Una nuova commissione sul diaconato femminile: “audiatur et altera pars”
Come preannunciato alla fine del Sinodo sulla Amazzonia, dove il tema era apparso più volte con un rilievo assai significativo, ecco che viene annunciata la costituzione di una “nuova” commissione di studio sul diaconato femminile. La composizione è la seguente: la prof.ssa Catherine Brown Tkacz, Lviv (Ucraina); il prof. Dominic Cerrato, Steubenville (USA); il prof. Don Santiago del Cura Elena, Burgos (Spagna); la prof.ssa Caroline Farey, Shrewsbury (Gran Bretagna); la prof.ssa Barbara Hallensleben, Friburgo (Svizzera); il prof. Don Manfred Hauke, Lugano (Svizzera); il prof. James Keating, Omaha (USA); il prof. Mons. Angelo Lameri, Crema (Italia); la prof.ssa Rosalba Manes, Viterbo (Italia); la prof.ssa Anne-Marie Pelletier, Parigi (Francia). Il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila, ne sarà presidente, e don Denis Dupont-Fauville, officiale della Cdf, segretario.
Diversamente da quanto era stato anticipato da papa Francesco, alla chiusura del Sinodo, salvo errore, non sembra che tra i membri di nuova nomina vi siano esperti provenienti dalla America Latina.
I criteri con cui sono stati scelti i membri della commissione sono, evidentemente, molteplici. Tutti, ovviamente, concorrono alla migliore definizione del profilo di un “diaconato femminile”, le cui radici sono nella storia, ma la cui figura può essere solo il frutto di un pensiero sistematico fresco, aperto e lungimirante.
Tra i nuovi membri conosco di fama o di persona soltanto 4 membri. Degli altri non posso dire nulla, per mia scarsa conoscenza. La prof. Pelletier e il prof. Del Cura Elena sono teologi di grande respiro, che non hanno mai dedicato specificamente al diaconato una ricerca assidua e continua, ma hanno potuto e potranno avere una funzione di “contestualizzazione” sistematica di grande influenza, per la loro autorevolezza e per il giudizio equilibrato che li qualifica. Conosco molto meglio Angelo Lameri, la cui competenza liturgica e sacramentale è un dato rassicurante e positivo. Potrà contribuire non poco districare la matassa storica e a immaginare la liturgica progressio. A Lugano ho avuto modo di conoscere, anni fa, il prof. Hauke, che sembra, almeno nel quadro delle mie conoscenze, il più caratterizzato. Entra in commissione portando con sé, da quasi 40 anni, tesi sulla ordinazione delle donne e sul diaconato che non è esagerato considerare estreme. Voglio ricordare qui solo due testi. Il primo è una dichiarazione da lui rilasciata circa un anno fa, in merito ai lavori della Commissione precedente, quando aveva dichiarato: “Non possiamo identificare la consacrazione delle diaconesse con l’ordinazione dei diaconi. Non era un’ordinazione sacramentale che possa essere identificata con il sacramento dell’Ordine. La storia dell’istituto delle diaconesse non offre una base solida, quindi per l’introduzione di un diaconato femminile sacramentale. La Chiesa antica non aveva un diaconato femminile equivalente a quello maschile”. Dicendo così, egli faceva propria una “tesi” – una tra le diverse in campo – proposta da A. Martimort. Se anche questa tesi fosse assodata – cosa che storicamente non è per nulla pacifico – resterebbe il problema sistematico, che dovrebbe introdurre questa diversa considerazione: se la chiesa antica non aveva un diaconato femminile equivalente a quello maschile, forse è perché nella chiesa antica la donna non era compresa come dotata della stessa autorità dell’uomo. Posta così la questione, ed evidenziato il problema di una ermeneutica antropologica e sociologica che costituisce un pericoloso filtro del pensiero teologico, non dovrà essere la storia a risolvere il nostro problema, ma saremo noi che, considerata la storia nelle sue peculiarità, potremo stabilire quali siano le forme adeguate ed efficaci del riconoscimento del ruolo pubblico della donna, non solo fuori, ma anche nella Chiesa, come invocato già nel 1963 da Giovanni XXIII nella enciclica Pacem in terris.
E’ poi meritevole di una certa considerazione il giudizio che Alberto Piola, nel suo equilibrato volume su “Donna e sacerdozio”, ha formulato sulla concezione che il prof. Hauke, nella sua dissertazione dottorale risalente al 1982, proponeva della donna in relazione al ministero ordinato: “Quella di Hauke è l’argomentazione teologica che in modo più ampio ha analizzato dopo il Vaticano II il rapporto tra antropologia della donna e la sua esclusione dal sacerdozio;… sembra che la argomentazione antropologica quasi preceda il richiamo alla volontà di Cristo….è una posizione più simile alla teologia preconciliare che al resto del dibattito che ha seguito Inter insigniores ( anche per una accettazione, che in alcuni punti sembra acritica, della teologia della donna preconciliare). Soprattutto mancano le sfumature…tutto è chiaro e sicuro, le conclusioni sono nette e logicamente deducibili, le posizioni differenti dalla propria sono duramente combattute, il nemico è identificato nella teologia femminista; nella prima parte si ha la “pretesa” di fare una summa enciclopedica dell’essere uomo e dell’essere donna, mentre nella seconda parte manca una discussione critica di quelle posizioni che Hauke dà per scontate e che invece gli altri teologi discutono in quegli stessi anni…In ogni caso Hauke resta una voce del tutto isolata nel periodo post-conciliare nel suo fondare l’esclusione del sacerdozio alle donne su quella particolare interpretazione di 1Cor 14 (testo inteso come espressione di un “comando del Signore”). (A. Piola, Donna e sacerdozio, Torino, Effatà, 2006, 498-499). E’ evidente che, nella economia articolata di una Commissione, debba sempre essere tenuto presente con scrupolosa attenzione il principio di garanzia “audiatur et altera pars”. La “altera pars” si presenta dunque con un profilo alquanto definito. Ora attendiamo fiduciosi il profilarsi altrettanto chiaro di una “pars prima”.