Una formula senza forma: che cosa accade quando un battesimo è soltanto valido?


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Grande eco ha avuto, nella opinione ecclesiale, il breve testo del responsum della CDF e la Nota dottrinale che lo accompagna. Un buon segno è stato anche il piccolo dibattito teologico che è sorto intorno al documento, insieme alla eco delle reazioni più generali e meno tecniche. E’ emerso subito con chiarezza il senso immediato della decisione, le sue generalizzazioni talvolta indebite e in altri casi ingiustificate. Ma è trapelato anche il senso di un disagio e di una certa “ristrettezza” di visione e di considerazione della realtà ecclesiale e culturale. Voglio rimandare in particolare a due testi, che ho letto oggi, e che vengono da due autori importanti come P. Sequeri e P. Gamberini. Si tratta di due noti teologi sistematici, che analizzano il documento con ottiche piuttosto diverse. Mentre il primo si colloca a suo agio nella prospettiva del documento, ampliandone in qualche modo la portata e chiarendone alcuni presupposti, il secondo mette in luce piuttosto i limiti dell’ottica che il documento proietta sulla realtà.

Ciò che tuttavia mi pare accomunare tanto il discorso di pieno consenso, quanto quello che muove rilievi critici è un modo di identificare il sacramento e il suo significato che è, potremmo dire, il frutto del “canone tridentino”. Lo dico in modo del tutto obiettivo, come la constatazione di una “regola” del pensiero e della prassi, che si è affermata con il Concilio di Trento e che è arrivata sostanzialmente incontestata fino al Concilio Vaticano II.  Per questo vorrei cercare di mostrare come è concepito questo modo di “pensare/agire” intorno ai sacramenti e quali conseguenze comporta anche sul nostro modo di giudicare un “responsum” sulla “formula del battesimo”.

Il rituale romano del 1614 e la grande divisione

Voglio iniziare da un testo non molto citato, ma che “comanda” molte delle cose che oggi continuiamo a dire e a fare intorno ai sacramenti e in particolare circa il battesimo. Il “rituale romano” del 1614, frutto del Concilio di Trento, nelle prime pagine introduce una distinzione che è diventata decisiva nei secoli successivi. Proprio all’inizio del testo dedicato al Battesimo, il Rituale recepisce e perpetua una distinzione fondamentale, che presenta con queste parole:

“Per amministrare questo sacramento alcune cose sono di diritto divino assolutamente necessarie (come la forma, la materia e il ministro) mentre altre sono soltanto in funzione della solennità, come i riti e le cerimonie…”

Questa distinzione, di origine tomista, divide la realtà del battesimo, e di tutti gli altri sacramenti, in due parti, che diventano quasi autonome: da un lato il “nucleo di contenuto necessario” e dall’altro “la articolazione rituale e cerimoniale”. La mentalità ecclesiale, il modo di celebrare, il modo di pensare e di fare il catechismo, la formazione dei preti, la forma dei battisteri, dei confessionali e delle chiese dipendono largamente da questa “grande divisione”. Persino la divisione delle competenze della Curia romana è profondamente influenzata da questa forma mentis. Così la Congregazione per la Dottrina della fede si occupa delle “formule” delle “materie” e dei “ministri”, mentre i riti e le cerimonie hanno, appunto, la Congregazione del Culto come riferimento.

La scissione tra essenza e solennità e Sacrosanctum Concilium

La distinzione scolastica, che è diventata “criterio” del Rituale del 1614, si è trasformata però, con il tempo, in una sorta di “scissione” della esperienza. Di questo si erano accorti i primi grandi “liturgisti” del XIX secolo: Rosmini in Italia e Guéranger in Francia avevano percepito questa frattura interna alla esperienza credente ed ecclesiale. Un secolo dopo, ai primi del XX secolo, R. Guardini ha considerato, come un profeta, questa frattura tra “forma” e “contenuto” come ciò che il nuovo sapere liturgico doveva superare. E ha inaugurato la grande ricerca della teologia liturgica che più tardi J. Ratzinger ha definito con una espressione di grande efficacia: “era cambiata la nozione di forma”. Se dovessimo tradurre questa icastica formulazione dovremmo dire che il significato teologico del sacramento non sta semplicemente nella unione di formula, materia e ministro. “Per ritus et preces” diventa una definizione del sacramento, non semplicemente una sua descrizione cerimoniale. Per dire “che cosa è il sacramento” la triade formula/materia/ministro non è più sufficiente.

Il Sacramento: tutto il verbale e tutto il non verbale

Questo sviluppo ha cambiato le categorie con cui oggi ragiona e celebra la Chiesa. Per questo il fatto di “isolare” la formula da tutto il contesto rituale diventa una operazione certo sempre possibile, anche opportuna nel momento in cui vi sono problemi, abusi o distorsioni, ma che appare inevitabilmente molto unilaterale quando si lasci ipotizzare che “la sola formula” sia in grado di reggere la esperienza che è in gioco nel sacramento. Che “solo Cristo” sia mediato da “sola formula” è una teoria piuttosto debole. Ma, lo voglio ripetere, questo è diventato “istituzionale” nel momento in cui del medesimo sacramento una Congregazione si occupa solo dei “contenuti di fede” e un’altra “delle forme rituali”. Questa divisione delle competenze, che implica uno “sguardo selettivo” e una “indifferenza ex officio” resta indietro rispetto al dettato conciliare e alla esperienza che la Chiesa fa con la liturgia successiva alla riforma liturgica. Accanto alle “parole della formula” -nel battesimo come in ogni altro sacramento – ci sono tutte le altre parole (della scrittura proclamata, della preghiera comune, della omelia…) e ci sono tutti i linguaggi non verbali, di cui è ricco ogni rituale sacramentale. Si consideri quanto è diverso pensare la “formula” nella celebrazione di un battesimo che dure 15 minuti in un sabato pomeriggio, o nel cuore della Veglia pasquale, dopo un catecumenato di 3 anni. La indifferenza al contesto diventa qui il rischio di una forte incomprensione.

Tutte le parole precise e una sola goccia d’acqua

Vorrei aggiungere, inoltre, una ulteriore considerazione. La custodia della “formula tradizionale” sarà tanto più facile nel momento in cui sapremo guardare al “fenomeno battesimo” in una maniera più larga e più articolata. Forse una certa “ostinazione” nel voler adattare la formula a nuove circostanze o sensibilità potrebbe dipendere proprio da questa nostra ottica distorta e comune. Ossia nel voler concentrare tutto ciò che è importante solo nelle parole della formula. Ma ci sono mille altre vie per dire la potenza di Dio, la sua misericordia, il dono di grazia di fronte al peccato dell’uomo e la riabilitazione di questo uomo quando è toccato dalla grazia. Un esempio può essere qui di grande aiuto. Se concentriamo tutte le energie nel “tener ferma la formula stabilita” – e in questo non vi è nulla di male – il rischio è che ci si curi soltanto della formula “esatta” e si diventi estremamente “sciatti” su tutto il resto. Mi colpisce sempre che accanto allo scandalo per la introduzione di “parole diverse”, non si avverta invece alcuno scandalo né per il tono con cui vengono proferite quelle parole, né per la inconsistenza degli altri “elementi”. Perché mai, in un battesimo, la formula deve essere sempre garantita, mentre l’acqua può essere ridotta ad una sola goccia? La “grande divisione” ci ha portati ad avere orecchi attenti solo per le “parole formali”, ma la musica di quelle parole e la quantità di acqua, il profumo del crisma, la qualità dei silenzi o la pertinenza dei canti o dei movimenti non suscita in noi, almeno mediamente, alcuna reazione cosciente!

Dietro a tutto questo sta un dispositivo teorico, che ho chiamato la grande divisione, che è di lunga data, ma che oggi non funziona più. Se si resta al suo interno, si dicono cose sacrosante, del tutto fondate, che però diventano unilaterali nella misura in cui non si lasciano pensare in una sintesi nuova, nella quale la quantità dell’acqua del fonte battesimale presso il quale pronuncio la “formula” non è semplicemente un “orpello cerimoniale” sostituibile con un dito d’acqua in una bacinella di plastica. Così non è detto che l’ansia di “trasformare la formula” non possa essere a sua volta l’effetto di questa divisione della esperienza, che grida per essere letta diversamente. Ed è vero che uno solo è il battesimo e molti sono i riti, ma è anche vero che al battesimo si accede sempre per via rituale. Il “contenuto” del battesimo, se viene sciolto dalla mediazione verbale e non verbale che lo accompagna, risulta ridotto e quasi addomesticato.

Questo nodo teorico, che condiziona tanto la prassi, mi pare che meriti una rinnovata attenzione. E forse proprio così quella giusta istanza, che la Nota dottrinale al responsum vuole motivare – ossia voler sottrarre il battesimo alle manipolazioni che la tradizione vorrebbe di volta in volta imporgli – potrebbe trovare il suo campo più vasto di efficacia. Puntando non soltanto sulla “formula”, ma sulla intera forma verbale (tutte le parole) e forma rituale (tutti i linguaggi) del battesimo. Poiché il Signore non si è mediato solo in parole, ma anche in azioni, la percezione di dover recuperare questa unità originaria di detti e fatti, di parola e sacramento, di verbale e non verbale, può essere riconosciuta come un compito che la teologia può fare oggetto di studio e di elaborazione, al servizio della crescita comune. Perché possiamo continuare a fare la domanda classica: “quando un battesimo è valido?” Ma possiamo porre a noi stessi un domanda nuova, che cambia il senso anche della domanda classica: “che cosa accade quando un battesimo è soltanto valido?”

 

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