Un altro “tametsi”: 1563-2023 A proposito della Dichiarazione Fiducia supplicans


A distanza di 460 anni, da Roma arriva un documento il cui impianto riposa su una “concessiva”, non così esplicita e dirompente come quella del 1500, ma altrettanto chiara.

Allora si trattava di porre un controllo formale su ogni matrimonio tra battezzati, “benché i matrimoni clandestini fossero sempre stati ritenuti validi”; oggi si tratta di poter benedire ogni unione sessuale “benché la dottrina del matrimonio venga riaffermata”. Vediamo meglio come si esprime nelle prime righe il testo della Dichiarazione, con il suo “tuttavia”:

la presente Dichiarazione resta ferma sulla dottrina tradizionale della Chiesa circa il matrimonio, non ammettendo nessun tipo di rito liturgico o benedizioni simili a un rito liturgico che possano creare confusione. Il valore di questo documento, tuttavia, è quello di offrire un contributo specifico e innovativo al significato pastorale delle benedizioni, che permette di ampliarne e arricchirne la comprensione classica strettamente legata a una prospettiva liturgica.”

Un esame accurato di questo passaggio permette di coglierne appieno il senso e i limiti.

a) Si riafferma la “dottrina tradizionale della Chiesa circa il matrimonio” e nel farlo non si ammette “nessun tipi di rito liturgico o benedizioni simili ad un rito liturgico, che possano creare confusione”. Questo, sembra dire il testo, si pone in continuità con quella comprensione che il Decreto Tametsi ha inaugurato, attribuendo al “rito liturgico ecclesiale” il carattere costitutivo della sacramentalità matrimoniale.

Questo, va detto, nel 1563, appariva scandaloso. Introduceva infatti una “competenza nuova”, che superava in un colpo la lunga esperienza di libertà rituale, che aveva segnato la tradizione lungo quasi 1500 anni di vita.

b) Tametsi (benché) resti valido ciò che è stato appena affermato, il testo procede ad “contributo specifico e innovativo”: esso riguarda una considerazione pastorale e liturgica della benedizione, che apre un’altra considerazione dei fatti esistenziali e dei compiti ecclesiali;

c) Questo implica a sua volta un ampliamento e un arricchimento della esperienza del “benedire ecclesiale”, che costituisce una netta “inversione di marcia” rispetto alla decisione tridentina.

Vorrei soffermarmi brevemente sul senso di questo contributo innovativo. Per comprenderlo dovremmo anzitutto notare come venga cambiato il punto di osservazione rispetto al Responsum di soli 2 anni fa. In quella risposta negativa il cuore della argomentazione riguardava il fatto che la “benedizione” di una coppia omosessuale avrebbe non solo creato confusione, ma avrebbe applicato la benedizione ad una condizione che “non può essere benedetta”.

Al doppio argomento la Dichiarazione risponde con una prima precisazione: “benedire si dice in molti modi”. La prospettiva con cui è stata impostata la risposta del 2021 è troppo stretta, miope. Potremmo dire “meschina”, citando la espressione di Amoris Laetitia 303.

Di qui scaturisce la nuova possibilità, che nasce da un uso del “benedire” che non è interno alla logica formale del sacramento, ma che si muove tra il cuore e il margine più esterno della vita ecclesiale. Il benedire è la capacità di “riconoscere il bene che c’è” e che deve essere attivato proprio nelle condizioni in cui i margini di riconoscimento sociale e personale sono più precari.

Questa apertura libera energie ecclesiali almeno in 3 grandi direzioni:

– restituisce alla “parola profetica” una dignità pastorale, che in ambito matrimoniale rischia di restare schiacciata sotto il registro regale della validità e della legittimità. La benedizione dice il bene dove è, secondo le regole, senza le regole e perfino nonostante le regole;

– permette di articolare in modo meno rigido il linguaggio della Chiesa, restituendole l’eqilibrio tra registro sacerdotale, registro regale e registro profetico;

– proprio il “riconoscimento dei fatti” costituisce un ampliamento di prospettive della teologia matrimoniale, evitando il cortocircuito tra sacramento e contratto, che spesso costringe profeti e sacerdoti a parlare e a ragionare anzitutto come burocrati.

Il Decreto “tametsi”, 460 anni fa, ha inaugurato alla Chiesa un ruolo ufficiale che nei secoli è diventato allo stesso tempo troppo e troppo poco. La Dichiarazione Fiducia supplicans, con un nuovo “benché”, ridimensiona l’assolutismo della forma canonica e riapre lo spazio per una Chiesa profetica anche in ambito matrimoniale e sessuale. E’ un inizio e un cambio di paradigma da non trascurare.

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