Sionismo e antisionismo 100 anni fa

Tra le cose più tristi alle quali assistiamo, a partire dal 7 ottobre scorso, è l’utilizzo improprio e impreciso, da parte di uomini irresponsabili, di termini come antisionismo, non di rado intenzionalmente confuso con antisemitismo. Un contributo ad una riflessione più adeguata ci viene da uno scambio epistolare di più di un secolo fa, che provo qui a presentare brevemente.
Quanto è utile ricordare oggi una polemica che ha più di 100 anni, ossia la discussione tra Hermann Cohen e Martin Buber a proposito del «sionismo», avvenuta durante la I guerra mondiale, nel 19161. Paragonate alle nostre discussioni di oggi, spesso così superficiali o imprecise, queste lettere tra i due filosofi appaiono singolarmente lontane, ma come dotate di una singolare profezia. Sono il documento di un primo apparire – quasi inedito, allora – di una sostanziale irrilevanza della fede per la cittadinanza e la dignità del cittadino. L’idea che la soluzione dell’antisemitismo possa venire dal sionismo appare, allora, come una ipotesi da verificare: un nazionalismo ebraico come risposta alla questione ebraica.
Ma procediamo per ordine: intanto dobbiamo dire che si tratta di una discussione tra due delle personalità ebraiche più importanti e colte della Germania del tempo. Essi manifestano e presentano, tuttavia, una visione assai diversa della possibile soluzione della questione ebraica, di cui avevano una percezione viva e profonda.
Hermann Cohen punta sulla eguaglianza dell’ebreo, nella identificazione dell’ebreo con la condizione statale tedesca nella quale vive, e accusa il sionismo di rappresentare una forma di fuga, di nuova autoemarginazione, di regressione rispetto al puro ebraismo etico dell’ebreo tedesco.
Martin Buber, invece, punta sulla differenza dell’ebreo, sulla sua diversità garantita dalla scelta sionista, cioè di ricominciare da Dio e non dall’uomo, in Palestina e non in Germania, in una visione più comunitarista e sociale che liberale e individuale.
Le due visioni, dunque, fanno dipendere la assimilazione dalla accettazione di una identità essenzialmente tedesca, e il sionismo da una sorta di estraneità rispetto alla cittadinanza europea.
Ma questo è solo un primo aspetto, già molto interessante. Ancora più interessante è il fatto che queste posizioni contengono, per certi versi, anche il loro opposto.
La visione di Cohen, che si presenta come profondamente liberale, finisce per identificare l’ebreo con il tedesco, a tal punto da far dipendere l’identità religiosa da quella politico-morale e pubblico-statale. Non si può dimenticare ciò che Cohen afferma nel 1916 e che, dopo Auschwitz, suona alle nostre orecchie in modo quasi sinistro (ovviamente senza alcuna sua colpa):
«Per quanto importante sia per noi uomini moderni la religione nel problema complessivo della storia, essa però vale per noi solo come una delle specificità concentriche all’interno della unità della cultura morale. Il punto cardine di tutta la civiltà umana è costituito per noi dallo Stato. L’io dell’uomo rimane una ambiguità empirica finché non viene oggettivato a purezza nell’autocoscienza politica» (254)
Questo perdersi della identità del soggetto nell’essere organo di uno Stato costituisce una delle più forti premesse a quella perfetta macchina di distruzione che sarà lo Stato tedesco e il cittadino tedesco a caccia dell’ebreo.
Al contrario, Buber ritiene, con profetica lucidità che vi sia un grande pericolo in una tale visione. Egli dice, molto nettamente in contrasto con Cohen,
«Io nego questo mondo nel quale la religione viene “controllata” alla luce dell’etica e l’etica a quella dello Stato» (274)
E allora, il richiamo a Sion del sionismo, almeno in questa versione buberiana (che non è affatto l’unica, è bene ricordarlo), è precisamente contro lo stato liberale, contro questa irrilevanza della religione per l’etica e per la politica, ma per una nuova rilevanza, che si può costruire solo in un altrove, in una differenza anche locale che ha tutti i tratti di una regione utopica:
«Non si tratta dello Stato ebraico, che, se sorgesse oggi sarebbe eretto di nuovo anch’esso sugli stessi principi di ogni Stato moderno; non si tratta di una minuscola formazione di potere in più nel brulicame; si tratta di un insediamento che, indipendentemente dall’ingranaggio dei popoli e sottratto alla politica estera, possa raccogliere tutte le forze per l’edificazione interiore e perciò per la realizzazione dell’ebraismo» (275)
E poi, conclude, polemizzando ancora con Cohen e riaffermando le ragioni di una diversità qualificante:
«Gli altri assicurano ai tedeschi di non essere diversi da loro, per non venire considerati degli stranieri. Noi affermiamo di essere diversi e possiamo aggiungere, come una verità della nostra anima che nessuno può misconoscere, che non siamo stranieri» (281)
Le ragioni della assimilazione di Cohen conducono ad una sorta di idolatria dello Stato, mentre la logica del sionismo di Buber sottolinea con forza le ragioni di una diversità non straniera, ma che ha bisogno di una sua “circoscrizione vitale” (quasi un nuovo Ghetto?).
Potremmo quasi dire: Cohen accetta totalmente la logica della modernità e assume l’identità ebraica soltanto all’interno del quadro etico-politico dello Stato moderno, con la privatizzazione della religione. Buber non accetta questa logica, e perciò, rivendicando un valore originario dell’atto di fede religiosa, sottopone l’identità ebraica alla condizione credente, quasi ricreando le condizioni di una nuova forma di “ghettizzazione”. Entrambi hanno buone ragioni, nel 1916, ma solo il secondo è capace di una parola veramente profetica. E lo è in quanto rimane interessata, non-disinteressata, dal rilievo teologico della identità ebraica. E non è forse proprio la perdita di questa articolazione, la definizione dell’ebraismo attraverso un sionismo pensato solo politicamente, senza spessore etico e religioso, solo mediante confini, eserciti, diplomazie, o “muri”, a costituire oggi una delle specifiche carenze della comune riflessione intorno alla questione ebraica? Non vi è, anche qui, una sorta di “ghetto” teologico, irrilevante per i problemi della dignità, del rispetto, del riconoscimento dell’ebreo, così come dell’uomo? E in questo ghetto non rischia di trovarsi oggi non solo la teologia ebraica, ma anche quella islamica e quella cristiana? Rileggere queste lettere di più di un secolo fa permette di comprendere quanto profonde e quanto urgenti sono le questioni nel definirsi delle identità dei popoli, in ragione della interpretazione anche teologica della loro storia.
1 Il dibattito tra i due filosofi pubblicato in appendice a H. Cohen, La fede d’Israele è la speranza. Interventi sulle questioni ebraiche (1880-1916), Firenze, Giuntina, 2000, 221-281. I numeri tra parentesi lungo questo paragrafo si riferiscono a tale pubblicazione.