Trenta giorni a Negrar. Una piccola storia di rinascita


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Quando sono arrivato all’Ospedale Sacro Cuore-Don Calabria di Negrar (VR) erano quasi due mesi che ero stato ricoverato per una improvvisa polineuropatia. Tutto era cominciato con i sintomi del 28 luglio, che mi avevano portato il giorno dopo al Pronto Soccorso e al ricovero a Savona. Nel giro di due giorni le mie gambe non mi reggevano più e le braccia risultavano grandemente indebolite. Piedi e mani erano formicolanti, e sempre meno controllabili. Di fatto con l’ultimo giorno di luglio si era chiusa per me la possibilità di stare in piedi. Ora, dopo il lungo percorso di cura e di inizio riabilitazione, al San Paolo di Savona e al Santa Corona di Pietra Ligure, arrivavo a Negrar, per il consiglio e l’aiuto di tanti amici, con un lungo viaggio in ambulanza, dalla Liguria al Veneto.

Appena arrivato, ho scoperto una prima novità importante: era possibile “osare” in fatto di percorsi riabilitativi. Mi ero abituato alle comprensibili logiche di non esporre il soggetto ad azioni che possano lederne la integrità. Il tuziorismo prevaleva sempre, con le sue ragioni. Per questo, in partenza dalla Liguria, ero stato adagiato sulla barella con un “elevatore”. Il rischio di cadute doveva essere escluso. Ma a Negrar, alla fine della prima visita della Fisiatra, subito un “girello alto” mi offriva lo spazio controllato per una impensabile “sgambata”. Forse 100 passi, confusi, disordinati, male orientati, ma reali. Una sorpresa e una emozione nuova.

Iniziava così il minuzioso percorso di riabilitazione, alla mattina con Sara, al pomeriggio nelle prime settimane con Cecilia e nelle ultime con Giulia. Tre giovani donne, con la loro sapienza corporea, mi hanno rimesso in piedi e mi hanno restituito la deambulazione, sempre più sicura, più autonoma, più controllata. Debbo aggiungere un’altra sorpresa grande e feconda. Ad ogni incontro con il primario, il Dott. Zeno, la sfida era sempre rilanciata: “Ma lei cammina davvero?” e glielo mostravo, ancora agli inizi. E lui “venga, forza, venga qui in piedi”, chiedendomi di alzarmi dalla carrozzina, senza paura. Più avanti, mi sfidava: “ora cammini sui talloni…ecco; e sulle punte, è capace sulle punte? Ce la fa?” e lui stesso faceva quello che io, all’improvviso, dovevo inventare! Questa spavalderia è stato un farmaco in aggiunta, prezioso come una pacca sulla spalla.

Altra sorpresa: come in tutti gli ospedali le attività si sospendono il sabato e la domenica. Ma a Negrar, in fondo al corridoio, potevo sempre raggiungere tre preziose “cyclettes”, che si lasciavano azionare direttamente dalla carrozzina, e che soprattutto nei primi due fine settimana mi hanno permesso di fare quasi una Milano-Sanremo di esercizio, una Parigi-Roubaix di fatica promettente! Il potenziarsi delle gambe, parallelo agli esercizi quotidiani, ha reso possibile nel tempo, sul piano della forza muscolare, il recupero completo del deambulare, sotto il controllo affidabile e puntuale del dott. Luca.

Esemplare è stato il progresso scandito dalle “messe domenicali” nella cappella dell’ospedale: la prima domenica sono rimasto sempre sulla carrozzina, alzandomi a fatica solo per il Vangelo; nella seconda domenica sono stato seduto sulla panca, spostandomi dalla carrozzina, ma alzandomi anche in questo caso solo per il Vangelo; nella terza domenica ho potuto seguire il ritmo corporeo comune a tutta la assemblea e accostarmi alla comunione camminando sulle mie gambe; infine nella quarta domenica ho potuto anche proclamare la Parola della Prima lettura e del Salmo direttamente all’ambone.

Un senso di gratitudine e di meraviglia rimane in me dopo tutta questa esperienza di restituzione, di ripresa, di recupero e di riabilitazione. Senza tralasciare le importanti premesse liguri, questo mese a Negrar mi ha mostrato, limpidamente, il gioco della collaborazione più profonda tra dono e compito, tra volontario e involontario, tra il dischiudersi misterioso di una nuova pienezza possibile e l’accurato accompagnamento che donne e uomini hanno garantito ad ogni rialzo, ad ogni passo, ad ogni singolo muscolo messo in gioco e ad ogni nuovo equilibrio, prima possibile e poi reale. Dal primario all’ultimo dei collaboratori, dai fisioterapisti agli infermieri, tutto ruotava in modo esatto e puntuale intorno ai nostri bisogni, alle nostre possibilità e alle nostre ferite. Un mese dopo, prendendo congedo, camminando lentamente fuori di quell’ordinato recinto di cura, con i suoi giardini pieni di sole, saluto con commozione questo incontro di provvidenza, di lavoro, di coordinamento e di spavaldo accompagnamento nella speranza: con tanta pazienza bene evidente e con tantissima audacia meno visibile, quasi segreta, ma straordinariamente efficace.

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