Un “sacerdozio cattolico” immunizzato dal sacerdozio comune? La “reductio ad absurdum” di un problema vero


ratzsarah

L’occasione per questa riflessione mi è stata data oggi dalla lettura di un testo, suggeritomi da un amico attento. Infatti, è apparsa oggi su “Avvenire” una recensione del libro “Dal profondo del nostro cuore”, in cui il prof. Fulvio De Giorgi, in modo incidentale, lascia cadere una affermazione che ha attirato subito la mia attenzione. Egli afferma che

“Ratzinger non affronta qui il sacerdozio comune: ma dal fatto che non ne parli non si può assurdamente sostenere che lo neghi”.

Credo che questa asserzione riveli un certo modo di considerare le questioni teologiche, che è assai diffuso, e che conduce inevitabilmente a conseguenze molto unilateraliVa precisato che la frase deve essere letta nel contesto di una recensione che sembra non riconoscere che la teoria del sacerdozio, offerta dal volume in questione, è del tutto “preterconciliare”, per non dire “anticonciliare”. Da parte mia credo che non sia affatto “assurdo” ritenere che una teoria del sacerdozio ministeriale, che non parli del sacerdozio comune, sia una lettura gravemente compromessa del sacerdozio ministeriale, perché non si è lasciata insegnare nulla di decisivo dal Concilio Vaticano II. E questo è il punto nodale. Dal Concilio Vaticano II in poi non è possibile proporre una teoria del sacerdozio ordinato cattolico senza “ordinarlo”, come è richiesto da LG, da SC e da PO, al sacerdozio comune.

Considerare “assurda” la pretesa che, in un discorso sul “sacerdozio cattolico”, si debba necessariamente parlare del sacerdozio comune, oltre che del sacerdozio ministeriale, appare piuttosto sorprendente. A meno che il recensore si sia talmente immerso nel tono del testo recensito, da perdere il riferimento normativo che un discorso “cattolico” deve custodire con grande cura e che non può in nessun caso “silenziare”. Il termine “cattolico” infatti, nella sua accezione aggiornata dai testi e dalle esperienze del Concilio Vaticano II, esige una comprensione più ampia e più articolata del sacerdozio. Essa discende da una comprensione più profonda della Chiesa e della liturgia. Se la Chiesa è anzitutto “popolo di Dio” e la liturgia è “azione comune di Cristo e della Chiesa”, una teoria del sacerdozio che non colga la necessaria priorità della “comunità sacerdotale” (LG 11) e della “azione partecipata” (SC 48), costruisce un modello di Chiesa e di liturgia che possono fare a meno di ogni riforma. Così si porta acqua a chi vuole la piramide gerarchica non rovesciata e la liturgia indifferentemente nuova o antica, ad libitum.

Se diciamo che il sacerdote ordinato può essere compreso “in sé” e non in rapporto al sacerdozio di tutti i battezzati, perdiamo l’unico terreno su cui ha senso la riforma liturgica, la sinodalità, la inculturazione. Non è un caso che il libro qui recensito sia stato pubblicato, in fondo, contro un risultato del Sinodo sulla Amazzonia. Perché solo astraendo dal reale storico e geografico, solo se il mondo può essere una variabile irrilevante, solo se le vicende e le esperienze di uomini e donne sono soltanto fumo e cenere, è possibile pensare di “custodire la tradizione” mantenendo le strutture mentali e istituzionali del Concilio di Trento. Ma soltanto se ammettiamo che l’atto di fede e di culto è “azione comune” di tutta la Chiesa, possiamo concepire correttamente il sacerdozio ordinato, senza isolarlo in un rapporto solitario con Cristo. Per questa ragione ecclesiologica e liturgica, che è pienezza pneumatologica e cristologica, non si può dire che sia “normale” parlare di sacerdozio gerarchico senza parlare per nulla di sacerdozio comune. Per la stessa ragione il silenzio, proprio il silenzio, diventa una omissione irrimediabile, perché distorce il sacerdozio. Essa rende la Chiesa immune da riforme, perché garantita semplicemente dai preti. Questo è ciò che Rosmini denunciava già nel 1832. Per questo non è affatto assurdo interpretare il silenzio sul sacerdozio comune come una cosa troppo grave per esser così facilmente attribuibile ad un cardinale e ad un vescovo emerito del 2020. D’altra parte, se fosse “assurda” la preoccupazione che diversi commentatori hanno sollevato, come è possibile che in uno dei manuali più accreditati – e giustamente più fedeli al Vaticano II – come quello di Erio Castellucci, si dica, apertis verbis, e per di più in un titolo, che per comprendere il ministero ordinato cristiano si è utilizzato “un punto di aggancio biblico inadeguato: il sacerdozio” (p.12)? Quando non correlato al “sacerdozio comune dei battezzati”, il “sacerdozio” è un titolo gravemente inadeguato. Perché ricostruisce il prete, la liturgia e la Chiesa come se il Concilio non ci fosse mai stato. E’ questo che a me, nel 2020, pare veramente assurdo.

Share