“Vigilare anche sulle parole”: lo storico, il pastore e la sfida del Sinodo


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Da: Si.No.Do. – Questioni Intersinodali – 7 (su “Settimana” 18/2015)

 

Vigilare anche sulle parole”.

Lo storico, il pastore e la sfida del Sinodo

 

Nel cammino verso il Sinodo ordinario, che mira ad offrire una buona “traduzione” della tradizione cattolica sul matrimonio, l’aiuto dei teologi è prezioso. Papa Francesco lo ha detto con chiarezza: la teologia fa progredire l’esperienza pastorale della Chiesa, purché non sia una teologia “al balcone”.

Ad un bravo storico e teologo, J.-Y Hameline, che ci ha lasciato quasi due anni fa, la rivista “Maison-Dieu” ha dedicato un numero in memoriam (279/2014). In questo volume sono ospitati anche tre “inediti”, tra cui un articolo che si intitola “A proposito del cosiddetto rito tridentino”. Tale articolo, che descrive i rischi di una accezione poco meditata e ideologica di “rito tridentino”, si conclude con la frase da cui ho tratto il mio titolo: “I nostri vescovi devono vigilare anche sulle parole”.

Vigilanza sulle parole

Nel testo di Hameline è chiaro che “vigilare sulle parole” significa “salvaguardare” il loro senso vero, non piegarle ad uso ideologico o a forme di vera e propria compromissione della tradizione.

Quasi contemporaneamente alla pubblicazione di questo numero di “Maison –Dieu” usciva in Francia un volumetto, ad opera del Vescovo domenicano di Oran, dal titolo Ogni vero amore è indissolubile (di prossima pubblicazione in italiano). Ed è molto interessante il fatto che in questo testo Mons. Jean–Paul Vesco eserciti con maestria il ministero di “vigilare sulle parole”.

Ma quale “vigilanza” abbiamo imparato dal Vangelo? E in che modo la tradizione ce l’ha consegnata, ultimamente, nella forma del Vaticano II?

Vigilare può essere inteso come “sorveglianza” che diffida, timore della sorpresa negativa, paura del ladro che depreda il deposito, profilassi generale contro il male. Ma questa non è la grande esperienza del vigilare di cui vivono i discepoli di Cristo. I vescovi ricevono, nel ministero apostolico di cui sono investiti, anzitutto la capacità di “vegliare” per l’arrivo dello Sposo, di saper attendere il Signore, proprio quando arriva come un ladro, proprio quando meno te lo aspetti. Si resta sorpresi, ma non dal male, bensì dal bene! La grande vigilanza cristiana è lasciarsi sorprendere dal bene, avere tempo e modo di lasciarlo irrompere, di riconoscerlo e di lasciargli la parola.

Anche di fronte alle grandi parole, che costituiscono il “depositum fidei”, possiamo “vigilare” in questi due modi. Da un lato in relazione ad un “tesoro geloso” che non vogliamo lasciarci sottrarre da interpretazioni erronee, da comodità, da offuscamenti, da tradimenti. Ma questo non è ciò che è più tipico della fede cristiana. La fede, nel porsi in rapporto con la Parola, che è “ispirata”, sa che il rapporto con essa è inesauribile, che si rinnova nel tempo, che la sua verità non sta “dietro”, ma “davanti” e “oltre” ad essa.

La parola, proprio perché ispirata, mantiene sempre un “fondo sconosciuto”, una “risonanza inattesa”, una “accezione più profonda” che ancora non conoscevamo e che ci spiazza.

Che cosa è indissolubile?

Nel suo libro, Mons. Vesco esercita con finezza questo ministero della vigilanza. Oggetto della sua vigilanza sono due parole importanti della tradizione teologica e giuridica del matrimonio cristiano – “indissolubilità” e “scomunica” – che vengono rilette con grande cura, lasciando che il loro significato non venga distorto da precomprensioni ideologiche, da tradizioni troppo unilaterali e da forme di sordità rispetto al reale.

È molto utile ricordare, infatti, che questa vigilanza evangelica, che aspetta l’irrompere del bene, è strutturalmente dipendente da una apertura, da una uscita. Vesco, infatti, per poter restituire alla parola “indissolubilità” tutto il suo significato, deve tenere un occhio aperto sulla storia passata, ma deve guardare anche con empatia, con curiosità e con acutezza al mondo di oggi e di domani. La vigilanza diffidente è tutta convinta di avere già la pienezza del possesso; la vigilanza evangelica resta aperta all’altro, dipende dal futuro.

Mons. Vesco, per onorare questa vigilanza evangelica, recupera innanzitutto un significato “più antico” di indissolubilità. Indissolubile non è il sacramento, non è neppure il matrimonio civile, ma è la convivenza vera ad essere indissolubile! Ogni vero amore è indissolubile. Questo ci dice la tradizione antica e questo, oggi, può diventare un modo per recuperare uno sguardo più ampio sulla realtà del matrimonio, delle relazioni sentimentali e della vita di comunione. Se ogni amore vero è indissolubile, lo è in quanto primo matrimonio, ma lo è altrettanto in quanto “secondo”! Chiedere ai divorziati risposati di sciogliere ciò che oggi li unisce appare, d’un tratto, contrario alla logica più classica della Chiesa!

“Adulterio continuato” o “nuovo inizio”?

Questa prima considerazione sposta l’ attenzione su una questione ulteriore. La “rottura del primo matrimonio” – se coinvolge logiche di colpa e di peccato – costituisce di certo un “atto illecito” e un “reato”. Ma a quali condizioni si può essere “perdonati” da questa condizione di peccato?

Secondo la disciplina acquista negli ultimi decenni, anche dopo Familiaris Consortio 83 e 84, le seconde nozze costituiscono la “continuazione” del reato di adulterio. Finché si vive nella pienezza (peccaminosa) della seconda unione, non può darsi alcuna riconciliazione. Le parole ecclesiali – per mancanza di vigilanza – non sanno distinguere tra adulterio e divorzio e, anzi, considerano il divorzio come un “adulterio continuato”.

Ma Vesco, con sapienza giuridica, vigila sulle parole. Sulla base della nozione classica di indissolubilità egli può affermare che la Chiesa deve considerare la condizione dei divorziati risposati non più come “continuazione dell’adulterio”, ma come un “reato istantaneo” cui segue un “nuovo inizio”, forse di “vero amore”. Questa distinzione, fondamentale, dischiude lo spazio per poter operare un discernimento e accettare non solo che “la riconciliazione e la comunione” sia possibile per i divorziati-risposati, ma che la loro storia – a certe condizioni – sia apertamente riconosciuta come “piena comunione” da parte della Chiesa. Non solo potranno “fare la comunione”, ma potranno anche essere “testimoni di comunione”, sia pure in un percorso nel quale il peccato, la colpa, la crisi e il perdono hanno lasciato tracce e impresso ferite, come in un “ospedale da campo”.

Ai vescovi del prossimo Sinodo la vigilanza esercitata da questo loro confratello potrà suonare particolarmente gradita, affinché – come diceva Paolo VI – le “deprimenti diagnosi” lascino spazio agli “incoraggianti rimedi” e i “funesti presagi” a “messaggi di fiducia”. Per vincere la sfida del Sinodo e per non restare “al balcone”, “i nostri vescovi debbono vigilare anche sulle parole”, la cui verità non sta “dietro”, ma “davanti” ad esse.

 

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