Sinodo e Concilio: pregare per camminare insieme


E’ appena uscito il volume L. Manicardi – A. Grillo, Pregare per camminare insieme. A partire dalle preghiere sinodali “Adsumus” e “Nulla est, Domine”, Prefazione di E. Borsotti, Magnano, Qiqajon, 2023. Nella prima parte, che copre 145 pagine, L. Manicardi presenta con accurata precisione le due preghiere di apertura e chiusura delle Assemblee sinodali e conciliari. Nella seconda parte, molto più breve (147-184) rifletto più in generale sul rapporto tra sinodo e liturgia. Da questa seconda parte traggo il primo paragrafo, che qui pubblico come post.

Il legame tra Concilio e Sinodo

“Ma in questa Chiesa, come in una piramide capovolta,

il vertice si trova al di sotto della base.

Per questo coloro che esercitano l’autorità si chiamano “ministri”:

perché, secondo il significato originario della parola, sono i più piccoli tra tutti”.

Francesco, Discorso per la COMMEMORAZIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DELL’ISTITUZIONE DEL SINODO DEI VESCOVI,

17 ottobre 2015

Molto importante mi sembra il fatto che nel titolo generale di questo testo vi sia la correlazione tra Concilio e Sinodo. Si tratta di camminare sulla strada conciliare, dalla quale ci siamo distratti per alcuni decenni. Questo è il primo dato da da riconoscere e da maturare: il Sinodo oggi, come prospettiva ecclesiale, appare particolamente arduo poiché per quasi tre decenni la Chiesa cattolica si è lasciata sedurre dalla ipotesi di raffreddare l’entusiasmo per il Concilio Vaticano II, come se quella stagione fosse passata, avesse fatto il suo tempo, e dovesse essere riconsiderata, sottoposta a revisione, forse anche posta sotto giudizio1. Fino ad arrivare agli eccessi di chi voleva proporre una “riforma della riforma” (liturgica, ma non solo liturgica), sollevando un sospetto su quanto realizzato subito dopo il Concilio sul piano liturgico e istituzionale. Per capire bene la novità che oggi torniamo a vivere, proviamo ad esaminare bene la condizione attuale:

a) Figli del Concilio

In realtà, a bene vedere, noi siamo ormai “nipoti” e “pronipoti” del Concilio. Chi è veramente “figlio” è papa Francesco, che è il primo papa che può essere definito “figlio del Concilio”. Questo implica un cambiamento strutturale assai importante, perché non dipende semplicemente dalla volontà o dalle intenzioni, ma dal fenomeno “inconscio” che si chiama “generazione”. E’ la evidenza della formula “nei secoli dei secoli”, che non indica solo “identità”, ma anche “differenza”. Una serie di papi hanno avuto la qualifica di “padri del Concilio” (ad essa appartengono Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI): sono padri perché erano vescovi (o anche solo “periti”, come J. Ratzinger) durante il Concilio e hanno generato i testi fondamentali di quella assemblea, con voti, consulenze, interventi, deliberazioni. Per questo, come padri, si sono sentiti responsabili del loro figlio, del Concilio! E come tutti i padri non sono stati mai del tutto sereni nel giudizio su di esso. C’era in tutti una certa tensione, una preoccupazione e una cura verso il figlio che talora diventava orgoglio, altre volte delusione, fino quasi al disconoscimento, al tradimento, al rinnegamento. Così vanno le cose tra padri e figli. Totalmente diversa è la relazione tra Francesco e il Concilio. Qui le cose sono capovolte: è Francesco ad essere figlio di un Concilio che gli è padre. In questo caso, con i ruoli capovolti, non vi è più una preoccupazione per il Concilio, piuttosto emerge un affidamento, una confidenza e un riferimento implicito al linguaggio conciliare, che ci sorprende: eravamo abituati a complesse alchimie tra continuità e discontinuità, mentre ora troviamo, di nuovo, la gioia dell’evangelizzare e il principio di misericordia, la fiducia nella autorità ecclesiale e la volontà di dialogo, che appaiono di nuovo esperienze vive e fresche come 60 anni fa! Questo è il miracolo delle generazioni! Una nuova generazione di papi inizia con Francesco, perché si è liberata dalla “accidia conciliare”. E perciò sprigiona nuove energie e nuove priorità, che sembravano tramontate.

b) Il sinodo come “condivisione reale”

Una delle difficoltà maggiori, quando abbiamo a che fare con una tradizione lunga duemila anni, è quella costituita dalla deriva retorica delle parole più alte. Una piccola spia di questo disagio appare nel nostro titolo dal piccolo aggettivo “reale”, che è rivelativo di un imbarazzo del linguaggio e della esperienza. Perché mai dovremmo aggiungere “reale” al termine “condivisione”, se non perché sappiamo che da tempo facciamo fatica a dare forma ad una condivisione convincente? Come vedremo, qui è in gioco una ragione che è dottrinale, oltre che disciplinare. Il ricorso alla terminologia “sinodale” mette in luce una intenzione lodevole, ma anche una certa fatica: perché il termine “sinodo” indica uno “strumento del governo pastorale”, che per secoli è stato utilizzato con uno stile sostanzialmente clericale: il Vescovo con il clero si radunava e valutava una serie di questioni, che venivano poi decise, in breve tempo, con opportune deliberazioni normative. Questo dispositivo istituzionale, perché possa diventare oggi uno strumento efficace, deve diventare anche altro da ciò che è stato. Una condivisione “formale” è sempre possibile. Perché diventi “reale” occorre che il soffio dello Spirito non resti catturato e chiuso in pratiche vecchie e in stanze con aria viziata, ma esca all’aria fresca (ma anche calda e fredda) della comunità ecclesiale plenaria, non preventivamente selezionata mediante quelle opposizioni escludenti (clero/laici e uomini/donne) che frustrano a priori ogni vera condivisione.

c) Responsabilità: ossia autorità e libertà in relazione

L’intera “comunità sacerdotale” è responsabile della Chiesa, come discepola del suo Signore. Questa grande consapevolezza, maturata mediante il Concilio Vaticano II, esige una profonda revisione delle forme con cui l’autorità si confronta con la libertà. Proprio su questo punto, che è decisivo, la ripresa della Concilio, nella attuale fase sinodale, appare particolarmente ardua. Il motivo, su cui ci soffermeremo a lungo nelle prossime pagine, può essere così anticipato: dal Vaticano II avevamo imparato che la Chiesa ha autorità sulla definizione della disciplina e della dottrina, restando vincolata dalla sostanza del “depositum fidei”, ma non dalla formulazione del suo rivestimento2. Per questo il Concilio ha saputo impostare una serie di riforme, di cui quella liturgica è stata la più profonda e completa. Ma se noi neghiamo alla Chiesa la autorità, se non quella che già ha assunto, di fatto svuotiamo di senso il Concilio e rendiamo puramente formale anche il ricorso al Sinodo, che sarà costretto all’interno di tutte le formulazioni dottrinali e disciplinari del passato3. Essere responsabili, in questo caso, significa saper assumere la necessaria autorità, di fronte alla libertà con cui lo Spirito sa soffiare nella storia e gli uomini a loro volta sanno interpretare tale libertà nei termini dei “segni dei tempi”.

1Un esame di questo “sistema di blocco”, che sospende lo sguardo del Vaticano II e recupera molti temi antimodernistici, si può trovare in A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Assisi, Cittadella, 2019.

2La comprensione di questa mens appare lucidamente dalla ricostruzione accurata del “primo giorno” del Concilio in A. Melloni, Persino la luna. 11 ottobre 1962. Come papa Giovanni XXIII aprì il concilio, Milano, Utet – De Agostini, 2022.

3La insistenza sulla “mancanza di autorità” che il magistero ha sottolineato in diversi campi negli ultimi 30 anni (dalle traduzioni liturgiche alle ordinazioni ministeriali, dalla ministerialità della unzione dei malati alla possibilità di utilizzare gli ordines precedenti alla riforma liturgica) costituisce una argomentazione originale e una esplicita negazione degli spazi di libertà riformatrice aperti dai documenti conciliari. In questo consiste il “dispositivo di blocco”: cfr. A. Grillo, Da museo a giardino, 27-40.

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