Si discute da tempo di beni comuni. Anzi, per parafrasare un’espressione già utilizzata, si assiste all’“erompere” di questa nozione: come se si avesse a che fare con la presa d’atto di un fenomeno più che conclamato, capace di superare ogni razionalizzazione preventiva; e di imporsi all’attenzione generale come segno di un potenziale cambio di paradigma.
Ci si trova di fronte, peraltro, a un materiale vago ed eterogeneo. Si ricorre all’espressione “beni comuni” per “nominare” entità dalla natura giuridica spesso diversissima.
Tra queste figurano sia “cose” che potrebbero tranquillamente essere annoverate tra i “beni” in senso tecnico (il demanio idrico; i beni culturali; alcuni edifici pubblici dismessi; le opere dell’ingegno; il patrimonio genetico e le biobanche…), sia “oggetti” che nulla hanno a che spartire con le tradizionali tassonomie del diritto civile e che, piuttosto, paiono coincidere con politiche o interessi pubblici attorno ai quali gravitano diritti o libertà socialmente – e costituzionalmente – rilevanti (la sanità; l’insegnamento; l’università; il lavoro…).
L’accento sul profilo della socialità e della sua necessaria garanzia è tale, in questa seconda prospettiva, che in qualche caso può dare slancio a slittamenti definitori ulteriori, sicché vengono evocati come beni comuni anche la città tout court, la fiducia nelle relazioni pubbliche, l’informazione, il web, etc.
A complicare il tutto vi è anche il frequente ricorso, nel dibattito, alla categoria dei commons, di matrice schiettamente economica, che è essa stessa al centro di un parallelo e sintonico processo di proliferazione.
Tale varietà suscita gli approcci più critici proprio in virtù dell’innegabile disomogeneità del “paniere” dei possibili beni comuni.
V’è da dire che il più delle volte la critica del giurista si appunta direttamente sull’utilizzazione sincronica dei termini “bene” e “comune”: poiché per molti, dove è possibile discutere davvero di “bene”, il riferimento a un qualcosa di comune rischia di essere ultroneo o superfluo o, se preso sul serio, contrario al diritto positivo vigente (un “bene pubblico” non è già di per sé comune? Non è forse vero, ormai, che più dell’individuazione del proprietario conta il modello di gestione di un certo bene?); mentre, dove è possibile servirsi pacificamente dell’attributo “comune”, è il cenno all’esistenza di «cose che possono formare oggetto di diritti» (come recita l’art. 810 c.c.) a suscitare comprensibili perplessità (possono veramente essere “beni”, e quindi passibili di appropriazione, interessi pubblici o politiche o spezzoni interi dell’organizzazione istituzionale?).
D’altra parte, non si può non notare che è l’uso per nulla univoco della locuzione “beni comuni” a conferirle le vesti e la forza di un dato trasversale e interdisciplinare, che trae per ciò solo alimento dalle sorgenti più disparate di legittimazione, giuridiche ed extragiuridiche. Si potrebbe affermare che il “vasto successo di pubblico” dei beni comuni è dovuto, paradossalmente, alla loro disturbante facilità di argomentazione diffusa, ossia alla loro pervasiva onnipresenza; come se fossero, in definitiva, dei “parassiti”, entità, cioè, che pur convivendo con l’esistente quadro regolativo, “operano” per una trasformazione di più ampio respiro.