Una conferma: la lettura unilaterale del postconcilio in un testo di J. Ratzinger del 2004



Viene pubblicato in Italia il libro di Alcuin Reid «Lo sviluppo organico della liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II» (Cantagalli, 432 pagine, 22 euro). Il libro, la cui edizione originale inglese era del 2005, ha la prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Alcuni mesi dopo aver scritto questo testo, che introduce uno scritto molto critico con la Riforma Liturgica postconciliare, J. Ratzinger è divenuto papa Benedetto XVI.
Credo sia interessante notare che in questo testo, che è molto breve, troviamo il riassunto di una serie di posizioni che J. Ratzinger ha maturato fin dagli anni 70 e che poi ha fatto valere, durante il suo pontificato, come criteri di lettura della tradizione liturgica recente. Provo qui a farne un breve elenco, che può essere utile considerare, a quasi 5 mesi dalla “rinunzia” di papa Benedetto:

a) La tradizione liturgica viene esasperata ai due estremi del tradizionalismo e del riformismo radicale. Dando l’impressione che la voce moderata e lungimirante sia rimasta come soffocata da questi opposti estremismi. Forse qualcosa di simile si è prodotto in altre tradizioni. E’ certo che la Chiesa italiana non ha conosciuto questa realtà se non in casi assai marginali.

b) La posizione dei “liturgisti cattolici” viene intenzionalmente presentata sulla falsariga di un “compendio protestante” di liturgia. Il che suscita qualche legittimo sospetto verso la equanimità e la correttezza della ricostruzione, che appare pesantemente orientata da una posizione preconcetta.

c) Giustamente si mette in guardia dalle forme di archeologismo e di pragmatismo pastorale che si sono manifestate durante e dopo il Concilio, ma facilmente si avvalora l’equivoco di confondere le competenze storiche con l’archeologismo e le competenze pastorali con il pragmatismo. Da un teologo come Ratzinger il lettore si aspetterebbe qualche maggiore distinzione e cautela, visto oltretutto il  ruolo di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede che allora egli ricopriva per gli ultimi mesi;

d) Curiosamente, egli persegue il proprio disegno di “lettura ideologica” della tradizione recente, accomunando i tradizionalisti e i liturgisti sotto la accusa di “formalismo neoscolastico”, che ridurrebbe il sacramento alla “sostanza” di forma, materia e ministro, così come stabilito da una rilettura semplicistica della tradizione medievale. In realtà egli sembra completamente dimenticare che buona parte dei liturgisti che hanno lavorato alla costruzione e alla applicazione della Riforma sono del tutto persuasi di dover uscire da quegli schematismi formalistici, ai quali, in verità, sembra molto più legata la sua teologia che non quella “liturgica”. Sarebbe sufficiente osservare i criteri con cui è stata composta la parte sacramentaria del Compendio del CCC per notare come, sotto la responsabilità di J. Ratzinger, siano proprio quei criteri formalistici neoscolastici ad aver trionfato nella esposizione dei sacramenti, con grande differenza da ciò che si legge nel CCC originale. 

e) Anche in questa breve prefazione non manca il “luogo comune”, che ha segnato tutto il discorso liturgico prima di J. Ratzinger e poi di papa Benedetto. Le nuove teorie della liturgia postconciliare avrebbero messo tutto l’accento sull’agire dell’uomo e avrebbero contribuito alla dimenticanza di Dio. Anche qui, appare piuttosto strano che questa critica, che denuncia l’antropocentrismo della Riforma Liturgica, possa essere proposta in modo tanto approssimativo e senza alcuna vera argomentazione. 

f) Infine è da notare come il card. Ratzinger sposi, di fatto, la tesi quasi lefebvriana, che interpreta, almeno sul piano del rapporto con la tradizione liturgica, il ruolo del primato petrino in termini molto minimalisti. E’ qui evidente, tra le righe, una critica molto forte all’uso che del primato avrebbe fatto Paolo VI nel gestire il rapporto tra novità e continuità, tra esperti e pastori…Resta sorpreso, il lettore, nel sentir dire a J. Ratzinger, che il papa non deve permettere che gli altri facciano ciò che vogliono. Colui che, tre anni dopo, ha firmato il MP Summorum Pontificum ha certamente consentito in modo pericolosamente anarchico proprio ciò che, nel 2004, sentiva di dover censurare in Paolo VI. 

Va detto che un discorso molto simile a questo testo è stato fatto da J. Ratzinger a pochi giorni dalla rinunzia formale al ministero petrino, parlando ai preti romani alla fine del mese di febbraio 2013. Poco prima dell’inizio del suo papato e alla fine del suo papato J. Ratzinger ha conservato le medesime posizioni. 

(Pubblichiamo l’intero testo (che porta la data del 26 luglio 2004) del futuro Benedetto XVI)

Prefazione

Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa.

Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime se stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come “progetto di riforma” (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici. D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari.

Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma. Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge.

Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi per incrementarla e rinnovarla. Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (Messa e breviario), dalle origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi. Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948.

La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma. Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata. L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CC n. 1125). Come criteri ulteriori troviamo, infine, la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale. Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali. Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono.

La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis. È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”. Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione.

Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato. Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore. Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo.

Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva – nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i Sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori. Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale e, di conseguenza, come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”. Ma che cosa è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità.

Ma poiché esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità. Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola.

Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma. Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico.

Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto. Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.

(fonte del testo: Vatican Insieder 1 luglio 2013)

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