Sulla forma, senza perdere la bussola (di Loris Della Pietra)
Il discorso di Papa Francesco rivolto all’Istituto Liturgico di S. Anselmo di sabato scorso ha ricevuto commenti non solo ingenerosi, ma che mostrano una conoscenza approssimativa e troppo ideologica tanto della storia quanto della teologia liturgica. Uno dei massimi esperti italiani sul tema della “forma rituale” spiega che cosa è veramente centrale nel testo papale. (ag)
Forma, riforma e formalismo.
Una precisazione necessaria
di Loris Della Pietra
Si ha certo ragione di condannare il formalismo, ma solitamente si dimentica che il suo torto non consiste nel dare troppo valore alla forma, ma nel dargliene così poco da staccarla dal senso. In ciò il formalismo non differisce da una letteratura di «contenuto», che separa anch’essa il senso dell’opera dalla sua configurazione. Il vero apporto del formalismo è una buona teoria dello stile, o della parola, che li metta al di sopra della «tecnica» o dello «strumento».
(M. Merleau Ponty, Segni, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 107)
Sulla scorta del discorso di papa Francesco ai docenti e agli studenti del Pontificio Istituto Liturgico del 7 maggio scorso sul blog Messainlatino è apparsa una riflessione a cura di Luisella Scrosati dal titolo Liturgia “a cipolla”: Francesco e il nervosismo per la forma. Il testo presenta alcuni spunti interessanti e, tuttavia, dimostra alcune difficoltà di comprensione del magistero conciliare e delle scelte operative ad esso conseguenti.
Di seguito provo a richiamare alcuni punti che l’articolo mette in luce e ad evidenziare alcuni aspetti che meritano una precisazione.
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Il “nervosismo per la forma”, che l’articolo richiama con immagine molto icastica, in realtà non è specialità di papa Francesco, ma appartiene alla storia del pensiero teologico sui sacramenti e sulla liturgia e alla storia della spiritualità cattolica e riguarda il rapporto cattivo che soprattutto l’uomo occidentale ha coltivato con la dimensione esteriore, sensibile e corporea dell’esperienza della fede. Come se il lato più genuino della religiosità fosse quello interiore, impercettibile e incorporeo. Di conseguenza il “cuore” del sacramento non poteva stare nella forma rituale, troppo materiale, e a nutrire la spiritualità dei credenti doveva essere un’orazione sempre più “mentale”. Come ha dimostrato W. Tatarkiewicz il mutamento dell’accezione di forma dall’idea di apparenza del dato fenomenico all’idea di essenza che determina il fenomeno ha condizionato anche il pensiero sulla forma, e aggiungo, anche la teologia dei sacramenti. La forma sembrava sempre più insincera rispetto al contenuto e il contenuto, una volta raggiunto, sembrava dispensare dalla forma.
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Il Movimento liturgico del Novecento riscatta la forma rituale da una visione negativa e limitante. R. Guardini, O. Casel e altri con grande audacia e profondità hanno saputo richiamare l’impossibilità di separare la forma del sacramento dal suo contenuto teologico: il contenuto del sacramento si dà nella forma rituale! Il teologo Ratzinger, oltre quarant’anni fa, seppe riconoscere che «con il concetto di “forma” era entrata nel dialogo teologico una categoria sconosciuta la cui dinamica riformatrice era innegabile» (La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Jaca Book, Milano 2005, p. 34). La riscoperta della forma non stava soltanto all’inizio delle riforme, ma riformava addirittura la lettura teologica dei sacramenti e della liturgia. Lo sguardo agli studi liturgici degli ultimi decenni conferma questa prospettiva.
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Circola in determinati ambienti un ritornello secondo il quale la riforma liturgica avrebbe mortificato la forma fino a costituire un’autentica “eresia dell’informe”. In realtà, come del resto osserva l’autrice dell’articolo, SC ripensa la liturgia in termini di actio che si dà per signa sensibilia (n. 7) e per ritus et preces (n. 48). In questo modo la Chiesa “comprende” il mistero (id bene intellegentes) che le si dona appunto in un’azione multimediale, au risque du corps (L.-M. Chauvet). Da qui l’interesse per l’ars celebrandi che il magistero di papa Benedetto XVI ha rilanciato non soltanto (come alcuni vorrebbero) come mera esecuzione rubricale, ma soprattutto come ricorso sapiente a tutti i linguaggi rituali nel coinvolgimento di tutto l’uomo (SaC 38 e 40). È proprio la passione per la forma che ha determinato e ispirato la ri-forma: anzi, è un interesse vivo per l’azione rituale e le sue forme che ha preteso una forma migliore affinché i battezzati potessero parteciparvi pienamente e attingere quell’efficacia pastorale che il magistero conciliare rinviene proprio nella forma dei riti (SC 49). Misconoscere il rapporto tra interesse per la forma e rinnovamento liturgico è frutto di uno sguardo ideologicamente viziato che proietta sul Concilio e sulla sua attuazione ogni sbavatura o trasgressione.
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Chiaramente il formalismo denunciato da papa Francesco non è la cura appassionata per la forma, quella che fa sì che un’indicazione rubricale divenga veramente un atto di canto, un movimento, una postura o un momento di silenzio, contro ogni minimalismo che si illude di camminare sulle spalle fragili delle convinzioni e dimentica la forza delle convenzioni. Il papa, piuttosto, contesta la separazione delle forme dal mistero, la probabile (e facile) riproposizione di un modello che dovrebbe ormai essere superato, quello per cui ci sono extranei vel muti spectatores (SC 48) che stanno davanti all’azione e non dentro, abili esecutori della rubrica, ma esterni ed estranei all’azione. Che poi questo spesso coincida con il ritorno a stilemi di una certa tradizione, palesemente lontani dalla forma che la liturgia ha assunto dopo il Vaticano II, è frutto in molti casi di incompetenza sulle ragioni della riforma, sugli ordines da essa scaturiti, sulle leggi e i linguaggi del celebrare in autenticità.
Le parole del papa non sono dettate dal risentimento verso la forma, ma semmai dalla consapevolezza che la forma è determinante per l’esperienza della fede e la vita della Chiesa. Una forma non autoreferenziale, ma che davvero introduca al mistero e ne faccia percepire e gustare le soglie. Se il pensiero teologico e la tradizione spirituale hanno conosciuto l’insofferenza per la forma (il dato rituale è visto come disturbo, quasi un avversario dell’intimità delle anime), l’irrilevanza della forma (ciò che conta è soltanto il contenuto) e il minimalismo nella forma (conta soltanto il minimo necessario per definire giuridicamente il sacramento), va detto che anche la formalizzazione della forma non realizza le potenzialità della liturgia. Ciò avviene quando la rubrica assume un valore assoluto indipendentemente da ogni altro condizionamento (lo spazio, il tempo, l’assemblea concreta, i linguaggi) e la puntigliosa esecuzione della regola sembra l’unico requisito per celebrare autenticamente.
In gioco è l’esperienza simbolica che si dà nella forma rituale per la cui attuazione nessuna fuga nel passato e nessun rubricismo sono sufficienti.
Loris Della Pietra
Chi fa la volontà di Dio è per me fratello, sorella e madre, dice Gesù.
https://gpcentofanti.altervista.org/domande-ad-avvenire/
Gent.mo dott. prof. Grillo,
sinceramente in tutta questa querelle tra formalismi di varia maniera, portata avanti col piglio di barricate ideologiche, vedo in sostanza un grande sconfitto: il rito.
Certo, parola ormai desueta, derubricata (mi si passi il pasticcio linguistico) a lessico “polveroso, noioso, superato” (sono suoi aggettivi, utilizzati per le “definizioni”) e ormai diventata insignificante.
Mi sembra peraltro fuori luogo citare la pletora dei Merleau Ponty, Tatarkiewicz, Guardini, Casel, Ratzinger, Chauvet, per evitare appositamente di vedere una lapalissiana verità: nelle nostre chiese ormai non si celebra più nulla. E quello che viene definito “rito” è, al massimo, un contenitore cerimoniale di celebrazioni sociali, con partecipanti sempre più anziani e demotivati (posso riferirle dell’alleluia delle lampadine ballato da ultrasettantenni la notte di Pasqua, definita dalle gloriose neorubriche fons et culmen di tutto l’anno liturgico?). Da questo punto di vista il rubricismo dei fissati con il tradizionalismo va di pari passo con il patetismo cerebral-sentimentale di chi ha rovesciato il banco liturgico in nome della sciatteria e del cattivo gusto. Saprà il Santa’Annselmo proporre una via d’uscita a quest’empasse che proprio una distorta interpretazione del concilio ha prodotto? Oppure si limiterà a difendere a spada tratta la nuova tradizione, minacciando anatemi accademici contro chi osa sollevare qualche perplessità?
Sul discorso del Papa non mi esprimo, si tratta di un breve intervento evidentemente confezionato in altre stanze rispetto a Santa Marta, che risponde a logiche di quartiere accademico. Del resto, che cosa avrebbe potuto dire a studenti e docenti di un Pontificio Istituto Liturgico? “Studiate la forma del messale 1570”? Mi pare pertanto ridicola esagerazione la lode sulla profondità culturale degli accenni pontifici. In realtà è l’ennesima e triste esibizione di un pontificato a geometria variabile. Nihil novi.
Con i migliori e consueti auguri
“Rovesciare il banco in nome della sciatteria?” Si vede bene che Lei parla perché giudica sulla base dei pregiudizi. Così in un sol colpo fraintende le parole del Papa e il lavoro di 60 anni di un Istituto i cui meriti può ignorare solo uno che non lo conosce. Mi creda, una volta o l’altra prenda un libro di Loris Della Pietra in mano e legga una pagina seriamente. Le si apriranno gli occhi.
Non mi spingo così lontano da augurarLe di aprire gli occhi. Talvolta basta solo alzarli dalle pagine di un libro, per accorgersi che la realtà è ben oltre le formule argomentative.
Con i migliori auguri.