Una bella riflessione su Lumen Fidei di d. Massimo Naro


“Scompare la severa litania degli -ismi”




Ricevo dal bravo teologo Massimo Naro, che lavora a Palermo, questa bella riflessione sulla prima enciclica di Papa Francesco. Ne condivido stile e acume.

La firma in calce è una sola, quella di papa Francesco. E l’uso diretto e per niente cerimonioso della prima persona singolare, che cadenza l’intero testo, ha più che mai lo scopo di chiarire che ad assumersi la responsabilità di ciò che in quelle pagine viene insegnato è lui soltanto. Il classico plurale maiestatis sarebbe stato, stavolta, decisamente ambiguo e invece di conferire il solito timbro autorevole avrebbe paradossalmente enfatizzato un’incrinatura dell’autorità magisteriale che l’enciclica, per valere come tale, deve mantenere, pur in una situazione inedita come l’attuale, in cui accanto al pontefice in carica c’è anche quello emerito. Ma lo stesso Francesco lo dichiara: è una cosa scritta insieme, la cui «prima stesura» si deve a Benedetto. Il nuovo papa l’«assume» in toto, pur «aggiungendovi alcuni ulteriori contributi» (n.7).
E scatta, allora, la caccia agl’indizi: cos’è di Benedetto e cos’è di Francesco? Al primo appartiene senz’altro l’impianto generale della lettera: ne è cifra la maestosa semplicità con cui il tema cruciale della fede è trattato. E ci sono molte altre impronte: non solo quelle evidenti, come la citazione di Guardini – teologo che di Ratzinger rimane il principale maestro – incastonata nel n.22, ma anche quelle impresse con l’inchiostro simpatico, come i rimandi impliciti alla lezione di Rousselot e Balthasar, oltre che di Max Scheler, sull’intreccio della fede con la verità e con l’amore: la fede è una peculiare forma di conoscenza che riguarda Dio e, perciò, ha per oggetto la verità e come metodo l’amore (nn.26-27). Ma c’è anche qualcosa di Francesco nell’articolazione dell’enciclica: l’insistenza sul «camminare» (nei primi due capitoli), sul «confessare» (nel terzo) e sull’«edificare» (nel quarto), che riecheggia l’omelia della sua prima messa, nella Sistina, all’indomani dell’elezione. E ci sono certe sue inconfondibili sottolineature, come l’esortazione a «non farci rubare la speranza» (n.57) e il richiamo all’importanza del Decalogo, inteso non come «insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell’io autoreferenziale» (n.46).
D’altra parte, in un’enciclica dedicata alla fede, è oziosa questa fatica di discernere gl’indizi: sant’Ireneo, sapientemente e umilmente citato al n.47, diceva che «la fede è una sola» e dunque «non c’è differenza tra chi è in grado di parlarne più a lungo e chi ne parla poco, tra chi è superiore e chi è meno capace», giacché «né il primo può ampliare la fede, né il secondo diminuirla».
Più utile è registrare la novità che caratterizza l’insegnamento proposto nell’enciclica: sta nella scomparsa della severa litania degli ismi, contro cui il magistero del papa non recrimina più. Questa rinuncia apologetica mostra che il magistero pontificio, a cinquant’anni dal Concilio, di questo ormai condivide lo stile e lo spirito.
Così, della fede l’enciclica parla non solo senza polemizzare con la modernità, bensì con una sua attitudine moderna, accettando cioè di abitare l’ora presente, di dialogare sulle sue istanze più radicali. A cominciare dalla più estrema, la morte, terribile sempre, quella di Cristo non meno di quella degli altri (n.16), per svelarne la portata penultima e per annunciare che oltre di essa la «strada» continua: la fede ne fa intravedere, appunto, «tutto il percorso» (n.1).
Difatti la fede è «una luce per le nostre tenebre»: fa a pugni col «buio» (n.4). Emerge qui la dialettica narrata da Nietzsche nella Gaia scienza. Lì vinceva la notte. Per quest’enciclica, invece, come già per la Spe salvi (n.37), vince la luce. E vince innanzitutto sul buio interiore di quegli uomini che «pur non credendo» desiderano riuscirci e quindi «non cessano di cercare», vivendo «come se Dio esistesse» (n.35): un’opzione pascaliana non meno moderna dell’ipotesi groziana, capace di innestare l’oggettività nella soggettualità della fede. Questa non è mero sentimento, né azzardo o rischio, «salto nel vuoto», ma effettiva capacità di vedere, anche se in misura solo incipiente: «La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino» (n.57). Sembra di risentire i versi di Luce gentile, composta da Newman nel 1833, salpando di notte da Palermo verso Marsiglia. E pare potervi cogliere anche l’eco della lanterninosofia di Pirandello, sintetizzata da uno dei suoi personaggi, il protagonista de Il vecchio Dio (1902), il quale, attraverso il «buio angoscioso della rovinata esistenza», tentava di riparare «dal gelido soffio degli ultimi disinganni», il lumicino della sua fede: «Dio mi vede, si esortava in cuor suo. E n’era proprio sicuro che Dio lo vedeva per quel suo lanternino». Come a dire che la fede, oggi, può anche risultare non più sufficiente a farci vedere Dio, ma ci rende comunque consapevoli di poter esser avvistati da Lui. Non ha la presunzione di risolvere il mistero o di abolire l’oscurità. E, tuttavia, non se ne lascia annichilire: vi si segnala dentro, comunica a Chi guarda non visto che lei c’è. Inteso così, il lumen fidei non è più un espediente consolatorio. È piuttosto resistenza, umile ma non meno tragica della fiaccola di Prometeo.

Massimo Naro

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