Verso una “riconciliazione liturgica”: due idee del Card. Koch, anzi tre.
Le recenti parole del Card. Koch, così chiare nell’individuare la “impossibile coesistenza” di due forme diverse del medesimo rito romano, possono essere unite con un’altra idea, che il medesimo Cardinale aveva già espresso in passato, fin dal 2011: ossia la esigenza di un “riconciliazione” tra le due forme del rito romano. E’ evidente, quindi, che dalla sua riflessione emergono due spunti importanti, che non possono essere intesi come “idee diverse”, o, peggio, come “idee in contraddizione”, ma piuttosto come la articolazione di un ragionamento, dal quale vorrei trarre una terza idea, volta a chiarire la “praticabilità concreta” di una soluzione al dissidio liturgico sperimentato a partire dalla fine degli anni 80 del XX secolo. Provo a strutturare il mio ragionamento in tre brevi passaggi:
a) Come più volte è stato rilevato, la “invenzione” del MP Summorum Pontificum era orientata ad una “riconciliazione”. Una riconciliazione con il “tradizionalismo”, sia esterno, sia interno alla comunione cattolica. Ma il nobile fine di una “Chiesa liturgicamente riconciliata” è stato perseguito mediante uno strumento troppo fragile e assai insidioso: ossia attraverso un “parallelismo rituale generalizzato”. Ci si era convinti che la presenza parallela di una “forma straordinaria” accanto alla “forma ordinaria” avrebbe riportato la pace nella Chiesa. L’esito dell’esperimento di questi 13 anni ha però mostrato ampiamente che il mezzo della “doppia forma dell’unico rito romano” è non soltanto una costruzione astratta, ma anche un rimedio istituzionalmente incontrollabile, ecclesialmente piuttosto lacerante e spiritualmente insidioso. Non alimenta la riconciliazione, ma la divisione e la sedizione, su entrambi i versanti: rende il rito antico sempre più oscurantista e il rito riformato sempre più intellettualistico.
b) Quindi, ed è la seconda idea espressa dal Card. Koch, occorre procurare una “riconciliazione”, ma evidentemente per un’altra via. La via della riconciliazione – che il Card. ha chiamato, nel 2011, una sorta di “ecumenismo intracattolico” – non deve essere pensata a livello di “forme parallele”, ma come evoluzione dell’unica forma celebrativa, da assumere proprio nella serietà della sua natura di “forma rituale”. Risulta, pertanto, che il bisogno di una “riconciliazione liturgica”, dal Concilio Vaticano II potentemente introdotta nella coscienza e nel corpo ecclesiale, debba abbandonare la strategia dello “stato di eccezione liturgica”, che ha caratterizzato la Chiesa dal 2007 fino ad oggi, e debba riprendere il cammino di un’unica forma rituale, che assuma in pieno tutti i linguaggi della celebrazione.
c) Ed ecco, allora, la terza idea, che non è esplicitamente del Card. Koch, ma ne costituisce quasi un “corollario”. Che cosa rappresenta dunque la “riconciliazione liturgica”, se non può essere una “riforma della riforma”, né un “nuovo movimento liturgico”? Credo che le sue caratteristiche fondamentali potrebbero essere così sinteticamente presentate:
– implica un lavoro su un unico tavolo: il rito romano ha un’unica forma, quella scaturita dalla Riforma Liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. Non può esservi alcuna riconciliazione liturgica senza ascoltare fedelmente la voce del Vaticano II: non si può fare la pace né “contra Concilium” né “praeter Concilium”;
– la riunificazione della forma permette di lavorare su di essa a diversi livelli: infatti si deve valorizzare la riforma liturgica non solo a livello verbale, ma anche a livello “non verbale”. Attivare tutti i linguaggi della celebrazione è, in effetti, una nuova definizione dell’ars celebrandi secondo “Sacramentum Caritatis”. Ed è su questo punto che il Novus Ordo può “essere riconciliato” con se stesso e con la tradizione che ha ricevuto e ora trasmette;
– il Vetus Ordo, sul piano della lingua, da secoli non viene compreso: per questo ha saputo dar valore più al registro “non verbale” che a quello “verbale”. Questa condizione deve diventare una “luce” per lavorare sul NO. E’ l’uso del NO a diventare il terreno di lavoro su cui la Chiesa può recepire davvero, integralmente e plenariamente, tutta intera la tradizione del “rito romano”, in una unica forma vincolante per tutti, ma valorizzata sui diversi livelli della sua espressione “multimediale”: parola e canto, spazio e tempo, silenzio e movimento, tatto e odorato sono “organi” di esperienza e di espressione del rito romano: in una forma unica, ma non univoca né monotona.
In conclusione, le due idee del Card. Koch trovano in una terza il loro compimento. Proviamo a riassumerle in conclusione:
– la esperienza della “doppia forma parallela dello stesso rito romano” ha dimostrato di essere fragile dal punto di vista teorico e pericolosa dal punto di vista pratico: perciò deve essere superata uscendo dallo “stato di eccezione” che ha determinato;
– resta tuttavia l’esigenza di una “riconciliazione liturgica”, che riprenda il progetto del Concilio Vaticano II e lo recepisca in modo pieno, equilibrato e profetico, per “far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli” (SC 1).
– alla concorrenza “tra forme parallele”, che non genera pace ma discordia, si deve sostituire la correlazione tra “forma verbale” e “forma rituale”, sulla cui integrazione la sapienza ecclesiale deve predisporre strumenti teorici nuovi e buone pratiche comuni, affinché l’unica forma del rito romano, in sé indivisa e concorde, possa brillare di nobile semplicità “per ritus et preces”, mediante la partecipazione attiva di ogni fedele battezzato.
Gentile professore, apprezzo molto la prospettiva da Lei assunta e rilanciata in questo articolo. Una “riconciliazione” tra le due forme vigenti, in vista di ritrovare l’unità celebrativa del rito romano è auspicabile. continuo a non capire però perchè si ritenga inadeguata la dicitura di “riforma della riforma” per tale processo. se riformare la riforma liturgica volesse dire annullarla è certo che ciò non andrebbe, ma se vuol dire proseguirne l’opera non facendo dei risultati attuali il punto di arrivo indiscutibile, mi sembra che ‘riformare l’esito della riforma liturgica’ sarebbe altamente auspicabile. accettando di rivedere certi postulati preriflessi con cui la si operò (archeologismo, mitizzazione dell’epoca patristica, razionalismo tomista…) e ritrovando anche gli apporti possibili del rito preriformato che avrebbero potuto sorreggere, se custoditi e non tagliati, significative istanze rimesse in luce dal Concilio.
Mi colpì molto un’immagine che lessi in una sua pubblicazione (L. Giradi – A. Grillo, Sacrosanctum Concilium: Introduzione e commento, 72-73): la forma preconciliare del rito aveva elaborato una finissima opera di cesello attorno al ruolo del presidente (ritenuto allora l’unico celebrante), la riforma liturgica avrebbe voluto ampliare all’intera assemblea celebrante tale opera di cesellatura artistica. a volte l’esito che si constata nella realtà delle prassi celebrative è però l’operazione contraria: non l’estensione del cesello ma la sua soppressione. l’opera di “riconciliazione” dovrebbe secondo me tentare di ritrovare veramente questo cesello.
la ringrazio per i suoi costanti stimoli alla riflessione e al dibattito ecclesiale.
d. zeno carra
Caro Zeno, sarebbe utile che su tutto questo si aprisse un grande e pacato dibattito, che avrebbe come condizione non censurare le parole, ma superare i blocchi formali, legati ad una “concorrenza tra forme” che è deleteria. Spero che si possa dialogare proprio su quello che tu proponi. Un caro saluto