in realtà, negativo di sé e, nell’opposizione, ciascuno dei presunti “due” opposti si oppone non all’altro opposto, intanto posto, ma a che l’altro opposto si ponga e, dunque, poiché l’altro opposto è la sua stessa condizionante posizionale, si oppone al proprio stesso porsi, cioè a se stesso: l’opposizione si rivela, dunque, “intrinseca” agli opposti, che sono la medesima scissione, la medesima non-posizione. L’opposizione (che per Severino è fondamentale ed innegabile), in ultima analisi, si rivela solo presupposta, mai posta.

Su questa ed altre questioni ritengo fondamentale, per chiunque ma anzitutto per chi concorda con la teoresi di Severino, la lettura dei due ponderosi volumi di Stella, Il concetto di relazione nell’opera di Severino. A partire da La struttura originaria, 2018 ed il successivo Metafisica originaria in Severino. Precisazioni preliminari e approfondimenti tematici, 2019. Essi costituiscono un’attenta, rigorosa analisi critica dell’intero opus maius severiniano, di cui viene commentata non solo la lettera esplicita, ma soprattutto le implicazioni teoretiche sottintese e non-dette ma operanti nel suo discorso.

La critica di Bacchin (formulata già negli anni ’60 e ripresa negli anni ’80) sulla questione decisiva del nulla, che ad avviso di Garau – come scriveva nel suo lavoro di Baccellierato – sarebbe da accomunare alle varie altre critiche rivolte a Ritornare a Parmenide che «non scalfiscono la proposta speculativa severiniana», in realtà è semplicemente rimasta incompresa da Severino.

A sostenerlo non è solo il sottoscritto ma, per esempio, anche C. Scilironi, il quale negli anni ’80 si attestava su posizioni marcatamente pro Severino, esprimendosi contra Bacchin (e Berti) in termini sovrapponibili a quelli utilizzati da Garau, ma che, in seguito e con la massima nettezza in un recente saggio apparso sulla Rivista di Filosofia teoretica Cum-Scientia (fascicolo 9/2023), accusa, invece, Severino di aver perduto – o preferito perdere – una grande occasione speculativa, eludendo o non intendendo correttamente, dunque credendo di aver liquidato, il senso effettivo dell’obiezione rivoltagli da Bacchin circa la questione del nulla, nulla che, in effetti, è funzionale alla determinazione semantica dell’essere. In questa, giustamente, Stella (Sul riduzionismo, 2020) individua l’errore fondamentale, appunto perché essa esprime un riduzionismo teoretico, sotteso ad ogni altra forma di riduzionismo teorico.

Determinare, definire semanticamente, ovvero comunque oggettivare, l’essere sarebbe possibile – su questo Bacchin e Stella convengono pienamente – soltanto se l’essere fosse riferibile, fosse termine possibile (incontraddittorio) di rapporto; senonché, per essere riferibile e termine di riferimento (relatum), si esigerebbe che non fosse assoluto; ma un essere non-assoluto non è l’essere, bensì un ente, un determinato, un condizionato. Pertanto, è possibile semantizzare, non importando contraddizione, soltanto ciò che è relativo, non certo l’assoluto, non appunto l’essere inteso nella sua assolutezza “parmenidea”. Del resto, Stella è uno dei pochissimi, nel panorama filosofico mondiale, a questionare se il cosiddetto “parricidio” dell’Eleate, per mano di Platone, sia mai epistemicamente avvenuto (Severino, ad esempio, lo dà per scontato ed, anzi, ritiene di doverlo portare sino in fondo, senza domandarsi se quel “parricidio” ovvero il “superamento” dell’assolutezza dell’essere, che revoca la consistenza ontologica del mondo, sia anzitutto intelligibile, logicamente giustificabile).

Preciserei – passando ad altra questione, in realtà intimamente connessa con la precedente – che l’identità o piena convertibilità di essere e pensiero (che resta preclusa tanto al realismo ingenuo con il suo presupposto “gnoseologistico”, per usare terminologia bontadiniana, quanto alla pretesa di semantizzare l’essere, che è pretesa di farne un pensato, come tale “interno” al pensiero, quanto anche alla sedicente risoluzione severiniana dell’aporetica del nulla, nella quale il pensiero “sporgerebbe” anche sul nulla, dovendolo appunto pensare come ciò che è – o sarebbe – opposto all’essere e da questo negato), ebbene, tale identità di essere-pensare non è un presupposto, come Garau obietta, dal momento che ad essere presupposta, epperò contraddittoria, sarebbe, semmai, la reciproca alterità tra i “due”: tra un essere impensabile, in quanto altro dal pensiero, ed un pensiero inessente, in quanto altro dall’essere.

Se, dunque, l’ipotesi opposta (quella che sostiene la non-identità di essere e pensare) si rivela, come pare, contraddittoria, l’altra ipotesi – che, restando l’unica, non è né altra né ipotesi, ma unica effettiva tesi – risulterà dimostrata innegabilmente, ovvero non potrà venire considerata un che di presupposto, in quanto non passibile di smentita.

Ora, l’impostazione di Bacchin e Stella è certamente, al fondo, parmenidea, ma – ecco il punto – l’univocità dell’essere, la sua assolutezza ovvero il suo costituire quell’assoluta unità in cui le determinazioni, le distinzioni vanno a fondo come al loro fondamento (in quanto assoluto, in effetti, l’essere è certamente uno ed univoco, ché due assoluti non si possono dare) è da pensarsi in senso intenzionale, non fattuale.

In ragione di ciò non si pone capo ad alcun monismo, anzi si rende impraticabile ogni forma di monismo: monistico sarebbe quell’esito in cui si estenuasse l’intenzione di univocità, assolutezza, unità.

Ma l’intenzione è esattamente ciò che non si può estenuare ed, anzi, sospinge oltre ogni “trovato”, per la consapevolezza che ciò che è veramente “cercato” (l’uno, l’assoluto, il vero, Dio) non coincide con nessun trovato, proprio in quanto è trovato nel cammino di ricerca.

Potremmo dire che l’intenzione è l’indefettibile slancio verso l’assoluto, evocato e sostenuto dall’assoluto stesso, rispetto a cui non è possibile – come per una sorta di grazia irresistibile universale – resistere ma, al limite, solo non averne piena coscienza. Questo, tuttavia, non impedisce l’azione dell’assoluto anche in chi, ancora, non se ne avvedesse.

Qui “intenzione” va presa in un’accezione ben precisa, da non confondersi con l’intenzionalità conoscitiva della fenomenologia (Brentano, Husserl) né con proposito o progetto, bensì nel senso di quell’irrinunciabile tendere alla verità, immanente in ogni affermazione, che costituisce l’essenza stessa del pensare.

Dunque, in-tenzione, nel senso precisato, non è relazione al vero, bensì toglimento in atto di ogni distanza (alterità) dal vero, anzi è idealmente un “perdersi” nel vero (in verità, perdendo – lasciando cadere – tutto ciò che appare vero, senza esserlo), onde essere tutt’uno con esso, uno con l’Uno, direbbe Meister Eckhart, ossia essere veramente.

L’intentio veritatis costituisce, pertanto, il negarsi di qualsivoglia relazione al vero, così come (proprio perché lo in-tende) è negazione di ogni pre-tesa identificazione immediata con il vero (o possesso conoscitivo del vero), essendo, piuttosto, una radicale ablatio omnis alteritatis.

In altre parole, con ciò si vuole indicare che, pensando, non si può non intendere sempre la verità e soltanto la verità (anche errando, infatti, non si intende di errare poiché, persino nell’errore e nonostante l’errore in cui di fatto si può sempre incorrere, ciò che l’errante intende è – senza alternativa – il vero). E, parimenti, per la medesima ragione per la quale si intende la verità – nel senso testé indicato, ovvero come trovarsi originariamente in essa e muoversi in essa –, non si può pretendere di reificarla in un qualche “detto”, in un “pensato” (con “pensato” ci si riferisce a tutto ciò che esiste, che è dato e che è dato in relazione ad altro, dunque in un con-testo di nessi e, difatti, esistere è per se stesso co-esistere).

In tal senso, sarà da concludersi che il vero è (ed, anzi, è il solo che veramente è), ma non esiste e, per converso, ciò che esiste non è vero, non è veramente, a dispetto della macroscopica evidenza che esso esibisce e in forza della quale pretende di imporsi come indiscutibile.

Per questo, pensare è problematizzare, è coscienza improblematizzabile che l’esperienza (tutto ciò che in essa e per essa si esperisce) non eccede il livello ipotetico, appunto problematico, ancorché il suo presentarsi (o apparire) lo presenti come “essente”. L’immediatezza (presunta) esperienziale ci induce a questo: che di un dato “x”, che ci appaia, non si dica che esso semplicemente appare ma che, per il fatto che appare, esso anche è.

Tale è il livello pre-filosofico, o doxastico, che è acritico e dogmatico – senza sapere di esserlo, peraltro, anzi proprio per questo –, livello che la filosofia, come atto critico ossia critica sempre in atto, dissolve.

Questo mi sembra, in parole povere, il cuore della cosiddetta “problematicità pura”, cifra teoretica della Scuola patavina, inassimilabile, per varie ragioni – nonostante la vicinanza come piega “problematica” negli sviluppi dell’attualismo gentiliano – con il “problematicismo” di Ugo Spirito.

Pur con una significativa differenza tra Bacchin e Stella (per il primo l’esperienza e la relazione che la struttura è problematica ma tale problematicità è improblematizzabile o teorematica ossia innegabile; per il secondo essa è contraddittoria, anche se non nel senso in cui la intendeva Bontadini come oppungnante la ragione, bensì nel senso che autentica esperienza è la coscienza incontraddittoria del necessario contraddirsi di ogni determinazione o, in termini hegeliani, di ogni figura fenomenologica), per entrambi, nondimeno, ad essere veramente è soltanto l’essere, ovvero Dio, l’assoluto.

Stella sottolinea come la relazione, indubbiamente fondante l’ordine dei determinati (egli enti, innegabili per Severino, nella loro presunta incontraddittorietà), se declinata come costrutto ipostatico (monodiadico) ovvero come medio tra determinazioni, si rivela essere una struttura antilogica, in quanto dovrebbe tenere assieme ciò che assieme non può stare: indipendenza dei suoi termini (irriducibili tra loro e già, in qualche modo, configurati come identità) e dipendenza (in quanto coessenziali, tali cioè per cui l’uno non si pone senza l’altro e viceversa: ciò significa che nessuno di essi consiste in se stesso soltanto).

Sicché la relazione, da status contraddittorio, si essenzializza in atto del riferirsi dei termini, atto che è il medesimo per entrambi e che porta nell’intimità ontologica di ciascuno di essi (non collocandosi, dunque, “tra” i relati ma “in seno” ad essi, nella loro costituzione) l’altro da sé, onde entrambi i termini correlati e la stessa relazione dovranno essere colti, allo sguardo dialettico e speculativo, come un puro atto ablativo, appunto perché si rivelano essere una contraddizione (sono, cioè, in loro stessi “sé et altro-da-sé”, “sé et non-sé”).

Ma il loro togliersi (il loro innegabile negarsi) non equivale ad un nichilistico finire nel nulla, bensì ad un “ritorno” nell’essere, nell’assoluto, restituendo l’originario e mai diviso intero metafisico.

Così concludeva Bacchin una delle sue opere principali (Anypotheton, 1975): «L’intero infatti avvolge da ogni lato ogni cosa; e non v’è lato che non si risolva totalmente nell’intero

E per Stella, tutti quei “significati” (termine che, in Severino, equivale ad “essenti”) non sono altro che segni, la cui natura è di risolversi in un puro atto di riferirsi, indicandolo, all’unico effettivo “Significato” che è appunto l’assoluto essere (Dio stesso), che costituisce il loro senso, nonché la ragione del loro togliersi (per essere più precisi: ciò che si toglie è la pretesa di essere veri dei dati, delle presunte “cose” esistenti che esperiamo, mentre vero è solo il loro ricondursi ad un atto di rimando all’essere, appunto alla verità, alla vera realtà).

In tal senso, quoad nos, l’assoluto è presente come de-assolutizzazione di ciò che si presenta come assoluto, senza esserlo, di tutto ciò che tenta di usurparlo, sostituendovisi. Tanto basta per dover evitare di parlare di un “apparire” dell’essere o del vero, stante che l’apparire non riesce a garantire nemmeno se stesso.

Ma per queste e molte altre questioni connesse devo rimandare almeno al lavoro di Stella Riflessioni teoretiche, 2023, in cui queste tematiche sono osservate in profondità.

Come corollario di ciò e per indicare come anche da parte nostra si intenda criticare radicitus l’immanentismo, non in quanto tale ma in quanto fallace, direi come segue: la più subdola e pericolosa, pur nella sua impotenza, “negazione” dell’assoluto e della sua essenziale trascendenza non è la sua negazione esplicita (che non riesce ad essere negazione, dovendo essere assoluta come negazione), bensì la moltiplicazione ovvero la divisione dell’assoluto (intero, essere).

In altre parole, l’autentico immanentista e riduzionista è colui che pretende di frammentare, conservandolo nei frammenti, l’assoluto; è, insomma, colui che dell’intero asserisce la necessaria od originaria articolazione in parti, in determinazioni, sicché egli, coerentemente, parlerà di “assoluti” al plurale.

Ma un intero diviso – distinto, frammentato, articolato, strutturato – è la contraddizione di un “indivisibile divisibile”: solo se divisibile potrà, in effetti, venire assunto come totalità di parti (tutto relazionale), anziché come unità semplice. Ma, appunto, solo di un “tutto” così assunto o, meglio, così presupposto (cioè come com-posto, come unione sintetica) si potrebbe legittimare l’analisi.

Senonché, se l’analisi presuppone la sintesi (analisi si dà solo di un com-plesso sintetico, mentre si infrangerebbe sull’intero simpliciter simplex, non “compromesso” cioè con altro), a sua volta la sintesi presuppone l’analisi (non si dà sintesi dell’unum o dell’identico con sé medesimo, ma soltanto di distinti cioè di elementi già analiticamente disposti).

Questo rimando reciproco di analisi-sintesi non è, forse, un circolo vizioso, il circolo del presupporre che lascia tutto infondato?

Una considerazione sulla analogia entis.

Se Bacchin e Stella sono critici verso un certo modo di intendere l’univocità dell’essere, come abbiamo sopra indicato, altrettanto lo sono verso il modo analogico di intendere l’essere, a me sembra.

Scarnificando al massimo: analogia dice proportio, quindi in ultima istanza ancora rapporto, relazione.

Ebbene, se – e su questo mi sembra che tra noi vi possa essere accordo – l’assoluto non è “identificabile”, non è cioè passibile di venire definito e determinato, come si potrà assumerlo quale termine di relazione?

Come recita un noto adagio, finiti ad infinitum non est proportio; questo, perché l’infinito non è determinabile, non è un termine possibile.

Così come l’essere, se non è inteso in senso assoluto (e così andrebbe innegabilmente inteso, anche se inevitabilmente lo riduciamo a semantema – sulla distinzione portante tra “inevitabile” ed “innegabile” si veda la trattazione di Stella sempre in Riflessioni teoretiche), finirebbe per essere ridotto ad ente, altrettanto l’infinito, se è appunto indeterminabile, non potrà essere trattato come un termine di rapporto.

Ma, se è così, l’analogia non pretenderà, forse, l’impossibile, ovvero di tener ferma l’irriducibilità a termine dell’essere (dell’infinito), epperò anche “in qualche modo” (ma quale?) di ridurlo a termine di rapporto? Questo “qualche modo” non sarà, forse, la contraddizione stessa?

Negare, dunque, che l’essere sia semantizzabile comporta di dover escludere che il linguaggio sia complanare al pensiero (in forza della suddetta distinzione dialettica tra livello “inevitabile”, appunto il linguaggio, e livello “innegabile”, appunto il pensare), ovvero che la struttura del linguaggio (relazionalità) totalizzi il pensiero nella sua “semplice” identità con l’essere, che è poi l’autocoscienza: essere pensando e pensare essendo o, con formulazione icastica che mutuo da Stella: «il sapere non può non essere sapere e l’essere non può non sapere d’essere».

Che il pensiero sia medesimezza piena con l’essere esclude – senza essere “esclusione”, che direbbe ancora rapporto ed alterità – che si possa dare un pensiero dell’essere (genitivo oggettivo), ovverosia un riferirsi (oggettivante) all’essere.

Ciò esclude, inoltre, che dell’essere si possa dire che “è”, per quanto suoni paradossale, per la ragione che lo “è” è per se stesso oggettivante ed oggettivazione comporta come tale dualità.

In questo senso, sì, l’identità di pensare-essere è effettivamente “immediata”, ancorché non sia immediata la sua restituzione ossia la presa di coscienza di essa.

Ma, appunto, solo l’essere-pensiero è tale immediatezza, mentre tutto il resto è mediazione, intesa nel senso dialettico e “ablativo” che sopra indicavo: come lo “sciogliersi” della relazione quale costrutto tra presunti immediati (come tali sottratti a mediazione, cioè sottratti a relazione, presuntamente autonomi rispetto alla differenza), uno sciogliersi richiesto dal senso autentico del relazionare per cui, platonicamente (Timeo, 31 c), si dirà che: «il più bello [κάλλιστος, superlativo di καλός, così come è il “buon” Pastore nel greco neotestamentario = il “vero” legame, l’autentica e compiuta relazione] dei legami è quello che di se stesso e delle cose legate ne faccia addirittura una sola». Ciò che si indica è, quindi, un “risolversi” nella pura e semplice unità dell’assoluto, rispetto al quale ed in seno al quale ogni distinzione e relazione va rigorosamente e innegabilmente tolta, essendo da sempre tolta, mai veramente posta.

Altrimenti, non sarebbe lecito parlare di unità: si tratterebbe, infatti, solo di unione (sintesi, unificazione) che, tuttavia, non contempla assolutezza. Del resto, se si nega l’assolutezza, si dovrà assolutizzare tale negazione (ma la negazione assoluta è il nulla, il negativo), con la conseguenza, inoltre, di non poter parlare neppure di relativo: se non vi fosse l’assoluto, nemmeno vi sarebbe il relativo (“relativo” rispetto a cosa?).

Circa la valorizzazione del piano delle “evidenze” (anch’esse, a mio parere, solo presunte) ossia circa la pretesa innegabilità del piano fenomenologico, riterrei opportuno domandarsi quale sarebbe la “ragione” (logos) della – intanto solo presunta – necessità di una «mediazione diversa da un principio logico», auspicata da Garau.

O non la si fornisce e, allora, tale necessità sarebbe una mera presupposizione; altrimenti, se tale ragione venisse fornita, per ciò stesso ci si contraddirebbe, poiché si confermerebbe il primato del logico sul fenomenologico.

Circa, infine, la distinzione tra teoresi e prassi, mi sembra valga una critica similare a quella che si svolgeva sopra rispetto alla distinzione tra pensiero ed essere ovvero tra un piano in mente distinto ed uno in re (se, del resto, tale distinzione valesse, mai si potrebbe attingere il secondo a muovere dal primo e, a rigore, nemmeno essere coscienti della loro distinzione, la quale, sino a prova contraria, è un pensato).

Che cosa sia “prassi” è – mi pare – già teoresi, essendo un concetto. Pertanto, annettere concretezza, come parrebbe, alla prassi è non avvedersi che il concetto di concretezza (che si annette al piano pratico) è esso la concretezza, è appunto la concretezzza del concetto.

Di più, ciò che è concreto o lo è in sé o non lo sarebbe mai, se dovesse appunto attendere integrazioni che lo concretassero: queste si innesterebbero su una base in se stessa astratta (non concreta) che renderebbe astratta ogni concretizzazione, rendendola quindi impossibile.

Per essere, dunque, più espliciti: concreta è la coscienza (teoresi) entro cui si agisce (prassi) e lo è originariamente.

Prima, in ogni caso, di trasformare (praticamente) la realtà, ci si dovrà domandare quale sia la vera “realtà”. A questa interrogazione non credo possa rispondere la prassi, in senso operativo, ma quell’atto radicale che è l’atto del pensare o coscienza critica, che domandandosi quale sia la vera realtà, dimostra di essere essa – in quanto atto critico rispetto ad ogni presunta realtà – la vera realtà e di esserlo, però, come intenzione di verità.

È, infatti, la verità, il solo vero criterio della critica svolta dalla coscienza rispetto a ciò che, presentandosi ad essa (o, meglio, in essa), accampa la pretesa di essere veramente.

L’atto di affidarsi – nella figura dell’intenzione inerrante di verità, quale presenza del vero nella nostra coscienza, presenza operante ed orientante – è, a mio avviso, la “fede” radicale in cui consiste il pensiero, ed è la vera certezza (oggettiva, non soltanto soggettiva) di sapersi da sempre sostenuti dal vero, anche nell’errore, da cui ci si può, quindi ci si deve, emancipare, certo con le nostre forze ma in virtù della luce della verità, che non conosce opposizione possibile.

Per noi non si dà alternativa all’intendere, sempre e comunque, la verità, sapendo che essa non ci può appartenere ma, nel contempo, avendo chiara la consapevolezza di non poter non appartenere essenzialmente ad essa, protendendoci verso essa, liberamente epperò incondizionatamente o, se si preferisce, di non poter non amarla senza riserve per farci “possedere” da essa, anziché possederla.

Un equivoco che, da ultimo ma non ultimo per importanza, andrebbe chiarito è il seguente. L’amore per la verità non esclude l’amore per gli uomini, anzi soltanto l’amore per la verità purifica l’amore per gli uomini.

Soltanto l’amore per il vero mi educa ad amare l’altro non come me stesso ma più di me stesso, con quella dedizione incondizionata ed oblativa (nonché reciproca) che è gratuità, nel senso di non essere condizionata da alcun “perché”, non essendo spinto a farlo da alcun movente né attendendo qualcosa in senso retributivo, bensì attuando un amore “divino”, divino perché ab-solutus, sciolto da condizionamenti, nei e nonostante i condizionamenti ineliminabili (inevitabili) che l’esistenza comporta, che, per dire meglio, l’esistere come tale rappresenta rispetto all’intenzione di essere, di ben-essere ovvero di essere nel Bene.

Marco Cavaioni

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